Preti in condizione operaia
Sono l’ultimo arrivato. Dovrei presentarmi e tentare di spiegare come mai un uomo di trent’anni, un “figlio del riflusso” (!), decide di inserirsi (proprio ora!) in un percorso da molti giudicato ormai al capolinea…
Io penso che certe intuizioni possano essere comunicate non al momento della loro formulazione “a tavolino” bensì dopo averle sperimentate “sul campo”. Del resto questa è la stessa dinamica di comprensione e di comunicazione della parola di Dio, come ci ricorda il passo di Es. 24,7: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e poi lo ascolteremo”.
Tuttavia, tenendo fermo il silenzio sul “lavoro in corso”, per l’insistenza degli amici PO della Lombardia provo a dire qualcosa sul retroterra motivazionale che ha fatto da terreno disponibile ad accogliere il seme della “dislocazione”.
Due precisazioni prima di iniziare. Essendo prete da pochi anni, le motivazioni che mi hanno spinto a dislocarmi in condizione operaia sono più frutto di una ricerca intellettuale che non frutto di esperienza. Motivazioni sorte dalla lettura, e dunque “a rischio”. Mi ritorna alla mente un apoftegma di un anonimo padre del deserto: “I profeti hanno scritto libri, poi vennero i nostri padri che li misero in pratica. Quelli che sono venuti dopo di loro li impararono a memoria. Infine è giunta la presente generazione che li ha copiati e sistemati, inutili, negli scaffali”.
La seconda precisazione. Molti riferimenti e citazioni risulteranno comuni a quelli di altri PO. Alcuni sembreranno slogans logorati per la continua ripetizione. Li riporto lo stesso perché, come dice F. Rosenzweig: “la parola non è mai ultima, non è mai semplicemente parlata. Questo è l’autentico mistero del linguaggio, questa vita propria: la parola parla”.
Ho provato a sistemare in quattro filoni (la divisione è solo una griglia usata per comodità. Gli intrecci, in realtà, sono inevitabili) le motivazioni principali della mia dislocazione. Sono intuizioni, allusioni che qui riporto a mo’ di indice ragionato.
1. MOTIVAZIONI ESISTENZIALI
• Nella stagione della vita dove si impone la ricerca di una propria identità, ho potuto gustare il valore dell’inquietudine, che, contro ogni desiderio definitorio e definitivo, spinge nella direzione di un’identità dinamica. Mi ha segnato la riflessione di E. Bloch sul “principio speranza”, il suo concepire l’esistenza umana come “viaggio duro e rischioso, un soffrire, un peregrinare, un errare
, un cercare la propria dimora nascosta… nella coscienza della luce”. Ho scoperto che questa inquietudine – ricerca non è propria solo di chi crede in un “trascendere senza trascendenza” ma è iscritta nello stesso codice genetico dell’esperienza di fede ebraico – cristiana. Facendo riferimento a Gen.12,1ss (ed Eb.11,8) si potrebbe chiamarla “identità abramitica” (ma vale anche per Gesù: Lc.9,58 e Gv.3,8 ). “La tentazione di guardare indietro, come Lot, è continua. Anche la nostalgia dell’Egitto con le sue cipolle sicure. Abramo invece, non sapeva dove andava, sapeva soltanto che doveva lasciare. Gli Ebrei conoscono solo l’asprezza piatta del deserto, non la mappa della terra promessa. Gesù in croce urla disperato perché tutti, perfino il Padre, lo hanno abbandonato. L’avventura della fede non si iscrive nel cerchio dell’eterno ritorno ma nella linea retta di un cammino senza appigli, senza sicurezze” (E. Gentiloni).
