PRETIOPERAI ospita uno studio introduttivo a “La questione del lavoro nell’opera di Simone Weil”.
L’articolo è comparso sul numero speciale della rivista “Cahiers Simone Weil” (Tome XVI, n°4, décembre 1993, in occasione del 50° della morte di questa persona straordinaria.
Oltre che riportare fedelmente il pensiero di Simone, l’autore, sulla scorta delle modificazioni che hanno investito l’organizzazione del lavoro e nella prospettiva di cambiamenti ancora più massicci, pone degli interrogativi all’impostazione teorica della Weil che di persona ha sperimentato la vita di fabbrica. E così si entra in un dibattito estremamente attuale e ad un livello inconsueto.
Ringraziamo la Direzione della Rivista che gentilmente ci ha consentito di pubblicare la traduzione di questo studio.
Di seguito riportiamo le sigle utilizzate da “Cahiers de Simone Weil” per le citazioni. Queste sono state lasciate nell’originale francese, sia per la difficoltà a reperire i corrispondenti riferimenti nelle opere tradotte in italiano, sia perché alcuni testi non sono ancora stati pubblicati in Italia.


 

 

Poiché il titolo di quest’incontro è “Leggere Simone Weil oggi” e poiché io dedicherò questa relazione alla questione del lavoro, comincerò con la lettura di qualche riga scritta nel 1992 da Hugues De Jouvenal, Direttore della rivista Futuribles (Rivista di futurologia):
“Indubbiamente si sta preparando una rivoluzione silenziosa; è iniziata una transizione dall’occupazione a tempo pieno, uniforme, sincronica, verso una società in cui le attività monetizzate si organizzeranno secondo schemi molto diversi, con periodi e forme plurimi di utilizzo del tempo, aspettando forse l’avvento di una società in cui il lavoro, fondamento di ogni nostra organizzazione sociale del passato, non sarà … che un’attività tra le altre. Sicuramente ne siamo ancora lontani e, attaccati a degli schemi di pensiero e di organizzazione ereditati dal passato, ci si può chiedere in che misura questa rivoluzione sarà tanto rapida da non dover assistere a maggiori esplosioni sociali fra “chi gode dell’occupazione” e “chi gode del sistema di protezione sociale”, fra le imprese tayloriste di ieri e quelle che, avendo ben capito il gioco, sapranno negoziare la svolta verso tutt’altre forme di organizzazione, di occupazione e indubbiamente di remunerazione” (“Temps et société”, Futuribles, n° 165-166, maggio-giugno 1992, p. 5).


Saremmo dunque impegnati in un periodo di transizione. Siamo ancora nell’era industriale, in cui il tempo di lavoro è lineare e uniforme, per il fatto stesso della sua remunerazione: il tempo passato a svolgere un compito stabilito, con lo stesso orario per tutti, in un luogo dove sono riuniti i lavoratori. L’impresa è il luogo fondamentale della socializzazione. Questa organizzazione trova il suo punto d’arrivo, con la razionalizzazione della produzione, nel taylorismo e nel fordismo
. Ma noi viviamo anche la trasformazione e la scomparsa di queste caratteristiche dell’era industriale con lo sviluppo del lavoro part-time, la fine della piena occupazione a tempo pieno e a vita per tutti, lo sviluppo della flessibilità degli orari e dell’età pensionabile. Senza parlare delle difficoltà, per una società che offre sempre meno lavoro salariato, di distribuire la stessa quantità di reddito, al punto che il problema della separazione fra reddito e la quantità di lavoro fornito diventa pressante. Ma che cosa può offrire la lettura di Simone Weil in condizioni così nuove rispetto a quelle che lei ha potuto conoscere? (Ricordiamo che ha vissuto l’esperienza del lavoro in fabbrica come operaia alle macchine, tra il dicembre 1934 e l’agosto 1935). Si potrebbe rispondere che i problemi posti dalla situazione che conosciamo, così come i dibattiti sulle soluzioni da portare, non sono del tutto così nuovi. Gli anni ‘30, periodo di crisi, hanno conosciuto sotto forme talvolta vicine a quelle che conosciamo, le discussioni che animano la nostra epoca5.
Con l’avvento dei totalitarismi nazista e stalinista tali dibattiti si sono spenti. Poi sono stati dimenticati, dopo la guerra, durante quei trenta gloriosi anni (1946-1975), un periodo di crescita che si è creduto senza limiti
.
A questi dibattiti e alle lotte del suo tempo S. Weil fu presente in modo militante, nell’azione e con gli scritti. Quest’impegno si fonda su una filosofia, e particolarmente una filosofia del lavoro, di cui mi accingo a tracciare le grandi linee; dopo di che sarà possibile valutare e discutere il carattere attuale, inattuale… o intempestivo del pensiero di S. Weil.

IL LAVORO NELLA MODERNITÀ

 

S. Weil vede nel lavoro la categoria preminente dell’epoca moderna. Due passi sono sufficienti a sostenere questa affermazione; innanzitutto ne “La prima radice”:
“La nostra epoca ha per missione propria, per vocazione, la costituzione di una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro. I pensieri che si ricollegano al presentimento di questa vocazione (…) sono gli unici originali del nostro tempo, i soli che non abbiamo preso a prestito dai Greci. Ed è perché non siamo stati all’altezza di questa grande cosa che stava nascendo in noi, che ci siamo gettati nell’abisso dei sistemi totalitari”.
(E., p. 125).

