Frammenti di vita raccontati dai pretioperai



Intervista a padre Antonio Melloni

 

D: Quali sono state le motivazioni che ti hanno indotto a scegliere l’esperienza della fabbrica, e all’interno di quale contesto ecclesiale hai maturato la tua vocazione di prete-operaio?
R: Le motivazioni che mi hanno portato nel 1972, insieme con altri confratelli a scegliere di lavorare in fabbrica, sono molteplici:
– quella di recuperare, dopo tanti anni di studio, una vicinanza e una condivisione di vita con una classe sociale da cui la mia famiglia proveniva, vivendo così nella povertà, nel lavoro faticoso…
– quella di capire dall’interno un mondo, una cultura così lontani, per tanti versi, dal mondo ecclesiale in cui sono cresciuto, ma così ricchi di valori umani e anche di un progetto di trasformazione della società in senso più giusto, egualitario e democratico: questo progetto, dalla fine degli anni Sessanta, stava attraendo anche molti credenti. Dal capire poi venne anche la partecipazione cordiale al cammino del Movimento operaio e sindacale;
– c’era anche naturalmente, e non è scomparsa, una spinta missionaria, di evangelizzazione e di testimonianza; ma i modi di vivere questo ministero sono stati molto modificati dalla realtà: per poter essere evangelizzatore ho dovuto lasciarmi evangelizzare da un Dio che mi parlava, dall’interno di quell’esperienza, in modo tanto nuovo e diverso rispetto a quello elaborato negli ambienti di studio e di vita ecclesiastica.
Una certa fede ideologizzata e spiritualista veniva frantumata dalla storia concreta delle persone, delle oppressioni che subivano, delle solidarietà e lotte che sapevano esprimere; lì dentro dovevo scoprire l’azione liberatrice del Dio della storia;
– c’era infine la speranza di poter fare da tramite, da ponte tra la Chiesa e il Mondo operaio , per favorire nei due sensi la conoscenza, l’integrazione dei valori, affinché nascessero dei nuclei di chiesa inculturati nella classe operaia.
Il contesto ecclesiale in cui è maturata la vocazione di preteoperaio era quello dell’immediato post-concilio, con le grandi aperture mentali, i grandi entusiasmi di trasformazione, la riscoperta della Bibbia…; in particolare furono per me determinanti i quattro anni di teologia fatti in Belgio, durante i quali visitavo, tutte le settimane, molte famiglie di emigrati italiani in un quartiere di Bruxelles: la scelta del lavoro è stata anche un atto di fedeltà a tutto ciò che essi mi avevano insegnato; diventavo prete per loro (e per quelli che erano come loro), diventavo operaio come loro (anche se non con loro perché dovevo rientrare in Italia). I miei superiori gesuiti, nel contesto del rinnovamento della vita religiosa hanno accolto questa scelta e me l’hanno poi affidata come missione. Come dicevo all’inizio, la mia scelta è stata sempre vissuta non individualmente, ma in comunità con altri gesuiti (operai e non) e in collegamento con il Collettivo Nazionale dei PO.

D: Quale immagine di Chiesa si ha nel tuo ambiente di lavoro?
R: I miei compagni di lavoro, nei riguardi della Chiesa, sono a volte fermi a certi clichés, a certi stereotipi, che (oggi) hanno ben poco fondamento nella realtà, ma che tuttavia permangono. Questo è il segno che mancano veri canali di comunicazione che non siano solo verbali, e che ciò che essi percepiscono della vita della Chiesa attraverso gli incontri sporadici che molti ancora mantengono (ad es. battesimi, comunioni e cresime, matrimoni, funerali…) o attraverso i mass media non è significativo e capace di incidenza, di meraviglia, di interrogazione. Dire Chiesa per loro vuol dire ancora il prete o poco di più (ma forse ciò vale anche per molti praticanti). E la figura del prete è circondata da tutta una letteratura a connotazione negativa (non lavora, è un parassita, sfrutta la gente, o peggio…). Soltanto la conoscenza personale e diretta di questo o quel prete non interessato ai soldi, vicino alla gente, cordiale, può far mettere in dubbio quelle valutazioni negative. Chi va in Chiesa non è da essi giudicato necessariamente come un bigotto, ma è atteso alla verifica delle scelte che fa in campo sociale, negli atteggiamenti verso gli altri. Uno che è veramente un uomo, anche se va in Chiesa, è visto con rispetto e stima.

D: Il tuo impegno in ambito sindacale è stato talvolta considerato, da parte dei lavoratori o del datore di lavoro, come un’indebita intromissione da parte di chi dovrebbe solamente “dispensare sacramenti”?
R: Per i compagni di lavoro il mio impegno sindacale non crea particolari problemi, almeno mi sembra, anzi a volte c’è la tendenza ad affidarsi a me (“tu hai studiato, sai parlare, ti tieni informato e sai dare quasi sempre una risposta su varie questioni”…).
Per il datore di lavoro c’è a volte sorpresa o disagio per i miei atteggiamenti. Evidentemente non corrisponde sempre a quel modello di prete che ciascuno si è fatto in tanti anni di rapporto con la Chiesa.
Mi pare però che in qualche modo capiscano e apprezzino il mio sforzo di essere coerente con la fede che professo.

