“PARADOSSO CRISTIANO NEL CREPUSCOLO DEL XX SECOLO”
convegno promosso dalle riviste Esodo, Il Foglio, Il Gallo, Pretioperai
Salsomaggiore 23-25 aprile 1994
Le conclusioni del convegno
Tracciare a caldo un bilancio di un incontro così ricco e partecipato non è possibile e, se voi mi chiedete di proporre delle conclusioni, visto che concludere si deve, non mi resta che rilanciare le riflessioni e gli interrogativi emersi nelle relazioni e negli interventi di questi giorni. Non per ripetere, sintetizzare e ribadire quanto già è stato detto meglio da altri, ma per sottolineare le questioni che restano aperte, anzi che, ad ogni passo del nostro approfondimento, inevitabilmente si aprono.
A partire dalla proverbiale citazione del dialogo tra Francesco e frate Leone sulla perfetta letizia, che consiste non nel trionfo della fede ma nella sequela della passione di Cristo, il professor Miccoli ci ha illustrato come il dibattito, sul superamento del regime di cristianità inizi almeno dalla rinascita evangelica del XII secolo e si caratterizzi proprio per la paradossalità di una fede religiosa che, mentre annuncia la salvezza attraverso la croce, pratica l’incarnazione attraverso il dominio.
Analizzando documenti ed episodi di quasi duemila anni di storia cristiana, dagli scontri tra Ambrogio e Teodosio alle aperture teologiche del Vaticano Il, egli si è chiesto e ci chiede se quella mescolanza di autentico spirito evangelico e di gretto senso del potere, che caratterizza la storia della chiesa di ieri e la vita di quella di oggi, sia un prodotto necessario della storicità della fede o non possa dare luogo ad un diverso tipo di presenza religiosa, meno temporalista e più profetica.
Perfettamente cosciente della velleità di sognare una chiesa pura da ogni terrena contaminazione, Miccoli ci ha posti con forza di fronte all’alternativa tra assistere impotenti al lento tramonto del cristianesimo e la sfida di sperimentare, sul modello francescano, stili di presenza cristiana capaci, nonostante la loro marginalità e frammentarietà, di mantenere in vita per tutta la chiesa e per tutti gli uomini lo spirito del Vangelo.
È, in altro modo, quanto ribadito anche da Pino Ruggieri, che, nell’affrontare lo stesso tema del congedo dalla cristianità dal punto di vista teologico, ha illustrato e discusso tre diversi modelli di interpretazione dell’esperienza cristiana: il modello della religione civile, il modello della religione di popolo e il modello della religione di testimonianza.
Estremamente scettico sulla possibilità che la forma della religione civile, con la sua ricerca della visibilità del consenso sociale e di potere, possa offrire all’incarnazione storica della fede qualche aiuto che non porti al suo snaturamento, Ruggieri ha espresso parole di maggior comprensione per la religione di popolo. Ci ha ricordato che la forma cristiana della testimonianza non può non dialogare con l’autentica pietà popolare, per quanto quest’ultima sia spesso pesante e faticosa. Questo non perché la pietà popolare sia in sé una strada che porta al vangelo, ma perché è spesso l’unico modo in cui l’uomo comune sa esprimere la propria apertura alla trascendenza ed alla grazia.
D’altra parte, egli ha ribadito che la fede del testimone non si alimenta né alla religione civile, né a quella popolare, e, se vive in polemica aperta con la prima mentre mantiene uno stile di compagnia con la seconda, sviluppa il suo dialogo più che con le forme della religione umana con le forme dell’umana cultura. È presenza della parola evangelica nelle parole della cultura e della storia umana ed ha il suo più attuale modello di presenza nella figura e nell’opera di Bonhoeffer.
Fare teologia nella linea di Bonhoeffer, infatti, non è fare teologia della morte di Dio, come ultimo coerente passo verso un umanesimo ateo soddisfatto della propria età adulta. Significa riaprire il discorso teologico e la vita cristiana all’ascolto della parola di Dio, libera, radicale, presente nella storia come provocazione alla scelta responsabile. Significa abbandonare in modo definitivo il tentativo di percorrere a ritroso il cammino della cultura e del tempo per collocarsi ancora nell’illusione filosofica e teologica dell’unità del sapere, della centralità razionale di Dio, dell’infallibile finalità positiva del progresso, dell’identità tra sviluppo della storia politico – sociale e sviluppo dell’azione di salvezza di Dio, della legittimabilità provvidenzialistica di ogni potere politico.