Nelle “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, si può leggere:
“Del resto, la nozione del lavoro considerato come valore umano è senza dubbio l’unica conquista spirituale che ha fatto il pensiero umano dopo il miracolo greco; è stata forse questa la sola lacuna nell’ideale di vita umana che la Grecia ha elaborato. (O.C. II 2, p. 92)
.
Non soltanto il lavoro appare come la categoria centrale della modernità, ma è proprio la dimenticanza di questo elemento più saliente che provoca, secondo S. Weil, lo smarrimento della sua epoca (gli anni ‘30) e che conduce al totalitarismo.
Fin dai suoi primi scritti, S. Weil pone come tesi filosofica che l’evidenza del mondo e la sua realtà rimandano al lavoro:
“Il mondo è per noi un ostacolo, ma noi lo conosciamo nella misura in cui lo incontriamo (…). Il reale e la necessità sono la stessa cosa”. (O.C. I, p. 376).
Quanto alla necessità, essa è definita come
“un’impossibilità di oltrepassare gli intermediari” (op. cit., p. 372). Infatti è proprio il lavoro che si oppone alla metamorfosi nella quale si passa brutalmente da una forma all’altra, cambiando essa completamente e all’improvviso. Il lavoro, al contrario, è un’azione indiretta che si fonda sulle leggi dello spazio e la forma del tempo. Essere al mondo è sentirsi dipendere da qualche cosa di estraneo che io sento, in cambio, dipendere più o meno da me (O.C. I, p.185). L’esperienza primordiale è quella dell’intreccio con l’esteriorità, l’esperienza della dipendenza in rapporto a qualcosa di esterno e la forza del lavoro per dominare questa necessità. L’esperienza primordiale è quella della presenza antagonista di una necessità reale e delle sue leggi, necessità che richiede l’azione indiretta, il lavoro.
Ecco ciò che permette alla filosofia di S. Weil di presentarsi come una filosofia della “condizione umana” (Questa “parola di un’ambiguità ammirevole”)
. La questione fondamentale non è sapere se io sono ciò che io sono. La questione è “come sono, in quale condizione esisto” (O.C. I, p. 141). La nostra relazione col mondo è innanzitutto una mescolanza di potenza e impotenza, di dipendenza e di distacco. Ma se noi siamo così, allo stesso tempo passivi e attivi, come possono queste tendenze conciliarsi in modo tale che le condizioni sotto le quali noi esistiamo siano contemporaneamente la nostra forza? Solo il lavoro, come azione indiretta e metodica, permette di operare questa conciliazione (Sul lavoro come azione indiretta, si rimanda ai primi scritti di S. Weil, che forniscono la chiave d’interpretazione dell’attività lavorativa in tutto il seguito dell’opera). È dunque nel lavoro che c’è un mondo per qualcuno. Il lavoro appare come la prova delle leggi dell’esteriorità, prova della necessità reale. La scienza permette di accedere alla necessità teorizzata (essa misura e prova). Il lavoro permette di provare il più alto grado dell’essere, la necessità reale.
Ma il valore del lavoro, quale prova della pura necessità, è disgraziatamente contraddetto dalle forme oppressive di produzione, che rendono servile il lavoro ed impediscono all’individuo di fare la prova della corrispondenza delle sue capacità con le leggi della necessità materiale. La critica sociale, in S. Weil, nasce da questa filosofia della realtà, della condizione umana, del lavoro. Essa non è soltanto la conseguenza di una posizione politica
.
Se il lavoro è la categoria principale della modernità, che cosa è mancato ai Greci perché la loro saggezza, così lodata da S. Weil, fosse perfetta? Interrogarsi su questo difetto della tradizione greca vuol dire interrogarsi sul rapporto che esiste, in ogni attività, tra libertà e necessità. Il modo di concepire questo rapporto spiega lo spazio dato al lavoro nella tradizione greca, in opposizione alla dimensione ad esso conferita dalla modernità.

RIFIUTO DEL MONDO GRECO

Definizione del “modello greco”


Secondo S. Weil la Grecia ha considerato come immagine positiva solo “la parte del lavoro che non è regolata da un oggetto”, la parte che non ha alcun rapporto con la necessità, cioè la pura attività che caratterizza la ginnastica, l’atletica
. Ma da quando l’attività pura, che ha in se stessa il suo fine (la praxis) non è più regolata da un oggetto, è isolata dalla necessità, il lavoro, dal canto suo, viene considerato come un’attività forzata, una sottomissione alla necessità. E sotto questa forma esso è lasciato allo schiavo e all’artigiano.
S. Weil tenterà costantemente di superare quest’opposizione per cui la libertà è isolata dalla necessità. Perché un’attività senza la prova della necessità esterna non è libera, ma vuota; la libertà diventa assurda e il lavoro diventa soltanto una costrizione
. La modernità ha scoperto – e secondo S. Weil questo è il suo merito – che il lavoratore può essere libero quando “il corpo atleta e lo spirito geometra” hanno come oggetto la necessità dell’ordine esterno e quella della soddisfazione dei bisogni. Per schematizzare il pensiero di S. Weil su questo punto si potrebbe dire che la separazione tra lavoro e libertà genera quattro figure.

