Editoriale



Apriamo questo quaderno dando la parola a don Beppe di Viareggio. Non è soltanto un atto di riconoscenza e di amore per un nostro compagno che all’improvviso se n’è andato, lasciandoci più soli nel cammino che per tanti anni abbiamo condiviso. La sua parola apre opportunamente questo numero della rivista per i contenuti trattati.

Nella prima parte vengono riportati i testi di alcune delle relazioni tenute al seminario promosso dai Pretioperai italiani a Camaldoli dal 1 al 3 maggio dello scorso anno sul tema: “Economia globale e giustizia sulla terra: sfida del 3° millennio”. A questi si aggiungono interventi e contributi in margine al seminario stesso.
Don Beppe era presente e ci ha regalato una pagina scritta nel vivo di quell’incontro, condita della sua abituale, sottile, ironia.
“Il castagno di Camaldoli”, è questo il titolo, rappresenta bene la capacità tutta sua di soffermarsi sull’episodico, sul quotidiano, con uno sguardo disteso ed un respiro ampio tanto da renderli trasparenti a dimensioni mondiali: come quando il bambino accosta all’orecchio la conchiglia per sentire l’eco della profondità del mare. Per Beppe il vecchio castagno del bosco di Camaldoli, “esemplare straordinario di una foresta antica e bellissima”, diventa “l’ultimo relatore” del seminario, capace di rappresentare “una magnifica lezione di speranza.. un grande inno alla vita”

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Il castagno di Camaldoli

Ho avuto la fortuna di poter trascorrere due giorni nel monastero di Camaldoli, per partecipare ad un “seminario” (parola che evoca possibilità di raccogliere “semi” buoni per la vita) organizzato dal piccolo gruppo dei pretioperai italiani.
Il tema di riflessione era davvero ampio e aperto sui problemi dell’attualità economica, finanziaria, sociale, religiosa: una specie di sguardo sul mondo per tentare di cogliere i segni dei tempi, partendo da quei fenomeni che ormai sono giudicati irreversibili e che incidono in maniera determinante sulla situazione di milioni di persone. Abbiamo cercato di scrutare la condizione globale del mondo stando chiusi dentro un’ampia sala, quasi affondati in grandi seggioloni, tutti presi dai relatori che abilmente ci hanno guidati con riflessioni molto stimolanti.
Abbiamo tentato di comprendere qualcosa di un alfabeto economico diffuso dai mezzi di comunicazione di massa (quelli, appunto, dell’era dominata dal “silicio”): e questo non tanto per una curiosità tecnica o scientifica, ma per vedere un po’ più a fondo cosa significano, oggi, parole “storiche” come capitale, profitto, finanza, economia, lavoro, occupazione, ricchezza…
Abbiamo puntato il cannocchiale sul drammatico problema dell’esclusione di miliardi di uomini e donne dal “processo produttivo”, in forza di un principio che sembra fondare in modo indiscutibile il movimento economico dei paesi ricchi: il profitto deve essere spinto al massimo, la ricchezza deve produrre sempre più ricchezza, a qualunque costo. Fosse anche la fame e l’impoverimento di milioni di esseri umani. Oggi, si è detto (e i dati lo confermano) è possibile “in tempo reale” spostare, per la prima volta, interi capitali da un posto all’altro sulla terra, incidendo in modo diretto sulla condizione materiale della gente e sulla stessa “condizione di vita” della terra (l’ecosistema è stato attaccato con una violenza mai vista prima). La “cultura del successo” come segno di intelligenza, coraggio, capacità imprenditoriale (e di “benedizione celeste”!) sostiene da alcuni decenni tutto questo movimento economico che determina situazioni mai immaginate. Cosa fare per resistere a tutto questo? Come reggere alla forza di una “cascata” di tale potenza, dove l’acqua del fiume precipita a valle con una forza d’urto inarrestabile? Che senso nuovo ed autentico possiamo dare a parole antiche (alcuni dicono “vecchie”) come Giustizia, Amore, Fratellanza, Etica, Povertà, Mistica?
Con tutti questi pensieri (e molti altri) nell’anima mi sono addentrato, la mattina dell’ultimo giorno, nello splendido bosco che sovrasta il monastero. Il bosco ha sempre rappresentato una forte attrazione per me; il bosco di Camaldoli è davvero stupendo, una vera e propria foresta secolare. Mi piacerebbe potervi camminare per qualche giorno, senza mai uscirne: gli alberi di tante varietà e di età diversa hanno un fascino tutto speciale. Essi sanno raccontare tante cose per chi sa ascoltare la loro voce, specialmente quando il vento passa tra i loro rami e li rende più ciarlieri. E poi ci sono i fiori, come in quella stupenda mattina di maggio, e l’acqua dei ruscelli davvero “sorella umile e casta”… E poi ad una curva del sentiero, possono apparire famiglie di daini al pascolo, dai grandi occhi dolci e col naso sempre all’insù a fiutare l’aria senza sosta: il nemico può essere sempre in agguato, si sa.
Camminando per il piccolo sentiero, con passo calmo e sereno, mi sono trovato ai piedi di una pianta di castagno davvero speciale. È un castagno “famoso”: mi sono ricordato, in quel mattino di luce, di aver visto una cartolina che lo riproduce con un monaco che legge (o prega) stando seduto dentro al suo tronco completamente vuoto. La gloriosa pianta ha vicino una scritta che la forestale vi ha messo per onorarne la veneranda età: si pensa che abbia da 300 a 500 anni! Molto simpatica ed indicativa mi è apparsa la finale della scritta: “Tutta la parte interna del tronco (completamente vuoto!) ha solo funzione meccanica e di sostegno. La parte viva e vitale della pianta che permette la circolazione della linfa è solo quella circolare, periferica del fusto. Per questo la pianta può continuare a vivere”. Ho guardato con particolare amore il vecchio castagno, sulla cui corteccia esterna dei timidi rami osavano mettere in bella mostra tenere foglie accarezzate dal sole del primo mattino: la sua “periferia” era davvero viva e vitale! Mi è sembrato di buon augurio questo incontro non programmato: il mio “ultimo relatore”, esemplare straordinario di una foresta antica e bellissima, mi ha voluto dare (almeno così mi è parso) una magnifica lezione di speranza. Può darsi che volesse aiutarmi a volgere con più attenzione lo sguardo alla “periferia del mondo”, ad indagare più attentamente i segni che salgono da tutti i “sud” che i molti “nord” tentano in ogni modo di asservire alle proprie logiche di sfruttamento e profitto. Forse il suo era un invito a non temere lo “svuotamento” da tutto ciò che è superfluo, che non conta, che si può anche perdere, anzi, che è meglio perdere… Chissà! Stando all’interno del suo tronco, interamente avvolto dalla straordinaria capacità di accoglienza del suo “vuoto”, mi è sembrato di capire che la sua muta, ma eloquente lezione era un grande inno alla vita.