Come Bonhoeffer ha scritto nelle sue lettere dal carcere, prima di essere ucciso dai nazisti: “Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma la partecipazione al dolore di Dio nella storia… Qui sta la differenza determinante rispetto a qualsiasi altra religione. Il senso religioso dell’uomo lo rimanda, nel bisogno, alla potenza di Dio nel mondo; Dio è il Deus ex machina. La Bibbia indirizza gli uomini all’impotenza, alla sofferenza di Dio. Solo il Dio che soffre può venire in aiuto”.
Né Ruggieri né Miccoli hanno voluto dare esplicita espressione al tema del “paradosso” e del “post-moderno”, ma l’uno e l’altro, mi pare, li hanno implicitamente sviluppati e nel richiamo alle figure di Francesco e Bonhoeffer e nell’invito al superamento della cristianità e della religione civile, che nella pre-modernità hanno le loro radici, ma nella modernità raggiungono la piena manifestazione e col suo declino maturano la propria crisi.
A partire dalla dichiarazione del Sinodo di Barmen (1934), in cui sotto la guida di Barth, le chiese confessanti dell’Europa Centrale ribadivano l’unicità della rivelazione in Cristo, contro il tentativo di nazificazione del cristianesimo, il pastore evangelico Fulvio Ferrario ha sottolineato che tale centralità ed unicità, lungi dall’escludere, fonda la legittima molteplicità delle parole umane.
Per quanto la forte sistematicità del suo discorso, unita alla brevità del tempo a disposizione, non ci abbiano consentito di approfondire e di dialettizzare l’enunciato, la sua relazione ha indubbiamente sollevato più di una problematica e ci ha stimolato a interrogarci su svariate questioni.
Dopo quello che egli ci ha detto non possiamo non sentire come sempre più urgente la necessità di chiederci quale sia la vera natura della Parola di Dio, in che relazione la sua assolutezza stia con la relatività e la storicità delle parole umane in cui si incarna; come si concili l’unicità della rivelazione in Gesù e la molteplicità delle interpretazioni evangeliche ed ecclesiali di Gesù stesso; quale sia il rapporto tra il Gesù storico e il Cristo escatologico, tra il Figlio e il Padre, che solo conosce “il giorno e l’ora”, tra il Gesù dei discepoli e quello di chi non è dei loro (Mc.9,38-40), se sia lecito fondare la legittimità della parola umana deduttivamente dall’unicità della Parola di Dio.
In sostanza la relazione di Ferrario ha toccato nodi di tale importanza che non poteva non sollevare più problemi di quanti ne potesse risolvere e devo dire che la stessa impressione ho ricavato dall’ascolto dell’intervento di Armido Rizzi.
Centrata sul modello biblico del Dio che salva ed ama per primo e che col suo dono di grazia fonda la capacità di analogo dono nell’uomo, o almeno apre esemplarmente la strada a tale capacità, l’etica della gratuità di Rizzi mi affascina e mi convince almeno quanto mi spinge a sempre nuovi interrogativi.
Mi obbliga a chiedermi se esista davvero un’etica fondata sulla naturale bontà dell’uomo o se essa non debba per forza richiamarsi ad un’azione rivelatrice di Dio, vale a dire se l’etica debba essere antropocentrica o teocentrica, o ancora se non esistano diversi livelli etici difficilmente riconducibili ad unità: l’etica della gratuità, ma anche l’etica del patto, del contratto e della legislazione storico – sociale, un’etica della carità e un’etica della giustizia, un’etica dell’uomo spirituale ed un’etica dell’uomo materiale, un’etica idealizzata ed un’etica pesantemente condizionata dalla presenza invincibile del male e dunque etica di resistenza e infine un’etica del Regno, che travolge ogni ordinato orizzonte di bene e di virtù, ogni ipotizzabile bilancio etico umano, visto che del Regno poco altro sappiamo se non che sarà pieno di “ladri e prostitute”, che sarà tempo e luogo d’amore ma non di legali matrimoni, che “gli ultimi vi saranno primi e i primi ultimi”.