1) L’oppressione: lo schiavo.
Non essere confrontato liberamente con l’ostacolo della materia nel proprio lavoro, è rischiare di essere sottomessi alla volontà di altri uomini. Quando non si è messi a confronto con la necessità nelle cose mediante un’attività libera e metodica, si rischia la sottomissione alla volontà altrui sulla quale l’azione metodica è impossibile (“Nella misura in cui la sorte di un uomo dipende da altri uomini, la sua vita sfugge non solo dalle sue mani, ma anche dalla sua intelligenza; (…) invece di agire, bisogna abbassarsi a supplicare o a minacciare, e l’anima cade negli abissi senza fondo del desiderio e del timore” / Réflexions…, O.C. II 2, pp. 82-83).

2) La libertà illusoria: l’uomo di svago.
Egli è liberato dal lavoro e dall’autorità altrui, ma è dominato dalle proprie passioni perché la libertà separata dalla necessità non è che arbitraria.
Ciò permette di indovinare lo spettacolo che offrirebbe, secondo S. Weil, una civiltà degli svaghi, in cui la libertà sarebbe isolata dalla necessità: “un popolo di oziosi potrebbe sì divertirsi nel darsi degli ostacoli, nell’esercitarsi nelle scienze, nelle arti, nei giochi; ma gli sforzi che derivano dalla sola fantasia non costituiscono per l’uomo un mezzo per dominare le proprie fantasie”.
(Réflexions…, O.C. II 2, p. 72).

3) La libertà illusoria unita al dispotismo esercitato sugli altri: il padrone.
È la figura più negativa. Si troverebbe nella posizione di padrone colui che, liberato dal bisogno, non sarebbe nell’obbligo di lavorare e il cui dispotismo esercitato sugli altri si associerebbe all’asservimento dell’individuo ai suoi propri capricci.

4) L’età aurea: le società primitive.
È la società anteriore alla conoscenza della necessità; gli uomini sono in balia della mentalità magica:
“…i primitivi (…) si rappresentano il rapporto tra l’uomo e il mondo sotto l’aspetto non del lavoro ma della magia. Fra loro e la rete di necessità che (…) determina le condizioni dell’esistenza s’interpone (…) come schermo ogni sorta di capricci misteriosi in balia dei quali essi credono di trovarsi”. (Réflexions… O.C. II 2, p. 77).

 

Forme contemporanee di questo modello


Ma S. Weil insegue il modello greco fin nelle teorie sociali che le sono contemporanee. Simone respinge ogni forma di società in cui la sfera del lavoro socialmente necessario e una sfera di attività creativa fossero separate (S. Weil rifiuta per esempio l’idea di un servizio civile svolto da tutti i giovani; servizio che sarebbe dedicato al lavoro non qualificato, mentre il resto dell’esistenza sarebbe riservato al lavoro qualificato e soprattutto allo svago)
; rifiuta allo stesso modo ogni riduzione “esagerata” della durata del lavoro che abbandonerebbe la maggioranza degli individui ad uno svago che si ridurrebbe in realtà “all’ozio deprimente” o al “gioco che ha per oggetto la dominazione sugli uomini”. In altri termini, una società in cui non dominasse il lavoro non potrebbe che abbandonare gli individui alla disperazione e alla guerra. Ecco perché S. Weil porta la sua critica più vivace sugli effetti dell’automatizzazione, che sottoporrebbe “ogni attività umana” (il lavoro e la speculazione teorica) a un rigore solo esteriore, al punto che l’individuo non comprenderebbe niente di ciò che farebbe (essendo la nozione di necessità “assenza di ogni intelligenza”. La società automatizzata sarebbe il simmetrico della società primitiva. Questa era al di qua della necessità (da qui il regno della magia); quella sarebbe al di là della necessità (da qui il regno dell’assurdo): una volta affidata la trasformazione della natura ad in processo materiale, l’attività e il pensiero individuale sarebbero lasciati alla fantasia25.
Secondo S. Weil il problema importante non è quello del tempo libero, né quello della durata del lavoro. Il problema fondamentale è quello del tempo
nel lavoro. Lei ha sempre sostenuto che il fattore più importante del problema operaio era il tempo. E il fondamento filosofico dell’esperienza riportata sul suo diario di fabbrica (e nei diversi testi raccolti ne La condizione operaia) è incontestabilmente l’analisi del tempo.

 

LAVORO E TEMPO DI RIPOSO

  

Alienazione in rapporto al tempo


Bisognerebbe aggiungere una figura a quelle descritte prima: quella dell’operaio, più precisamente dell”operaio alla macchina”, funzione che la Weil esercita lei stessa nel 1934-1935. La condizione operaia è descritta come una forma di schiavitù
. Simone porta la sua attenzione sulla specificità della schiavitù moderna che determina la condizione operaia: “in tutte le altre forme di schiavitù, scrive, la schiavitù è nelle circostanze”. Nella condizione operaia, “la schiavitù è portata nel lavoro stesso” (Frammenti, C.O., p. 168). Nelle forme anteriori di schiavitù, l’oppressione considera la persona dello schiavo proprietà del padrone. Ma nel lavoro lo schiavo aveva ancora la possibilità di utilizzare un saper-fare e un’esperienza che potevano evitargli la fatica o la perdita eccessiva di energia. Nell’industria moderna, al contrario,

il padrone non ha soltanto la proprietà della fabbrica, delle macchine, il monopolio dei processi di lavorazione e delle conoscenze finanziarie riguardanti la fabbrica; egli rivendica anche il monopolio del lavoro e dei tempi di lavoro” (“La razionalizzazione”, C.O., p. 312).