don Beppe

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La seconda parte di questo quaderno è dedicata al ricordo di don Sirio Politi a dieci anni dalla morte. È in preparazione dell’incontro che i Pretioperai italiani faranno a Viareggio dal 1° al 3 maggio prossimi.
Le vite di Sirio e di Beppe si sono intrecciate per tanti, tanti anni. Lo ricordava lo stesso Beppe nel numero precedente della nostra rivista, quello che, per espresso suo desiderio, riporta in copertina la foto con la chiesetta dei pescatori. È il piccolo angolo di mondo amato da Sirio, diventato per Beppe la zolla di terra, familiare come la casa in cui si nasce, unico come il luogo del primo amore. Riascoltiamo dalla sua viva voce quella che lui descrive come l’inizio di un’avventura…

“Correva l’anno 1962… Sono approdato su questo pezzetto di terra, dove Sirio aveva messo radici dal 1956, riparando una casetta mezza diroccata dalla quale era nata la ‘chiesetta dei pescatori’ ed alcune stanze di abitazione. Sirio mi ospitò con grandissima amicizia e mi accolse in casa sua offrendomi la cameretta vicino alla porta d’ingresso: allora non poteva immaginare che sarebbe diventata la mia camera…
Questo piccolo angolo di mondo che Sirio ha amato intensamente, trasformandolo da terra abbandonata …in giardino accogliente e bello è diventato per me un luogo molto speciale. Da allora, da quel settembre del ’62, l’acqua del canale ha portato via molte cose con quel suo scorrere quasi impercettibile verso il mare. Anche Sirio se n’è andato verso spiagge di cui non ci è dato di conoscere gli orizzonti, se non nell’abbandono fiducioso al Padre, che conosce i segreti della vita e della morte.
Anche nella mia piccola vita sono cambiate tante cose… Tuttavia questa ‘zolla di terra’ rimane il luogo privilegiato della mia esistenza, uno spazio semplice nel quale mi ‘riconosco’, come la casa dove siamo nati, il luogo del primo amore, il punto in cui il fiume, finalmente uscito alla luce del sole, ha iniziato a scorrere verso il mare. E di questo io sono immensamente felice e riconoscente”.

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Lunedì 19 gennaio, al mattino mentre andava al lavoro nella sua cooperativa, don Beppe si è sentito male. Inutile ogni tentativo di trattenerlo sulla nostra sponda, nella sua zolla di terra…
…L’acqua del canale continua a scorrere…
Come dieci anni fa con don Sirio, Viareggio ha capito il dono che aveva ricevuto.
Uomini, donne, bambini si avvicendavano nella chiesetta dei pescatori a toccare o baciare la bara chiusa, in un personalissimo e ultimo saluto. Su molti volti si leggeva la fatica di una vita intera.
Come allora una fiumana di persone in corteo a riempire il palazzetto dello sport; le sirene l’accompagnavano innalzando il loro lamento che si perdeva nell’immensità del mare.
Anche questa volta, le vie di Viareggio erano cosparse di locandine:

GRAZIE, BEPPE
I lavoratori della C.RE.A
…indifferenti mai

Il fiume uscito alla luce del sole è arrivato al mare.
In una parte di noi è radicata la gioia di aver condiviso per tanti anni la sua avventura. Di questo siamo immensamente riconoscenti.

Roberto Fiorini


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