D: Come vivi all’interno della Chiesa locale la tua esperienza? Hai trovato più spesso ostacoli od incoraggiamenti?
R: Se sono (se siamo) a Parma è perché la Chiesa locale, il Vescovo (Mons. Pasini prima, e poi Mons. Cocchi) ci hanno accolti (nessuno di noi è parmigiano!).
Non entro nella vicenda dei PO diocesani.
Per me l’essere prete operaio a Parma non ha significato avere particolari porte aperte (tranne con qualche gruppo di base), ma neppure essere isolato o emarginato: mi sento inserito e partecipe della vita ecclesiale di Parma a vari livelli (parrocchia, Consiglio Pastorale, Commissione del Lavoro, gruppi di base).
Però mi sembra di dover dire che solo raramente mi è stata chiesta ragione (come fate voi adesso!) della mia scelta di lavoro o è stata valorizzata la specificità della mia esperienza in seno alla Chiesa locale. Certamente, ciò dipende in parte anche da me, da una difficoltà (o pudore) a dire, a far conoscere, capire ciò che vivo; ma in parte anche da un “non eccessivo interesse” verso i PO da parte della Chiesa locale, delle comunità religiose, parrocchiali…

D: Nella nota pastorale della C.E.I. «Chiesa e lavoratori nel cambiamento», dopo aver constatato il diffondersi presso tutte le classi sociali, di una «cultura economicistica», si avverte con preoccupazione la mancanza di una «nuova solidarietà» fra i lavoratori. Ritieni, tenendo presente la tua particolare situazione, che questi timori siano fondati?
R: La CEI, nel documento citato, dà un apprezzamento molto positivo sul sindacato, poiché lo riconosce come promotore non solo di miglioramento economico, ma anche di cultura e in particolare di una cultura della solidarietà. Senza solidarietà non può esistere il Movimento operaio o più in generale un Movimento dei Lavoratori, ma soltanto gruppi corporativi più o meno dotati di «potere contrattuale» (oggi questo potere si è spostato dagli operai ad altre categorie che contano: piloti, medici, bancari magistrati, generali…).
Il mondo operaio si è molto frammentato ed è bombardato non dalla cultura della solidarietà, che ha una voce fragile (sindacato, Chiesa…), ma dalla cultura del consumo e del successo.
Questo è evidente anche tra i miei compagni di lavoro (e sarei anch’io come loro se non avessi il voto di povertà e la cassa in comune!).
Ma credo che la partita non sia ancora persa: in molte famiglie ad es. ci sono giovani senza lavoro e questo è un dato di fatto su cui sapendo scegliere bene gli obiettivi e gli strumenti, si può costruire una nuova solidarietà.

D: Di fronte ai mutamenti in atto nella realtà industriale, quali la progressiva «terziarizzazione» della classe operaia, pensi debbano mutare gli strumenti attraverso i quali la Chiesa manifesta la propria attenzione nei confronti del mondo del lavoro? Quale senso hanno quindi oggi i preti-operai?
R: In quest’ultima risposta sarò un po’ più graffiante, come un animale toccato sul vivo. Devo dire che, almeno in Italia, la Chiesa (in questo caso i Vescovi) non ha quasi mai promosso o assunto l’esperienza del prete operaio come parte integrante della sua strategia di evangelizzazione del mondo del lavoro. A volte ci ha osteggiati, a volte ci ha lasciato fare, osservando come andava a finire. Ha cercato anche un dialogo ma senza arrivare a grandi cambiamenti di atteggiamento.
Per questo penso che se ora, per mancanza di seguaci su questa strada o per effetto delle trasformazioni in atto nel mondo produttivo, verranno meno i PO, la Chiesa non riterrà di rimanere senza «strumenti per manifestare la sua attenzione al mondo del lavoro». Lo dice chiaramente il documento della CEI già citato: «Non sarà necessario mandare un prete in certi ambienti “difficili” come gli ambienti di lavoro; la Chiesa dovrà essere già presente e attiva nei cristiani (laici), purché abbiano coscienza della loro identità e della loro missione come cristiani» (n. 23).
Ma noi non vorremmo scomparire così in fretta e senza lasciare nessun segno. Certo, la classe operaia, in parte non c’è più, ma i lavoratori, gli operai, ci sono ancora e se a volte sono un po’ più ricchi, per altri versi rischiano di essere più sfruttati (ritmi, nocività, mobilità, piccole aziende dove succede di tutto, caporalato presente anche a Parma, stranieri… e Ravenna tragicamente insegna…) e senza avere più una voce forte e unita nella società.
Noi, che riteniamo di essere ora nella maturità della nostra esperienza, vogliamo continuare a «starci dentro» in questo cambiamento, che non è certo pensato per il maggior bene dei lavoratori. Vogliamo «durare» con loro in questa fase senza perdere il gusto di porci degli interrogativi e di tentare delle risposte.
Ma vorremmo anche lasciare un segno nella Chiesa: quello di un modo di fare il prete che non rischi di ridursi ad essere il funzionario di servizi religiosi o l’organizzatore della comunità cristiana, ma che sia invece un cercare il Regno di Dio nelle strade su cui camminano anche tutti gli altri uomini; il prete fatto uomo con loro e come loro.
Per noi il “farci uomini” è passato attraverso il lavoro manuale e dipendente; per il prete di domani sarà forse qualcos’altro.
Abbiamo imparato, e lo vorremmo lasciare in eredità, che il «prete-prete» difficilmente può essere un vero prete secondo le dimensioni di «tutto» il Vangelo.

Toni Melloni


 

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