Infatti, spinto dal ritmo della catena, cronometrato nei suoi gesti, l’operaio serve le cose che lo reificano e lo riducono a una forza materializzata, sottoposta a delle coordinate oggettive. A questa necessità di diventare cosa tra le cose, la frusta sarebbe preferibile, scrive S. Weil (C.O. pp.228, 248, 338).
Si coglie bene in quest’analisi l’importanza della padronanza del tempo. Se questa è tolta all’individuo, è il suo essere al mondo che scompare con la perdita della padronanza della forma stessa della sua azione. Questa perdita significa sottomissione all’immediatezza del mondo. Essere incluso come elemento oggettivo in un movimento di sole cose, senza temporalità, senza ritmo, senza intenzione (se non quella altrui, estranea a chi lavora e che nasce sotto forma di ordine brutale), tale è la caratteristica della
schiavitù moderna. S. Weil scrive ancora: “un uomo sarebbe completamente schiavo se ogni suo gesto provenisse da un’origine diversa dal suo pensiero” (Réfléxions…, O.C. II 2, pp. 73-74). “Lo schiavo antico rasentava questa condizione senza raggiungerla; l’operaio moderno la realizza perfettamente. L’individuo vede le condizioni della sua azione trasformarsi in pure costrizioni esterne. In più deve obbligarsi a subirle e a negarsi in quanto soggettività attiva, annullandosi come lavoratore in una sorta di processo di lavoro senza lavoratore”. Processo che definisce la causalità (all’opera nella natura immediata), ma non il lavoro.

 

Oppressione e sfruttamento

 

Il punto centrale dell’analisi Weiliana è quindi l’oppressione e non lo sfruttamento. Su questo S. Weil si distingue da Marx. Certo, dice la Weil, Marx “ha posto la nozione di oppressione al centro della sua opera, ma non ha mai cercato di analizzarla” (Frammenti da Londra, O.L. p. 213). Nel suo studio concreto del capitalismo, Marx coglie bene una delle due opposizioni che coesistono nel regime capitalista, quella “creata dallo stesso mezzo di produzione tra quelli che dispongono delle macchine e quelli dei quali la macchina dispone” (Prospettive , O.C. II 1, p. 269). Questa opposizione determina l’oppressione.
L’altra opposizione è quella “creata dal denaro fra acquirenti e venditori della forza-lavoro”
(ibid.). Quest’ultima opposizione determina lo sfruttamento. La coesistenza di queste due opposizioni nel sistema capitalista “crea una confusione considerevole” tra oppressione e sfruttamento. Dunque per S. Weil lo sfruttamento è diventato un semplice aspetto dell’oppressione: “L’oppressione degli operai salariati prima, al tempo delle officine, fondata essenzialmente sui rapporti di proprietà e di scambio, è diventata con la meccanizzazione un semplice aspetto dei rapporti insiti nella stessa tecnica di produzione” (ibid.)29.
S. Weil propone puramente e semplicemente un rovesciamento del centro di gravità della teoria di Marx. In Marx il rapporto di sfruttamento sembra fondamentale, al punto che la sua eliminazione può generare la fine dell’oppressione. Per S. Weil non si può mettere fine all’oppressione con la sola eliminazione dello sfruttamento, poiché l’origine dell’oppressione risiede nel “regime stesso della produzione moderna, cioè la grande industria”
(Réfléxions, O.C., II 2, p. 32).
Nessun cambiamento del regime di proprietà (la proprietà collettiva che è il comunismo) può risolvere il problema dell’oppressione, che è insita nella “forma del sistema di produzione” instaurata dalla grande industria
(Leçons de Philosophie, 10-18, p. 184). Nelle sue lezioni di filosofia, tenute qui a Roanne (nel 1933-1934), S. Weil dirà: “In Russia il padrone se n’è andato, ma la fabbrica è rimasta” (ibid.), vale a dire che l’espropriazione dei capitalisti non ha soppresso le radici dell’oppressione, cioè la meccanizzazione, che separa quelli che dirigono le macchine da “quelli che ne formano gli ingranaggi viventi” (Abbozzo dell’articolo “Prospettive”,O.L., p. 270).

Marx, secondo S. Weil, non spiega affatto la trasformazione delle “Proprietà sociali della meccanizzazione” (ibid.), p. 261). Eppure, aggiunge, “se c’è una certezza che appare con forza irresistibile negli studi di Marx, è che un cambiamento dei rapporti di classe deve restare una pura illusione se non è accompagnato da una trasformazione della tecnica, trasformazione cristallizzata nelle nuove macchine” (E, pp. 78-79). Si capisce perché l’analisi Weiliana dell’oppressione suppone un’esperienza vissuta; l’oppressione non può essere capita senza piegarvisi nel corpo e nell’anima (è ciò che descrive il diario di fabbrica). Nè Marx, nè Lenin, nè Trotsky avevano l’esperienza del lavoro in fabbrica, fa notare S. Weil e la loro analisi dell’oppressione ne soffre.

