Il singolo, la politica e… oltre
Quanto segue vuole essere una riflessione su una parte del problema creatosi a livello politico, personale e delle relazioni tra le persone e le fazioni in campo, nel nostro Paese dopo la «caduta del muro”. Il contesto è marcato da ciò che accade nella società, ed il sistema osservato è costituito dal mondo della sinistra (cultura, prassi, progettualità) e dagli uomini al suo interno. Il punto di vista è quello di un militante che inizia la sua esperienza nel ‘68 studentesco e continua oggi nella CGIL, avendo sempre rifiutato di ridurre la vita alla sola dimensione della politica, ritenendo che i cambiamenti veri debbano partire dalla gente, per investire la società e ritornare alla gente in termini di miglioramento delle condizioni. Tutto ciò che riguarda la critica della fase attuale del capitalismo è data per scontata, qualunque essa sia ed anche se scontata non è. Il pezzo di cui mi voglio occupare riguarda “noi in questa situazione”, “che cosa dipende da noi?”.
La parola chiave di oggi potrebbe essere “solitudine”. I cambiamenti avvenuti negli anni ottanta ed in questo inizio dei novanta, hanno portato profondi sconvolgimenti, non solo nella nostra vita collettiva, ma anche nelle storie individuali. Il mondo di ieri, forse in modo un po’ troppo manicheo, vedeva lo scontro tra due grandi ideologie (cioè interessi) che rappresentavano due modi di concepire il futuro del mondo, ma anche due diverse fotografie dell’esistente. Ciascun cittadino, implicitamente od esplicitamente, si è collocato in una di esse, anche se con diversi accenti. Era rassicurante sentirsi parte di un’idea più generale e di appartenere ad una aspirazione condivisa da molti, anche se in opposizione a quelle che erano le regole ufficialmente stabilite.
Era diffuso un sentimento di “potenza”. Si sentiva, ciascuno per sè, ma tutti assieme, che l’appartenere ad una parte definita, conferiva un certo potere: con altri, si poteva contare, anche se in opposizione. L’identità personale di ciascuno era adeguatamente salvaguardata: per taluni dalla identificazione con ciò che già c’era ed il suo sviluppo, per altri dall’identificazione col “progetto diverso” da molti sostenuto.
Anche dal punto di vista della creazione delle idee personali, a parte la meravigliosa stagione del ‘68, che ha portato l’innovazione, con la fantasia, provocando un cambiamento “di parte” di interi pezzi della società, tutto era più facile. Tutti potevano contare su intellettuali, partiti, giornali ecc. che offrivano punti di vista già confezionati, ed adeguatamente rassicuranti, da poter essere accettati, calibrando, al massimo, un po’ i pesi. è cresciuto, in definitiva, un meccanismo di delega sia del fare che del pensare. Ciò che, all’inizio, era una cultura del cambiamento attraverso la opposizione, la lotta e la stimolazione del diverso, era diventata conformismo e delega. Ricordo la difficoltà, alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta, a fare accettare la presenza di idee diverse, anche se molto personali e non necessariamente condivise, ma esistenti. La crisi economica, anche se detta e saputa, non aveva ancora intaccato le singole vite, come nella seconda metà degli anni ottanta. Non dimentichiamo l’epoca del “riflusso”, momento in cui, di fronte ad una situazione di crisi (cioè di scelta) delle vecchie analisi ed alla necessità di inventare nuovi strumenti di aggregazione e di pensiero sperimentandoli nel reale, il conformismo aveva prodotto un tale svilimento della fantasia, da far ritenere il compito impossibile. I grandi cambiamenti che si preparavano od avvenivano nel mondo e l’incalzare della crisi economica, non trovavano schemi di pensiero adeguato per affrontare la nuova realtà che poteva così imporsi in modo sempre più selvaggio, mandando in pezzi gli ormai obsoleti strumenti della sinistra. Unica strada diventava la rassegnazione, il tornare a casa, il rifugiarsi nel privato che, inevitabilmente, non poteva reggere tale pressione perché, nel frattempo, si era modificato anch’esso: non era più quello che si sarebbe voluto. I cambiamenti della società, dei modi di pensare, dei ruoli maschile e femminile, avevano reso ostile anche il privato, per entrambi i sessi: non poteva più ammortizzare le frustrazioni esterne, se mai le amplificava. I partiti, le organizzazioni di massa della sinistra, e tanti compagni in esse, nel tentativo di liberarsi dei vecchi strumenti (con scarsi risultati), hanno ritenuto di dover gettare anche l’ideologia.