• A livello più esperienziale, nei 5 anni vissuti come prete di parrocchia, in un quartiere della periferia sud di Milano, ho provato l’esigenza di ricercare una condizione di vita meno privilegiata. Inoltre sono stato come “roso da un tarlo” che chiamo “sospetto di arroganza”: un senso di insopportabilità nei confronti del protagonismo clericale che ho provato sia a livello psicologico sia come problema teologico. Mi riconosco in queste parole di P. Tillich: “La nostra vita religiosa è riconoscibile per l’immagine di Dio che l’uomo si crea. Penso a quel teologo che non aspetta Dio, perché lo possiede in una sua costruzione dottrinale. Penso a quello studente di teologia che non aspetta Dio perché lo possiede chiuso in un libro. Penso a quell’uomo di chiesa che non aspetta Dio, perché lo possiede racchiuso in un’istituzione, penso a quel credente che non aspetta Dio, perché lo possiede nella propria esperienza. Non è facile sopportare di non avere Dio, di doverlo aspettare; non è facile predicare ogni domenica senza mai pretendere di possedere Dio e di poterne disporre. Non è facile annunciare Dio ai bambini e ai pagani, agli scettici e agli atei, spiegando nello stesso momento che anche noi non possediamo Dio, ma dobbiamo attenderlo. Sono convinto che gran parte dell’opposizione al cristianesimo si basa sulla pretesa chiara o no dei cristiani di possedere Dio, la qual cosa comporta la perdita della dimensione dell’attesa… Noi siamo più forti se aspettiamo, che se possediamo”.
2. MOTIVAZIONI BIBLICO – SPIRITUALI
Qui l’indice si fa, per forza di cose, ancor più allusivo! Ogni tema qui riportato richiederebbe per sé un intero articolo. Provo solo a far intuire il “clima”…
a. Tema della povertà
Dell’avere.
Don Milani invitava a “parlare sempre dalla cattedra ineccepibile della povertà”. E P. Chevrier intuiva che il mistero dell’incarnazione richiede come testimoni “preti poveri per i poveri”.
Dell’essere.
Anche su questo fronte don Milani è un maestro: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. Ha inciso su di me la testimonianza dei PO sulla condizione operaia vista dall’interno, là dove “si condivide un devastante impoverimento dell’essere, un balzo indietro rispetto al livello di evoluzione della specie, che in altre condizioni materiali è possibile raggiungere”. Sulla stessa linea un’intuizione fatta propria dai centri di cultura popolare nel loro intervento: “l’oppressione modifica la psicologia dell’oppresso”.
Centralità dei poveri.
Lc.4,16ss: “…mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio”. Sono le parole con cui Gesù inaugura il suo ministero pubblico e che per l’evangelista Luca contengono in un certo modo tutto il vangelo. Esse alludono al tema biblico della centralità dei poveri, messo a fuoco, a livello esegetico, da J. Dupont (non è un problema solo etico, ma ne va del volto stesso di Dio e dell’immagine di Chiesa…); ed elaborato, a livello teologico, nelle teologie della liberazione (“opzione preferenziale per i poveri”; ma anche la CEI ha parlato di “ripartire dagli ultimi”!).
Fede povera.
“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo il nazareno, alzati e cammina “(At. 3,6). “…Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor.12,7-10. Su questo tema della fede povera sono stato ammaestrato sia dalla riflessione monastica della Comunità di Bose, sia dalla riflessione ecumenica (Gruppo di Dombes) sia da quella secolare dei PO (interessante convergenza!) a non confondere l’identità cristiana con quella confessionale o culturale o ideologica.
Non avere con sé nulla se non una fede da condividere. Anche perché l’avere delle cose, delle strutture, comporta l’incontrare gli altri nel ruolo di chi gestisce e deve difendere ciò che ha. Non si inserisce qui l’esperienza di Francesco d’Assisi? “Una volta il vescovo di Assisi disse a Francesco: “La vostra vita mi sembra dura e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo”. Rispose il Santo: “Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo….” (3 Comp.35).
b. Tema dell’ascolto
Mi sono chiesto e continuo a chiedermi cosa significa ascoltare, intuendo che la fede è ascolto (Dt.6,4: “Ascolta Israele…”. K. Barth diceva: “L’organo della fede è l’orecchio”; i padri direbbero: il cuore!) e che l’altro, ogni altro, va ascoltato come uno che ha un nome proprio, persona riscattata dal regno indenominabile delle cose (“Là dove egli è, è un centro, e quando apre la bocca è un inizio” F. Rosenzweig). Qui è fondamentale la lezione dell’ebraismo, questa “civiltà del commento”, che nasce dall’affaticarsi nell’ascolto!