 

DISMISURA, MISURA, LAVORO

 

Fare equilibrio, nell’azione indiretta, con le forze della natura


Se servisse un principio capace di guidare verso una soluzione dei problemi del lavoro, questo principio sarebbe quello della misura. La vita moderna, in effetti, è
“abbandonata alla dismisura” e non c’è “più equilibrio da nessuna parte” (C.I. p. 76). Ciò significa la perdita di “ogni rapporto percettibile” “fra l’uomo e se stesso, tra l’uomo e le cose” “fra l’azione e gli effetti dell’azione” (ibid), “fra le diverse funzioni” (C.O., p. 336), fra il risultato e il metodo (C. I, pp. 78-79), fra i segni e il reale, fra lo spirito e il corpo, fra la scienza e le sue applicazioni (cf. o.c. pp. 39 e 64). La perdita di ogni rapporto percettibile è l’impossibilità di pensare concretamente, vale a dire l’impossibilità per l’individuo di comprendere percependo. Lo specifico di un rapporto, precisamente, è di essere percettibile da un individuo. Da quando questo è cristallizzato nelle cose (macchine) o nei segni (algebra) esso sfugge al pensiero.
La dismisura può essere trattata con una messa in rapporto dell’individuo con il reale, a condizione di mettere in gioco una misura, e innanzitutto quella del “corpo umano attivo” (C. I p. 27); pensiero che S. Weil sviluppa così:
“Il segreto della condizione umana, è che non c’è equilibrio tra l’uomo e le forze circostanti della natura, “che lo superano infinitamente, nell’inazione, ma solo nell’azione attraverso cui l’uomo ricrea la sua propria vita: il lavoro” (C. I, p. 26). Rendere intelligibili i rapporti stabiliti nelle cose non significa che basta inserirli nell’intelligenza come conoscenze teoriche. Rendere intelligibili questi rapporti, vuol dire innanzitutto reinserirli nell’unica dimensione che determini “la condizione umana”, il lavoro (Certo, si può leggere nei Quaderni, “l’individuo non ha che una forza: il pensiero. Ma …il pensiero costituisce una forza e fonda quindi un diritto nella misura in cui interviene nella vita materiale”)
.
La misura dell’uomo che lavora si presenta al tempo stesso come un’invariante e come un limite che permettono di dare forma al rapporto dell’uomo con le forze infinite della natura. Qual è questa forma? È quella dell’equilibrio. Ritrovare la misura è ritrovare un equilibrio, un limite alle dimensioni dell’“uomo attivo”. Così la nozione di equilibrio dovrebbe costituire il principio di una nuova tecnologia, essendo l’attrezzo fattore di equilibrio tra l’uomo e la natura:
“Attrezzo: bilancia tra l’uomo e l’universo (…) (non si dimentichi che la barca è una leva). Ad ogni istante il pilota (…) fa equilibrio con l’enorme massa di aria e di acqua.” (C.
I, p. 23).
È questa immagine del rapporto tra il marinaio e la sua imbarcazione che permette di comprendere come la tecnica può giocare un ruolo di intermediario tra l’uomo e l’universo. Ma la messa a fuoco del rapporto del lavoratore con la macchina “analogo a quello del marinaio con la sua nave” (C. I, p. 64) suppone “uno studio approfondito degli strumenti del lavoro …nel loro rapporto con l’uomo”
(Lettera ad Alain, S., p. 112-113).
“Bisognerebbe mettere in chiaro e ordinare in serie tutti i rapporti coinvolti nell’uso di tutti gli strumenti di lavoro, che questi rapporti fossero visti in modo confuso da chi li maneggia, o visti chiaramente da qualche privilegiato posto più in alto della gerarchia del lavoro” (S., p. ll3). Come pensare concretamente un tale progetto? Per esempio, rimediando alla monotonia del lavoro in serie con un nuovo rapporto tra regolarità e diversità. È ciò che S. Weil proporrà nella lettera all’ingegnere Jacques Lafitte, autore delle
Riflessioni sulla Scienza delle macchine:
“A dire il vero, nel lavoro in serie, vi sono delle successioni (…) ma la monotonia e più ancora il ritmo spaventosamente rapido del lavoro fanno sì che questo susseguirsi diventi …incosciente, a sua volta cristallizzato in un automatismo fisiologico (Lettera a Lafitte, C.S.W., t. III, n°3, sett. 1980, p.163).
Introdurre una regolarità non vuol dire introdurre uniformità, ancora meno un ritmo
, l’una e l’altro si determinano con una successione ininterrotta di gesti, “senza che niente indichi mai che qualche cosa è finita e che un’altra comincia”. La regolarità è legata al ritmo, a “quell’intreccio di uniformità e varietà” (C.O., p. 349), senza il quale noi siamo in balia della successione monotona. La giusta misura nel lavoro è un ritmo che unisca la regolarità e la diversità in modo tale che il pensiero sia continuamente sul punto di perdersi nella diversità e continuamente salvato dalla regolarità” (S., p. 235).
Ma… le soluzioni tecniche che potrebbero corrispondere a questa combinazione si devono ancora trovare (ecco perché S. Weil si rivolge a Lafitte). Ed è essenziale trovarle perché il nostro compito è di rinnovare “il patto originario tra l’intelligenza e il mondo”, non con “l’evasione nella vita primitiva”
ma “attraverso la civiltà” tecnologica nella quale viviamo.