In modo bizzarro, quello che nella mia adolescenza era sinonimo di innovazione, era diventato elemento di conservazione. Nel tempo, la cultura della sinistra, così come si era venuta a configurare, invece di promuovere l’emancipazione di tutti, stimolando le capacità, l’inventiva dei singoli, per poi aggregarle, trasformando le risorse di ciascuno in collettive, era diventata un vincolo che ci aveva espropriato, attraverso il conformismo, della capacità di inventare soluzioni ai problemi individuali e collettivi, opinioni da poter cimentare con quelle degli altri. Il partito comunista, da organizzazione di quelli che sceglievano di stare dalla parte della classe operaia e degli oppressi per realizzare una società più equa, da strumento era diventato un fine. Invece di essere il luogo politico in cui sperimentare nuovi modi di essere e di azione politica, era diventato una macchina omologante che rifiutava ogni tipo di diversità. Il fine era il mantenimento del partito stesso e, per di più, uguale a se stesso. Le nuove diversità non hanno potuto trasformarlo, renderlo più adeguato alla nascente realtà. Uguale sorte per il sindacato. è stato meno faticoso accedere alla cultura della classe dominante, piuttosto che ripartire dai nostri ideali, tuttora validi ed attuali, per inventare strade nuove. Partiti e sindacati non hanno colto da subito, e con la necessaria forza, i fenomeni portati dalla società, tipo l’abbandono della militanza nei partiti, ma anche nuove risorse tipo l’attivazione, nel Paese, del volontariato, la nascita di parecchi centri sociali giovanili, aggregazioni varie su singoli problemi, di tipo ambientale, locale, per la pace, nelle fabbriche ecc.: tutto ciò che non rientrava nel vecchio modo di vedere il mondo, anziché essere elemento di riflessione, di contraddizione, veniva bollato come marginale (anche se il volontariato riguardava 8 milioni di persone), poco significativo, trascurabile o strano (associazioni ambientali, centri sociali giovanili, gruppi di opposizione nelle fabbriche). Ma sono solo alcune delle nuove forme di aggregazione, di attivazione, per opporsi al degrado generale e alla solitudine di ciascuno. Sono situazioni deboli, risposte parziali, tentativi che non possono avere il significato e la forza, anche di rassicurazione, di quelle di un tempo. Solo se la sinistra trova il modo di aggregarle in un progetto, anche culturale, più complessivo (come si diceva un tempo), possono trasformarsi in opposizione, lotta, spezzoni significativi di una possibile società futura. Per immetterci su un binario simile, è opportuno ridare dignità alla capacità autonoma di pensiero di ciascuno, incoraggiarlo, sostenerlo, renderlo capace di difendersi, di saper navigare nel quadro confuso che abbiamo davanti. La solitudine, la destrutturazione, la confusione possono essere superate dal riappropriarsi della volontà di pensare in modo autonomo, sulla base della nostra storia, esperienza, cultura.
La vita quotidiana delle persone è caratterizzata dalla separatezza e dalla solitudine. Sui posti di lavoro, l’aumento dei ritmi, la paura del licenziamento, la diminuzione dei salari reali che costringe, per mantenere gli stessi livelli di consumo (a volte già a livelli minimi), ad essere più produttivi (doppio lavoro, aspirazioni a promozioni ecc.) porta a vivere il proprio vicino come nemico, a non esporsi con lui per non rendersi vulnerabile, ad essere maggiormente omologato rispetto ai comportamenti richiesti da chi detiene il potere, per essere scelto ed accedere a maggiori livelli di consumo e di influenza. Tutto, però, isola, rinchiude, separa, impedisce nuove forme di pensiero e di azione.
Anche nel tempo libero, per il mondo giovanile, ma non solo, le forme più organizzate hanno la caratteristica comune della solitudine accompagnata da passivizzazione ed impotenza. Le discoteche sono il luogo in cui non è possibile parlarsi per i decibel troppo elevati. Il divertimento è costituito dal piacere dell’uso del proprio corpo (il ballo, il fare sesso, l’affaticarsi fisicamente per “sentirsi”). L’appartenere a qualcosa di più grande del singolo è dato dall’essere in tanti nello stesso luogo, o nell’essere giovani, o dall’amare lo stesso genere musicale. Ma ciò non riesce a spezzare la solitudine se, per avere tali comportamenti, per molti vi è la necessità di consumare smodatamente sostanze come alcool o droghe. Per essere “brillanti”, aggressivi, per avere più coraggio nel porsi con l’altro sesso, spesso, i ragazzi fanno uso di sostanze che, da un lato, stimolano il tono per comportamenti rampanti, e, dall’altro, sedano le ansie che ciò comporta.
In definitiva, ritengo che a tutti i livelli (personale, di gruppo, politico, sociale ecc.) dovremmo mettere in campo atteggiamenti che uniscano, rendano attivi, facciano sentire protagonisti della loro storia sia le persone che i gruppi in cui esse si trovano a vivere. Vi rientrano anche i partiti, i sindacati, tutte le organizzazioni che determinano la vita concreta. Stimolare le diversità per riconoscerle ed apprezzarle, in particolare quando ci costringono a grossi sforzi per metterci in sintonia, è importante per avere diverse possibili risposte di fronte al nuovo che incalza. Forse rompere la solitudine nella vita come nella politica, significa proprio rifiutare ogni logica di delega, rendersi attivi nella relazione con gli altri (persone, gruppi, partiti ecc.). Qualunque sia la proposta politica e l’analisi, la novità di oggi potrebbe essere proprio che il nuovo progetto deve contenere, come elemento caratterizzante, concetti di attivazione, di rifiuto della delega che sono garanzia per la condivisione.