c. Tema della vita nascosta e della condivisione
“Abita la terra e vivi con fede” (Sal.36,3). “…assumendo la condizione di servo” (Fil.2,5ss). È la vita nascosta di Gesù a Nazareth e Cafarnao (ma anche il suo insegnamento pubblico sul valore del nascondimento e contro il mettersi in mostra e l’ipocrisia…), reinterpretata lungo tutto il corso della tradizione cristiana da coloro che hanno capito che “la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col.3,3): dai Padri del deserto (riguardo ai quali va precisato che la cosiddetta “fuga mundi” non è fuggire il mondo ma la mondanità, la visibilità costantiniana!) a C. De Foucauld (“all’ultimo posto”). Sull’aspetto della condivisione mi ha aiutato anche la riflessione teologica di G. Ruggieri sulla “compagnia della fede”, come accoglimento sovrano e non dialettico dell’altro, come dimostrazione della capacità universale della fede.
d. Tema della storicità della fede, appassionata della vita dell’uomo
“Io sono venuto perché l’uomo abbia la vita e la vita in abbondanza” (Gv.10,10). “Dio non ha creato la religione ma il mondo” (F. Rosenzweig). Su questo punto, così importante per il rapporto tra teonomia e autonomia, (“un rapporto totalmente diverso da quello che corrisponde ad una sintesi…: lega il non addizionabile”, E. Levinas) gli stimoli più importanti mi sono giunti dalla riflessione teologica di D. Bonhoeffer, dai “teologi del Concilio” (Chenu, Congar, Rahner…), da E. Schillebeeckx (“la causa di Dio è la causa dell’uomo”), da I. Mancini (“fare la duplice professione di fede”, senza mai opporre Dio e l’uomo) e dalla tradizione rabbinica.
e. Tema della gratuità
Anche qui accenno solo alla categoria della “dedizione incondizionata”, categoria centrale nella riflessione cristologica, e all’imperativo, che sorge dall’indicativo, di “predicare gratuitamente l’Evangelo” (1 Cor. 9 e 2 Cor. 11 ,7). Su questo punto mi ha interpellato in profondità la riflessione dei PO sul non diventare “professionisti del sacro”.
f. Tema di un “cristianesimo non giudicante”
“Non giudicate” (Mt.7,1). “Dio ci ha amati quando eravamo ancora peccatori” (Rm.5,8). È quella figura di cristianesimo che ho trovato incarnata nello Staretz Zosimo descritto da E. Dostojevski nei “Fratelli Karamazov”: figura tipica del monachesimo russo e prima ancora dei padri del deserto (Abba Poemen, ad un fratello che gli chiedeva: “Alcuni fratelli vivono con me. Vuoi che dia loro ordini?” rispose: “No! Diventa per loro un modello, non un legislatore”), che trova un vertice in Isacco di Ninive, il cantore della misericordia: figura importantissima con cui è bene fare i conti, se si vuole ripetere con il salmista: “amore e giustizia voglio cantare”. Nel sermone 81 Isacco dice: “Cosa vuol dire un’anima, un cuore pieno di compassione? È un cuore che brucia per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per gli animali, per i serpenti, per i demoni. Il loro ricordo e la loro vista fanno versare lacrime ai santi. E la compassione immensa e intensa di cui trabocca il cuore dei santi li rende incapaci di sopportare la vista della più piccola ferita, anche insignificante, in una qualunque creatura. Così essi pregano in ogni momento con lacrime anche per gli animali, per i nemici della verità e per coloro che fanno loro del male”). È l’invito a vivere l’ “ypomonè” (lo stare in posizione di sostegno rispetto agli uomini e alla storia, partecipando alla pazienza di Dio) e “la macrothymia” (il sentire in grande, che crea un atteggiamento di misericordia).
3. MOTIVAZIONI ECCLESIALI
Solo tre accenni tra i molti possibili.