Le invarianti

In mancanza di soluzioni tecniche immediate, si possono almeno definire i punti di appoggio necessari nella prospettiva di rinnovare questo patto. S. Weil nota innanzitutto che “concretamente certe unità di misura sono date e sono rimaste fin qui invariate, per esempio il corpo umano, la vita umana, l’anno, il giorno, la velocità media del pensiero umano” (Riflessioni…, O.C. II 2, p. 94). Ma tra le invarianti si potrebbe contare anche il lavoro, la percezione dell’uomo al lavoro, unico punto di ancoraggio che la razionalizzazione taylorista distrugge introducendo lo sradicamento nel lavoro stesso.
Così di fronte ai “tre mostri della civiltà contemporanea” (C. I, p. 39), cioè il denaro, la meccanizzazione, l’algebra ci sono, nella condizione umana, delle invarianti capaci di dare una misura.
Ma la ricerca weiliana riguardante le nuove tecniche e le condizioni di un lavoro non servile entra in un progetto più vasto: fare sì che “il pensiero si trovi nella situazione più felice, che consiste nel sentirsi a casa propria nel mezzo della materia” (S., p. 235), vale a dire “nel luogo del suo esilio” (S., p. 235). Il lavoro non servile dovrebbe costituire una preparazione alla liberazione
(o.c., p. 275): “La liberazione a leggere il limite e la relazione in tutte le apparenze sensibili… in modo così chiaro e immediato quanto un significato in un testo stampato” (ibid.).
O ancora: “Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato all’altro con un lavoro” (C. I, p. 132).
Nel lavoro l’uomo non è assente dall’ordine e tuttavia quest’ordine si riferisce ad un universo spogliato dei desideri e degli sforzi propriamente soggettivi. Ciò spiega come “la percezione dell’uomo al lavoro” (S., p.112) sia così importante nella riflessione di S. Weil. La relazione tra lo spirito umano e l’universo, la saggezza greca è stata capace di renderla sensibile con la sua estetica e la sua geometria
. Quanto sarebbe ancora più sensibile questa relazione grazie ad un’attività come il lavoro. Perché il lavoro permette non solo di pensare questo rapporto, ma anche di provarlo. Tale sarebbe la superiorità di una saggezza moderna sulla saggezza greca. Tale sarebbe il senso di ciò che S. Weil chiama una “spiritualità del lavoro”.
Poiché ritrovare il patto originario tra lo spirito e il mondo” consiste, per S. Weil, nel cercare al tempo stesso soluzioni umane (tecniche e razionali) al problema del lavoro, e nel fare apparire, nel lavoro, ciò che può fondare una spiritualità. Per esempio, quali sono le “proprietà riflettenti”, nella materia, negli strumenti, nei gesti, proprietà che potrebbero fornire, all’attenzione di chi lavora, degli intermediari
capaci di orientare questa attenzione verso il soprannaturale?
Questa spiritualità del lavoro non deve essere confusa con un vago idealismo. S. Weil precisa in effetti che “non si tratta di costruire finzioni o simboli arbitrari
(C.O., p. 362); sono “le circostanze stesse del lavoro” che devono permettere a questa spiritualità di esistere (o.c., p. 367). Liberare l’anima dal suo esilio nel tempo e nello spazio, vuol dire radicarla; e il radicamento non ha niente della fuga fuori da questo mondo industriale e tecnologico.
Cosi S. Weil scrive ne
La prima radice:
“Tutti ripetono (…) che noi soffriamo di uno squilibrio dovuto ad uno sviluppo puramente materiale della tecnica. Lo squilibrio non può essere sanato che con uno sviluppo spirituale nello stesso campo, cioè nel campo del lavoro” (p. l28 / S. Weil in questo passaggio ha presente “Les Deux Sources de la Morale ed de la Réligion”, opera in cui Bergson constatava che “un’umanità dal corpo intensamente sviluppato” dal macchinismo aspettava un supplemento d’anima).
Perciò non vi è “necessità più urgente” (C.O., p. 362) di una trasformazione delle tecniche, volta a orientare l’attenzione verso il soprannaturale. S. Weil cerca (nel movimento circolare, nel movimento alternato, nei ritmi di lavoro) delle analogie, dei simboli, degli intermediari che permettano di passare dalle leggi sensibili a dei meccanismi soprannaturali (S. Weil scrive esattamente: “il lavoro fisico acconsentito è, dopo la morte acconsentita, la forma più perfetta della virtù dell’obbedienza”)
. La tecnica potrebbe così ritrovare la sua destinazione tradizionale partendo proprio dalle condizioni sotto le quali l’uomo moderno esiste.

 

 Una svolta nella concezione del lavoro?

