10 anni dopo
mini-antologia di testi di don Sirio
1) LA CONDIZIONE DI LAVORO
Una giornata di lavoro
“Da qualche tempo lavoro in un cantiere navale. Sopra gli scali a scivolo sullo specchio dell’avamporto stanno crescendo a poco a poco due grosse navi di ferro. Ormai le loro prue sono contro il cielo azzurro, altissime. E gli scafi immensi, fra il traliccio delle impalcature, si accovacciano sul cemento degli scali come anatre selvatiche fra i canneti del padule. Neri di ferro, nella violenza del sole di piena estate, sono due macchie di sofferenza, di fatica. Nei doppifondi, surriscaldati dal sole di agosto, si lavora affogati dal fumo della saldatura elettrica e dei cannelli dei tagliatori… Martellano il cervello i martelli pneumatici in risonanze come un gridare di torture nella immensa cassa sonora della nave di ferro, ritmati dai colpi delle pesanti mazze dei carpentieri.
Lavoro come carpentiere tracciatore. Sono fra lamiere e longarine di ferro dalla mattina alla sera. Sempre in piedi, chinato fra lamiere piccole come fazzoletti o grandi come lenzuoli, sotto il capannone o fuori all’aperto a tracciare segni, prendere misure, a punzonare la tracciatura a forza di martello e di bulino. E spesso sono stanco da non sapere come arrivare all’ora di uscita.
E il mio lavoro è dei più leggeri, che quasi mi dà l’impressione di essere privilegiato. Qui, in condizioni esterne impossibili, fisicamente logorati, con un ritmo senza soste o appena un respiro come rubato, gli uomini sono abbrutiti, disumanizzati.
…Mentre lavoro non è possibile dire quello che spesso, nonostante il rumore assordante e la spossatezza fisica, mi passa dall’anima. Mi sento spaventosamente povero ed inutile, ma insieme mi pare di essere sponda di una fiumana infinita.
Un desiderio immenso come tutto l’universo, una preghiera, un chiedere con gli occhi, uno scongiurare con tutta l’anima, un implorare dolce e calmo con dentro una sofferenza ed una gioia terribili… perché io so quanto l’umanità ha bisogno di Lui. E davanti a Dio non sono più io, sono loro, sono tutti”.
(Uno di loro, Gribaudi 1967, pp. 76-77)
Le cose semplici
“Ci sono cose semplici, povere, ma che riescono a dire tanto, significano valori immensi e li esprimono magnificamente.
L’ambiente operaio, apparentemente così grossolano e rude, l’ho scoperto e sentito ricchissimo di tenerezza delicata, di cordialità profonda. Grazie, amico operaio, quando mi vedevi piegato dalla fatica e mi venivi a dare una mano. Tu non sai quanto mi aiutavi anche nell’anima per la tua generosa premura, per il tuo non lasciarmi solo in una solitudine troppo più vasta di me, povero prete, sperduto nel mare senza fondo della fatica umana.
Spesso nelle grigie giornate tutte uguali, in un lavoro sempre quello, schiacciato da problemi che arrivavano a soffocarmi anche l’anima e mi piegavo, quasi piangendo sull’attrezzo di lavoro a cercare un po’ di coraggio in un resistere a costo di tutto, mi sentivo, qualche volta, battere un’energica eppure affettuosissima manata sulla spalla, quasi a dire: coraggio Don Sirio, tiriamo avanti! E alzavo gli occhi e il cantiere era più luminoso, il compagno operaio era già lontano e si voltava a sorridermi e mi pareva di rinascere.