Ma la relazione di Rizzi ha sollevato anche altri temi. I suoi cenni al primato del volto come fonte dell’etica, alla libertà dell’uomo e di Dio, che né l’uno né l’altro semplicemente sono ma crescono in un rapporto di reciproca creatività, permettono e promettono sviluppi ben più ampi di quelli cui abbiamo potuto accennare in questi giorni, e sono sviluppi essenziali per pensare un superamento della cristianità e della crisi della modernità che non siano fine del cristianesimo e fine dell’umanesimo.
Ecco allora che mi sembra importante terminare non con una conclusione ma con degli interrogativi.
La fine della cristianità comporta la fine del cristianesimo, vista la difficoltà di separare le forme della presenza storica della chiesa dall’elaborazione teorico-teologica che tale presenza ha fondato e accompagnato?
Il cristianesimo, per liberarsi dalla cristianità, potrà ispirarsi alle esperienze vissute da gruppi minoritari come quelli del primo francescanesimo, senza tradirli e fraintenderli come ha sempre fatto?
Non è l’esperienza del tradimento e dell’infedeltà un tema evangelico fondante dell’esperienza cristiana, almeno quanto quella della sequela e della fedeltà?
Se la fine della visibilità storica della fede e la fine della pretesa cristiana di guidare la storia e di sacralizzare il potere comportano una nuova interpretazione teologica del cristianesimo, fondata non più sulla potenza naturale e storica di Dio, ma sulla sua impotenza e sofferenza, come può essere pensato e sviluppato tale cristianesimo senza travolgere le formule della dogmatica classica e dell’immaginario popolare di tipo provvidenzialista?
La celebrazione del secondo millennio cristiano non suona in contraddizione con l’annuncio evangelico della prossimità del regno?
Come è possibile affrontare lo scandalo del ritardo della salvezza e vivere la fede nella resurrezione?
Se è vero che la chiesa, come ha detto recentemente il Papa, intende confessare le sue colpe storiche, come può non coinvolgere in questa confessione di colpa anche la pretesa dogmatica dell’infallibilità e tante formulazioni teologiche che tali colpe ed errori hanno giustificato, fino a presentare l’uccisione dell’eretico e dell’infedele come atto teologicamente ed eticamente meritorio?
Se fare teologia, come acutamente osserva il pensiero ebraico, consiste ben più nel porre le domande opportune che nel tacitarle con affrettate risposte, davvero dovremmo pensare ad un convegno dedicato a raccogliere e discutere tutti gli interrogativi che l’essere cristiani oggi ci obbliga a porci, coscienti, per altro, che in ogni tempo al credente non è richiesto di essere la manifestazione del Regno ma al più un testimone della sua attesa, un’invocazione vivente che, in qualche modo, ne anticipi la venuta.
Marco ci fa capire che Gesù proprio questo chiedeva a Gerusalemme: mostrarsi pronta ad accogliere la sua venuta messianica. E ce lo fa capire non solo solennizzandone l’arrivo in città a cavallo di un asino tra gli osanna dei suoi, ma anche enfatizzandone, con l’episodio del fico, la delusione per la fredda accoglienza ricevuta. Lui solo, infatti, ci racconta non uno ma due ingressi di Gesù in città, caratterizzati, il primo dall’asinello mai cavalcato prima, il secondo dalla presenza di un fico carico di foglie e privo di frutti, “perché non era stagione”, maledetto e destinato, per questo, a sterilità eterna (11,12-14).
Croce dei commentatori, quest’episodio è delizia per il credente che cerca un simbolo capace di esprimere la sua condizione di uomo del vangelo, impotente a viverne l’integrale messaggio in un mondo non ancora trasformato nel Regno.
Egli non è
dove noi lo cerchiamo,
ma sempre ci viene incontro
là
dove noi andiamo.
Noi non andiamo
dove Lui ci manda;
eppure, ovunque
ci accade di passare,
viva germoglia
la nostalgia
per la Sua
assenza.
Segno non è
l’abbondante raccolto.
Segno sono
i frutti
fuori stagione.
ALDO BODRATO
docente di filosofia