• Una diversa forma del ministero presbiterale. Quello della “forma” è un problema che investe tutti. Anche nel ministero in parrocchia, in un ambito ritenuto dai più pacifico e, di fatto, non problematizzato, un prete deve con fatica trovare la forma per esprimere il proprio ministero. Qualcuno lo risolve attraverso la scorciatoia “essenzialistica” (il prete, per essenza, “è” e “fa”…) stabilendo tutto a priori. Io sento l’importanza di ricercare una forma che emerga dallo “stare”, con la passione per l’Evangelo. Del resto mi sembra che la Presbyterorum Ordinis si muova in questa direzione. A livello teologico mi hanno aiutato le riflessioni di S. Dianich e di G. Moioli sulla figura del prete diocesano. A livello di spiritualità, il Prado.
• Nel processo della “nuova evangelizzazione”. Tra le tante mi hanno illuminato le riflessioni di C. M. Martini eW. Kaspers sulla nuova evangelizzazione intesa non come “conquista” di spazi per l’annuncio, ma come invito alla Chiesa di essere in stato di conversione. E l’invito di P. Ricca a ricercare quel messaggio specifico, particolare, che colpisce il cuore di una generazione e la risveglia; una parola specifica che non si può improvvisare, in quanto è una “rivelazione”, per la quale occorre pregare e leggere la Bibbia con il cuore del nostro tempo e con la fede di Abramo.
• Sul versante ecclesiologico mi hanno stimolato gli studi di G. Lohfink sulla Chiesa come “società alternativa” che annuncia “per fascino” (col problema aperto di come mantenere la radicalità del Vangelo senza costruire comunità parallele che, di fatto, fagocitano l’uomo nei recinti del Sabato…).
4. MOTIVAZIONI SOCIOLOGICHE
a. Lo scandalo della povertà-impoverimento
Vista nel terzo mondo (ma ora bisognerebbe chiamarlo l’altro mondo!) grazie ai rapporti di Pax Christi, alle denunce delle teologie della liberazione, al dibattito più generale sul rapporto nord-sud…. Vista nel primo mondo con gli occhi di don Milani, nella riflessione del CNCA (l’emarginazione creata dalla normalità può essere riscattata non con l’assistenzialismo ma con la condivisione e il rendere protagonisti), nelle inchieste della GIOC sulla condizione dei giovani lavoratori…
E, ancora, hanno avuto la funzione di collirio per un vedere più in profondità alcune esperienze fatte in prima persona, le testimonianze dei PO, la loro riflessione sull’agire contro il subire passivo (su quest’ultimo punto ho trovato interessante la riflessione della “Scuola di Francoforte” sulla ragione strumentale e la ripresa teologica di J.B. Metz e J. Moltmann).
b. La scoperta del mondo operaio
Scoperta avvenuta grazie ad una serie di incontri: con la gente del quartiere dove ho vissuto per 5 anni come prete di parrocchia, con i PO, con alcuni amici militanti…
Presenza colta grazie ad alcuni giornali “non fotocopia” che anche nell’ubriacatura ideologica degli anni 80 hanno cantato fuori dal coro che gli operai continuano ad esserci e mantengono una loro centralità.
L’intuizione che, proprio perché oggi il mondo operaio non è più “sotto i riflettori” è necessario un maggior ascolto, un ascolto “diverso”, non più bloccato da paure ideologiche.
c. Stare per capire
Da ultimo voglio ricordare la messa in rilievo del ruolo ermeneutico della condizione sociale, ovvero della costruzione di un punto di vista sulla realtà che sia critico e consapevole dei condizionamenti e dell’impossibilità di una presunta neutralità – scientificità (ricordo alcune stimolanti riflessioni di G. Girardi). E lo sguardo dal basso e dal di dentro di D. Bonhoeffer (il quale, allo stesso tempo, pone il problema del “successo”, del non far diventare questa prospettiva dal basso un prendere partito per gli eterni insoddisfatti, poiché dal punto di vista etico non è irrilevante se le proprie scelte hanno successo o no, incidono o no sul cammino storico…).
Ecco dunque accennati i fili principali che compongono il tessuto motivazionale del dislocarmi in condizione operaia. Sono stati intessuti “a tavolino”, nel ruolo di apprendista tessitore. Non so se questa trama reggerà alla forza d’urto della vita operaia (già ora, agli inizi dell’esperienza, reinterpreterei modificando e sfumando alcuni aspetti…).