Due parole soltanto. Un minuto e poco più. Eppure mi hanno tanto aiutato. Ci scappava sempre una presa di bavero e fors’anche una parolaccia viareggina, ma intanto mi insegnavano a lavorare, a tenere la lima, a sistemare bene il pezzo, a prendere le misure, a usare la macchina come si deve. A queste lezioni improvvisate e bonaccione, mi sentivo scolaretto impacciato, buono a nulla. E tu, confessalo amico operaio sperimentato in tutte le malizie del lavoro, confessalo — perché lo vedevo bene — eri felice di insegnare qualcosa a un prete. Si danno arie di sapere tutto ed intanto
uno eccolo lì che non sa stringere in maniera decente un pezzo della morsa…
E anche se lì per lì mi faceva un po’ di rabbia quando mi cadevano le lacrime dagli occhi per una martellata sul dito o perché la mano aveva toccato la mola e il dolore mi levava il fiato, mi veniva poi da ridere perché me li sentivo accanto a vedere il gran male che mi ero fatto e strizzando un occhio maliziosamente mi dicevano: ma non gli è scappato detto proprio nulla?… oppure un altro, sogghignava: l’ha detto Dio sia benedetto? E quelli anziani tiravano fuori la vecchia saggezza, tanto per consolarmi: sangue che esce mestiere che entra. E con la manica mi asciugavo gli occhi, senza farmi vedere.
Sto raccontando soltanto qualcosa di tutta un’esperienza umana e cristiana vissuta fra gli operai, le cose più semplici, quelle che parrebbero senza significato e come prive di valore perché il mondo dei poveri, di chi vive alla giornata è fatto di piccole cose.
Non so quanto io possa avere dato al mondo operaio, anche se ho avuto desiderio struggente di dare tutto me stesso e non soltanto il mio tempo, la mia fatica. Sta di fatto che io da loro ho imparato ad essere uomo, ho scoperto i valori umani più veri ed autentici. Di questo sono loro infinitamente riconoscente. Penso che tutti, fra di loro, l’hanno più o meno capito: ho sentito viva e profonda la comprensione dei miei compagni, oso dire la loro ammirazione. Credo che sia stata sempre e soltanto la gioia e forse l’orgoglio di avere un prete con loro a correre in bicicletta per timbrare il cartellino, accanto a loro nel lavoro, con l’angoscia nel cuore e lo smarrimento nel viso negli scioperi a singhiozzo, a camminare per le strade della città come mendicanti a chiedere lavoro…
Ci siamo intesi e capiti e ci siamo voluti profondamente bene.”
(Uno di loro , Gribaudi 1967, pp. 42-47)
2) RAPPORTO CON LA CHIESA
La lotta nella chiesa
Gli organizzatori di questo convegno ci parlano di riconciliazione. Offrono a noi PO la mano tesa per fare la pace, offrono le braccia aperte per stringerci in un abbraccio di perdono.
Eppure riconciliazione presuppone una separazione, una divisione: un ritorno dopo essersi allontanati. E quindi un rinnegare qualcosa, respingere, condannare ciò da cui è richiesto convertirsi .
Ma io non mi sono mai separato dalla Chiesa. Non me ne sono mai allontanato. E cosa devo rinnegare, abbandonare, da cosa mi devo convertire? Cosa vuol dire conversione per me vecchio prete operaio? Dopo trent’anni di vita vissuta nella povertà, nella sparizione di ogni diritto e privilegio, in un perdermi dentro i cancelli di un cantiere, fra gli scaricatori di porto, nell’artigianato offerto e vissuto fra i contadini e gli handicappati, nelle manifestazioni rivendicative delle lotte operaie, contro le centrali nucleari, contro il militarismo, per la pace, la fraternità, la nonviolenza… mi devo convertire! È il momento della riconciliazione. E a cosa mi devo convertire, con chi devo fare la riconciliazione? (…)
Un altro motivo di perplessità è che questa riconciliazione dev’essere tutta dalla mia parte, è un cammino che io devo fare verso chi mi attende, sia pure a braccia aperte. Mi domando se anche la Chiesa, o meglio gli uomini di Chiesa, avvertono il bisogno e scoprono il dovere della riconciliazione. In ogni storia di incomprensione, di contrasto, di insopportazione, di separazione ed allontanamento, tutta la responsabilità non è mai da una sola parte.
(…) I pretioperai sono certamente disponibili e pronti a tradurre in un concreto di dedizione e di partecipazione il loro antico e sempre rinnovato sogno di rendere Chiesa le loro scelte personali, la loro fedeltà di partecipazione e condivisione della condizione operaia, segno e realtà dei poveri, degli emarginati, degli ultimi.