Certamente una simile prospettiva spirituale, elaborata negli ultimi scritti, può sembrare così nuova da far pensare ad una frattura nelle posizioni e nel pensiero di S. Weil. Eppure ricordiamoci di quello che disse a P. Perrin:
“Benché mi sia capitato parecchie volte di varcare una soglia, non ricordo una volta in cui io abbia cambiato direzione” (citato da A. Devaux,
Prefazione alle O.C. I, p. 11). S. Weil non è passata da una concezione del lavoro come attività che permette di completarsi, ad una concezione spirituale del lavoro acconsentito come “la forma più perfetta della virtù dell’obbedienza” all’ordine dell’universo “dopo la morte consentita”. Poiché nei suoi primi scritti Simone analizza già il lavoro come quell’azione indiretta e metodica attraverso cui io mi piego alle condizioni sotto le quali esisto: lo spazio come legge dei lavori, il tempo come forma dei lavori. Il lavoro è “un susseguirsi di azioni che non hanno alcun rapporto diretto, né con l’emozione originaria, né con lo scopo perseguito, né le une con le altre” (O.C. I, p. 125).
S. Weil non cambierà mai su questa analisi del lavoro come attività soggettiva, certo, ma che deve obbedire alle condizioni sotto le quali noi esistiamo per arrivare ad un risultato progettato. Attività che non ha niente a che vedere, di conseguenza, con l’espansione dell’io e della sua forza, ma suppone al contrario l’eliminazione, nell’azione, di ogni rapporto diretto con l’emozione o il fine personale perseguito, per rendersi conforme alle leggi della necessità reale.
La prospettiva spirituale, su questo punto, includerà soltanto (e assoggetterà) l’analisi filosofica del lavoro. Fin dai primi scritti, di conseguenza, l’insistenza sul carattere impersonale dell’attività lavorativa (il fatto che il lavoro implichi una sospensione della prospettiva personale) prepara la concezione del lavoro come decreazione.
 

Significato di una spiritualità del lavoro

La creazione non fu, secondo S. Weil, una manifestazione della potenza divina, ma un’abdicazione, un atto di sacrificio e di amore.
Creando il mondo Dio ha delegato il suo potere alla necessità, che porta così l’impronta divina. Ma creando l’uomo, Dio lo fece libero, capace di esistenza autonoma, capace dunque di separarsi dal suo creatore, di volere l’espansione della forza dell’io.
Eppure – secondo una formula di A. Dévaux che bene esprime il pensiero di
S. Weil – l’uomo dovrebbe comprendere che la sua libertà “risiede essenzialmente nel potere che egli ha di dire sì o no alla necessità:
“Finché pensiamo in prima persona noi vediamo la necessità dal di sotto, dal di dentro; essa ci racchiude da ogni parte come la superficie della terra e la volta del cielo. Non appena rinunciamo a pensare in prima persona attraverso il consenso alla necessità, noi la vediamo dal di fuori, al di sopra di noi, perché siamo passati dalla parte di Dio”
(I.P.C., p.l53).
Bisogna, dunque, dare all’uomo il mezzo per esercitare la sua facoltà di acconsentire liberamente, cosa che non ha niente a che vedere con la rassegnazione. Bisogna imparare a leggere le necessità, e questo è il ruolo del lavoro. Perché, scrive
S. Weil: “Lavorare è mettere il proprio essere, anima e corpo, nel circuito della materia inerte, farne un intermediario tra uno stato e un altro di un frammento della materia, farne uno strumento” (E., p. 378).
Questa è la subordinazione inscritta “nell’essenza stessa del lavoro”, subordinazione inseparabile “dalla vocazione soprannaturale che vi corrisponde” (C.O., p. 369). Ma
S. Weil aggiunge che questa subordinazione, così come una certa uniformità iscritta nell’essenza del lavoro, non degrada. Invece “tutto quello che vi si aggiunge è ingiusto e degradato” (ibid.). Occorre anche, di conseguenza, che “le circostanze stesse del lavoro” permettano alla vocazione soprannaturale di esistere. Se le circostanze “sono dannose”, come scrive S. Weil, “esse uccidono” la sorgente di questa poesia e di questa vocazione soprannaturale del lavoro (C.O., p. 370).
Si può vedere come, fin negli ultimi testi,
S. Weil insista sullo scarto assoluto che esiste tra la inevitabile necessità alla quale dobbiamo acconsentire, le “sofferenze iscritte nella natura delle cose” (C.O., p. 369), e ciò che si aggiunge, cioè che noi aggiungiamo, con delle forme sociali, con forme di produzione che degradano e impediscono di percepire il significato spirituale della necessità reale. Con una formula stupenda, S. Weil scrive che non bisogna sbagliarsi sulla vera necessità attribuendo alla condizione umana delle sofferenze che sono effetti dei nostri crimini e ricadono su coloro che non le meritano. (Questa citazione permette, da sola, di rinviare alla loro poca conoscenza di S. Weil coloro che vedono nella sua persona e nel suo pensiero un’inclinazione per l’infelicità, per la sofferenza, un dolorismo sistematico. Vi sono delle sofferenze che purificano, per poco che si acconsenta alla loro necessità reale. Ma vi sono delle sofferenze che degradano e questa è l’oppressione che noi facciamo passare come una necessità della condizione umana).

