Convegno nazionale / Salsomaggiore 1995  

Lettere e messaggi



1. Messaggio dei pretioperai francesi

Parigi, 25 aprile 1995

Cari Amici,
ci piace rivolgere a tutti voi alcune parole di fraternità ed auguri di buon lavoro per il vostro Convegno di Salsomaggiore. Abbiamo incaricato Elia Bortignon, PO di Marsiglia, di rappresentarci tra di voi con Jean Perrot, vostro amico e fratello da tanti anni.
Nello stesso tempo ci rincresce di non aver potuto venire noi stessi per incontrarvi ed ascoltarvi in questi giorni «per rinfrancarci con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune…” come scriveva già san Paolo ai Romani (1,12) nei primi tempi dello sviluppo del Vangelo.
Dobbiamo rimanere qui tutti questa domenica per l’elezione del nostro futuro segretario nazionale dei pretioperai francesi. Ma speriamo di vedere alcuni di voi nei giorni di Pentecoste a Waterloo in Belgio, coi delegati dei PO di altri paesi di Europa.
Avete scelto il tema “Beato colui che resiste” specialmente adatto alla situazione attuale di precarietà e di esclusione che ci impone il neo-capitalismo ora trionfante. Saremo felici di conoscere il frutto delle vostre ricerche e dei vostri dibattiti.
Vi ringraziamo anche di avere accettato di preparare il numero speciale della vostra rivista “Pretioperai” per il 40° anniversario. Speriamo di leggerlo fra poco.
Siamo con voi nella speranza, nella lotta e nella solidarietà con tutti gli emarginati della società e spesso della Chiesa. Abbiamo negli occhi e nel cuore l’incoraggiamento indimenticabile dell’Apostolo: “Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero… nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2 Cor. 6,3-10).


2. Lettera dei PO portoghesi
con l’annuncio della morte di Manuel Gaspar

Valongo (Portogallo), 19 aprile 1995

Con sofferenza e gioia allo stesso tempo vi annuncio la morte di Manuel Gaspar.
È morto alle 11 del mattino di Pasqua, come egli ha desiderato. La domenica delle Palme ci aveva annunciato il giorno della sua morte.
Ha sofferto tanto, soprattutto nelle ultime settimane. Il tumore è cominciato a livello polmonare, ma poi le metastasi hanno invaso il cuore, le vertebre e tutto il basso ventre.
La testimonianza della sua vita e ultimamente il modo col quale ha vissuto la sua malattia, ha molto toccato la Chiesa.
Il giovedì santo ci siamo trovati una ventina di preti e una dozzina di laici. Ho collocato l’altare accanto al suo letto. Quando è arrivato ci ha detto: la tavola è pronta per il sacrificio. In cattedrale il vescovo ha annunciato questa seconda messa. Io ho fatto memoria della vostra presenza. I suoi funerali sono stati celebrati con azioni di grazia e con vera gioia. Abbiamo vissuto un avvenimento spirituale molto profondo.
Manuel ci ha lasciato degli scritti molto belli. Sarò lieto di inviarne a chi ne farà richiesta. Vi comunico le sue ultime volontà:
“Desidero partire preparato come quando andavo al lavoro. È stato il lavoro che ha segnato la mia vita come prete nella Chiesa per i lavoratori e con i lavoratori. Questa è la mia veste sacerdotale. Nelle mani solo la Bibbia che ha guidato i miei passi ed illuminato il mio cammino.
Vi domando che, malgrado il coinvolgimento, voi non vi rivestiate di dolore, ma piuttosto di gioia, perché questo non è che un passo in avanti nella costruzione dell’opera grandiosa del regno; un piccolo seme gettato per terra. Per questo è tempo di sperare sempre la vita e di cantarla. I paramenti siano bianchi, quale segno della nostra speranza nella Risurrezione.
Desidero che dopo la sepoltura sia recitato il Credo, simbolo di Nicea, come affermazione della vita a fronte della morte evidente”.
Certi della vostra preghiera, noi ci sentiamo molto uniti nello Spirito Santo.