Se questa riconciliazione non avviene vorrà dire che allora continuerà quella oramai lunga storia di incomprensione, d’intolleranza. E non avrà inizio quella nuova: la storia di una comunione e testimonianza di valori di fraternità di cui la comunità degli uomini ha urgente, vitale bisogno.
(Articolo scritto in occasione del Convegno di Loreto
“Comunione e riconciliazione” – Rocca, 15.3.1985)
3) DIMENSIONE SPIRITUALE
L’unico Signore Gesù
“Il tempo ci porta avanti quasi inavvertitamente e accumula dietro le spalle spazi immensi percorsi. E ogni tanto è come arrivare in cima a una montagna, viene da voltarsi indietro e si vede lo snodarsi a serpe della strada che poi si allunga nella vallata, fino a perdersi nella nebbia di altre montagne lontane.
In quel momento sentiamo nell’anima la strada percorsa, le catene di monti superate, le pianure sterminate, i paesi, le città, gli amici incontrati, le persone conosciute, gli avvenimenti successi, le esperienze vissute, i sogni svaniti, gli ideali raggiunti…
E tutto è nell’anima. Ogni cosa si è conquistata un posto, si è collocata nell’insieme, come pietre in una muraglia. Chi è che ha comprato il campo per prendersi il mio tesoro? Chi è riuscito a portarsi via la perla preziosa?
Vorrei che avesse comprato il campo dove è nascosto il mio tesoro chi ha con gioia potuto mettere insieme la somma necessaria dopo aver venduto ogni suo avere. Vorrei che fosse chi di tutte le sue perle preziose ha dovuto disfarsi e lo ha fatto senza paure, per avere di che comprare la mia perla preziosa.
Perché allora tutto sarebbe Amore e questo Amore non potrebbe non vincere in me e tutto occuparmi e interamente avermi.
Mi volto a guardare e lo vedo solo, unico Signore nella già lunga avventura della mia vita. E so che a poco per volta il suo dominio è andato crescendo. La sua parola si è fatta più forte e più chiara. La sua presenza più allargata e distesa. Non vi è angolo dove Lui non sia, non vi è un momento che non gli appartenga.
Perché tutto, fino alle cose più sciocche ed inutili, da Lui è determinato, risente di Lui e non può essere cercato e vissuto che in Lui. Diversamente, al di fuori di Lui, ogni cosa è come pane non lievitato, cibo senza sale, lampada senz’olio, amico senza Amore, sposo senza sposa…
Mi domando se ancora mi ha lasciato un po’ di respiro, un po’ di libertà… quella semplice e schietta, fatta di poter essere come tutti, di vita normale, di pensieri comuni, pensare a me, potere chiudere la porta e starmene in pace a sognare i sogni normali.
Ma mi sembra che se la sia presa tutta, la libertà, per darmi forse soltanto di poter essere liberamente suo, di appartenergli come un possesso. Se l’è presa tutta per sostituirla con la libertà che è libertà di Dio. La libertà di farsi mangiare come il pane e bere come il vino. Di essere il chicco di grano che muore sotto la zolla. Parola affidata allo Spirito che è come il vento, non sa da dove viene e non sa dove va. La libertà di non essere servito ma di servire. Di amare fino all’impossibile. Di morire sulla Croce e dentro la storia degli uomini per sperare la loro salvezza…
Ne sono felice di questo assoluto dominio? Ne sono pazzamente felice, nonostante il terribile viaggio lungo il deserto, verso la terra promessa che a volte sa troppo soltanto di sogno. E qualche volta il rimpianto, per debolezza di fame e violenza di desiderio, di qualcosa di immediato e concreto anche se è lo sciocco rimpianto delle cipolle d’Egitto”.
(Uno di loro, Gribaudi 1967, pp. 55-59)
4) IMPEGNO SOCIALE
Scioperi a singhiozzo
“Quando ho cominciato a lavorare nel nuovo cantiere — circa 400 operai comprese le società aggregate — iniziavano i problemi del rinnovo dei contratti. Era l’anno 1958. Ci sono state lotte molto serrate; e io ho partecipato alle lotte, alle riunioni di fabbrica, agli scioperi molto pesanti, scioperi a singhiozzo, con la paura del licenziamento. Vorrei tanto consigliare ai sindacati di non organizzare mai quei tipi di sciopero. È duro farlo quando si è già al lavoro, disseminati dentro il cantiere, che bisogna partirsi di laggiù, sullo scalo, scendere la scala a pioli, venire su dai doppi fondi della nave.