Questa distinzione è fondamentale nell’opera di S. Weil, sia che venga espressa in modo filosofico, sia che la sua espressione filosofica venga ripresa in una spiritualità.
Solo avendo presenti queste considerazioni è possibile comprendere l’inclinazione spirituale che
S. Weil diede alle sue analisi delle tecniche e della percezione dell’uomo al lavoro. Per esempio, se Simone estende l’analogia dell’attrezzo concepito come “bilancia tra l’uomo e l’universo” (C. I, p. 29) al simbolo della Croce, “bilancia in cui il corpo di Cristo ha fatto da contrappeso al mondo” (I.P.C., p. 178), è perché il simbolo della Croce “include per natura l’esperienza dell’infelicità che costituisce, oltre alla percezione dei rapporti intelligibili, il centro dell’esistenza umana”, come scrive Rolf Kühn. Ma, (come sottolinea in seguito lo stesso autore) la Croce è simbolo dell”ingiustizia sociale inevitabile” e di un equilibrio redentore. Dunque essa non potrebbe far parte di un simbolismo sociale e storico che permetta di giustificare l’oppressione.

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Ognuno seguirà la Weil fin dove vuole o può. Si può ammettere o non ammettere l’idea Weiliana che la necessità, di cui il lavoro permette di fare la prova, è il potere di Dio delegato al mondo, e che il lavoro deve suggerire qualcosa del principio per cui la necessità assoluta mantiene la sua realtà (S. Weil pone come limite insuperabile ad ogni dovere di eliminazione dell’oppressione “le necessità naturali e la costrizione sociale che ne risulta). Parlando in termini filosofici e pratici, l’essenziale è che l’analisi delle condizioni da realizzare perché il lavoro scopra e suggerisca una conoscenza soprannaturale, sia anche una delle analisi più rigorose di cos
è il lavoro come attività non servile. È su quest’ultimo punto che vorrei concludere.

S. Weil pensa che sia possibile fare l’esperienza del significato spirituale del lavoro, nell’ambito del lavoro socialmente necessario. Ha creduto alla possibilità di superare il taylorismo con una ricostruzione dei mestieri, nell’ottica dell’anarcosindacalismo e dell’élite operaia del XIX secolo. Ha creduto insomma che fossero realizzabili, a partire da quest’ambito del lavoro socialmente necessario, le condizioni di vita favorevoli alle più alte operazioni dello spirito, operazioni che il lavoratore potrebbe esercitare a partire dai gesti più semplici della sua attività.
S. Weil non ha trovato, nelle condizioni del suo tempo, come realizzare la centralità del lavoro produttivo non servile, centralità mediante la quale lei definiva il socialismo e la civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro.
L’impasse incontrata dall’autrice de
La prima radice non è quella del suo pensiero, ma quella della realtà del suo tempo e più ancora del nostro. Il capitalismo del XIX secolo non portava in la possibilità di una società in cui avrebbero prevalso il lavoro manuale non servile e la classe operaia. Questa, sfruttata e oppressa, era mantenuta in una dipendenza che impediva la egemonia nella vita sociale, condizione preliminare di ogni rivoluzione secondo S. Weil.
Se oggi c’è ancora sfruttamento e oppressione nel lavoro è perché la classe operaia è esclusa soprattutto dal processo di produzione – tanto gli operai qualificati, quanto le organizzazioni sindacali – la parte del lavoro vivo diminuisce nella produzione industriale; e negli stessi mestieri la concezione o la realizzazione dei compiti assistiti dal computer trasforma il rapporto del lavoratore con la materia, instaurando quello che
S. Weil temeva: il rapporto coi segni prevale sul rapporto con la necessità reale. Per la maggioranza dei lavoratori, non è quindi nell’ambito del lavoro necessario che possono manifestarsi le più alte operazioni dello spirito (siano esse cognitive o spirituali).
Ne conseguono alcune domande, in chiusura, che si potrebbero porre a
S. Weil:
1) In relazione all’ambito del lavoro necessario che sarà sempre meno il fattore principale della socializzazione, c’è soltanto questo regno dello svago e dell’ozio che
S. Weil temeva tanto?
2) Si possono confondere, come se dipendessero da una medesima razionalità e da uno stesso sistema di valori, la necessità economica del lavoro e il confronto, in un’attività non servile, con le leggi dell’esteriorità? Perché quest’incontro non potrebbe aver luogo in un ambito di attività autodeterminate, in cui si farebbero altre cose che “divertirsi a darsi degli ostacoli”?
3) Riconoscendo al lavoro un posto così importante, concependo il campo del lavoro in modo così omogeneo (unicamente come lavoro necessario),
S. Weil non toglie ad ogni individuo la possibilità di sviluppare liberamente le proprie capacità (o di acconsentire liberamente alla necessità) in ambiti di attività e di vita differenziate?
4) Infine, perché il tempo della spiritualità sarebbe solamente quello del lavoro, e a maggior ragione quello del lavoro necessario? Perché il desiderio del tempo personale per delle attività autodeterminate che non escludessero né la produzione del necessario, né la cooperazione con altri, non sarebbe un’esigenza di ordine spirituale?

Robert Chenavier


(trad. di Maria Attilia Ferrari / le note a questo testo si possono leggere nel file PDF)


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