Manuel Crespo, PO


3. Lettera dalla Sardegna

 

Carissimo Renzo,
oggi 4 aprile – memoria di Martin Luther King! – ho ricevuto la lettera programma del nostro Convegno. Purtroppo sarà il primo che salto da quando sono tornato in Europa. Sarà per me un impoverimento in più!
Ho ricevuto anche il 2°numero di PO dall’ultimo Convegno: come sempre l’ho letto con la sensazione di aver a che fare con una riflessione di elevato livello teologico che questo remoto angolo di Sardegna non ci permette di ruminare. A Cagliari, di tanto in tanto, ci sono occasioni, ma i 70km., gli orari notturni e gli anni mi scoraggiano dal parteciparvi. Eppure per “resistere” avrei bisogno anche di queste cose! La gente che compone questa parrocchia di coltivatori, pescatori, pastori e qualche operaio non può certo offrirmi spazi del genere.
La volontà di tenermi a galla si deve accontentare della lettura di Concilium, Nigrizia, Rocca e qualche libro. Metto qualcosa nella bisaccia durante gli incontri mensili che facciamo una decina di preti del “dissenso” e durante le “cene di lavoro” con gli altri due preti, Roberto, PO e Bachisio, psicologo che lavora al SERT di Carbonia, parroci come me di altre due frazioni. Il resto si può dire che è silenzio, isolamento e insignificanza per i palazzi comunali e vescovili che non offrono ma, rispettivamente, chiedono voti, tasse e… questue imperate!
Il lavoro mio e di Roberto è finito. Io come giustificativo per il fatto di aver ammainato le vele ho l’età per cui accetto di mangiare il pane amaro dell’8 per mille o le briciole che, di quello, restano dai viaggi, convegni e pubblicità che Ruini e compagni si inventano.
Roberto sopravvive con la scuola di religione in un liceo scientifico. Non ne può più e a giugno lascerà.
A questo disagio personale si aggiunge l’attacco violento della natura, a sua volta violentata, che nega l’acqua facendo pesare su tutto una siccità lunga e distruttrice. Muore il lavoro nei campi, muore doppiamente – per la stretta della recessione imposta dal capitale e per mancanza d’acqua – nelle fabbriche, è morto nelle miniere ed è in forte pericolo il turismo. Muore il piccolo commercio, l’artigianato, l’edilizia. Durante l’interminabile estate poi non mancheranno, come corvi sul cadavere, i bastardi piromani.
Immersi in questa realtà la nostra solidarietà con la gente tenta di abbozzare una pastorale di comunione nelle tre parrocchie. È tutto in salita. L’assurdo è che la gente ci chiede, anche se per motivi diversi, quello che ci chiede la curia: messe e sacramenti!
Per non soccombere sotto il peso di una frustrazione avvilente, due sono gli imperativi a cui cerchiamo di stare nella prassi operativa: non accondiscendere, sic et simpliciter, né a quanto ci chiede la gerarchia (resoconti di sacramenti amministrati e di messe soggette a tassazione; ci chiede che pensiamo e operiamo solo con e in base ai documenti ufficiali); né a quanto ci chiede la gente. Ci rifiutiamo di binare. Abbiamo ridotto le messe a una o due durante la settimana e una la domenica. Non a richiesta. Specie la domenica proponiamo liturgie alternative e pian piano le lasciamo gestire ai laici con l’intento di restituire loro ciò di cui sono stati espropriati.
Pur constatando il divario incolmabile tra Vangelo e vita diamo per accettabile che la solidarietà con la nostra gente, con la sua pietà, sia quel che resta di senso esistenziale al nostro essere preti o “funzionari”del sacro. Perciò restiamo nella stessa barca con lucida coscienza di perderci nell’insignificanza, nel non-segno con questa gente accomunata ai milioni di esseri umani alla deriva nella storia che non conta.
Davvero ci sentiamo associati alla “sofferenza impotente di Dio” di fronte allo strapotere reale del capitale e del potere utopico, alienato ed estemporaneo della gerarchia.
Sperimentiamo con amarezza l’essere lasciati allo sbaraglio e al volontarismo dai nostri vescovi sul piano operativo di cui non si assumono alcuna responsabilità e dai battezzati ben lontani dal sentirsi “comunità cristiana” corresponsabile.
Dai preamboli si ha la netta sensazione che anche il Concilio Plenario Sardo, in atto, non dirà assolutamente nulla a questa martoriata Sardegna. Non si muove foglia che gerarchia non voglia, in quanto ogni vescovo è a capo di una commissione. Si evidenzierà il paradosso di essere chiamati a credere e a sperare con quella parte di chiesa senza parlare lo stesso linguaggio.
Non so se calza, ma pensando di essere chiamato a resistere nella speranza mi viene in mente il linguaggio che usano i turisti pensando al sole di Sardegna e quello che usiamo noi: per loro è splendido, per noi è una maledizione perché è diventato nemico come il vento che ci piega, ci vince, ci distrugge.
Con affetto un abbraccio forte a te e a tutti i PO che resistono e con i quali vogliamo continuare a resistere in faccia a tutti i… maestrali.

Raffaele Boi


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