Ricordo che ero al banco, quel pomeriggio e facevo un lavoro di lima alla morsa. Avevo sentito il sopravvenire dell’ora stabilita, alzando gli occhi vedevo però gli operai ancora qua e là intorno alle macchine, come se le accarezzassero a forza di pulirle, tanto per fare qualcosa. I più vicini cercavano di vedere o almeno di indovinare quello che facevo io. Il capo reparto era lassù, in piedi, dietro il tavolo coperto di fogli e di rotoli di disegni navali. E guardava tutta l’officina. E gli operai si vedeva bene che si sentivano quegli occhi addosso.
Sapevo bene cosa voleva dire per chi si muoveva per primo, per chi rompeva il ghiaccio: a far morire di paura quei cinquanta manovali c’erano oltre mille domande di lavoro nell’ufficio del personale. E se per i qualificati e gli specializzati la situazione era diversa, esistevano però le liste nere pronte a indicare chi mettere al cancello in caso di diminuzione di lavoro.
Allora mi sono versato da un barattolo un po’ di nafta sulle mani, ostentatamente, come se facessi un atto eroico… mi sono asciugato con quel lurido straccio di tutti i giorni e mi sono avviato tranquillo, anche se non sapevo dove tenere le mani e camminavo dritto, tutto d’un pezzo.
Sono passato disinvoltamente sotto il fuoco incrociato degli occhi del capo reparto, (…) ho fatto una specie di sorriso conciliante al capo cantiere, appoggiato allo stipite del portone, come per dire: salute, e mi sono avviato all’uscita. Voltandomi ho visto un codazzo di compagni dietro e la fila ingrossava sempre più, sempre più (…) stavo guidando una lunga processione di uomini”.
(Uno di loro, p. 166-170; Prete Operaio, Edizioni lavoro, 1985, p. 42)
Povertà sulla strada
“Per due volte, nel giro di pochi giorni, mi sono trovato perduto fra loro come uno di loro, dentro una folla di centinaia di operai incolonnati, in un camminare triste e doloroso lungo le strade della città.
Era un andare pesante e smarrito come di sbandati, senza convinzione ma anche senza resistenza, rassegnati come dietro l’inevitabile. L’inevitabile di una condizione umana in questo suo povero destino terreno.
La prima volta si accompagnava alla chiesa e poi al cimitero un compagno di lavoro, rimasto ucciso sotto il crollo di una gru. E pesava su tutti lo strazio della sua morte, l’angoscia della sua famiglia, lo smarrimento per un destino terribile.
Mi pareva di seguire, passo passo, confuso nella folla senza volto e senza nome di tutti i lavoratori del mondo le innumerevoli bare — e chissà quante senza fiori e senza lacrime — delle povere vittime del lavoro. File lunghe, oppresse dalla tristezza, di dentro ai tunnel scavati nella montagna, dalle bocche nere delle miniere, dai cancelli dei complessi industriali, dai campi di lavoro, forzati per violenza o per fame.
Logorati e finiti, schiacciati e distrutti, mangiati dal progresso e dal benessere degli altri, di tutti: per loro avevano cercato soltanto il pane quotidiano. So troppo bene che la maggioranza degli operai non crede in Dio, nell’esistenza dell’anima spirituale ed eterna, e non spera nulla al di là di questa vita. Allora il dolore è troppo perché è solitudine spaventosa. Camminavo con questo spaventoso problema nel cuore e mi pareva — io sacerdote confuso e perduto fra di loro — di dare senso e valore a questa fiumana di gente. Mi pareva di guidarli perché li sentivo così tanto con me, verso una meta sicura che non potevano conoscere perché per loro era troppo impossibile. Non dicevo una parola, ma ero veramente uno di loro: no, non era impossibile che non si arrivasse insieme.
Sirio Politi
(Uno di loro, p. 25-26)