“CHI LOTTA E SOFFRE SU UNA ZOLLA DI TERRA
LOTTA E SOFFRE PER TUTTA LA TERRA”
Viareggio 1998

Interventi


 

“Dio dorme nella pietra
respira nell’animale
pensa nel cuore dell’uomo”
(detto degli indiani di America)


Vorrei presentare in questo mio intervento il vissuto nella sua dimensione mistica-contemplativa, necessaria per una visione olistica della vita. È un guardare dentro i fatti, gli avvenimenti, il lavoro, la quotidianità e le svolte. Nella tradizione tibetana si parla del terzo occhio per alcuni illuminati che dà la possibilità di vedere quello che in apparenza non si vede; è l’acquisizione di una dimensione diversa in cui le persone e le cose appaiono sotto un altro punto di vista, dandoti la possibilità di accostarti ad esse con sentimenti diversi: è la dimensione mistica, che è un riportare tutto al centro, andare al centro delle cose, per non vivere alla periferia dell’essere. Sono lontani gli anni in cui si voleva gridare ai quattro venti le nostre scelte, le nostre rotture educati come si era ad essere dei missionari. Un dissenso vissuto come scontro frontale in un periodo di comunicazione effervescente.
In questi ultimi tempi si prova disagio a dover raccontare se stessi perché la nostra vita per lunghi anni è stata passata al setaccio e sembra non ci sia più nulla da scoprire. D’altra parte, data l’inflazione della parola, con i suoi bla bla bla, si assiste all’interesse verso il vissuto con i suoi racconti che diventano un dono prezioso come lo scrivere una lettera a mano dove traspaiono la vita, le inquietudini, i percorsi e i tentativi di affrontare quello che il tempo richiede. Mi viene in mente in questo momento un aneddoto zen che esprime bene il passaggio di questi anni.
Il maestro Pai-chang voleva scegliere un monaco a cui affidare l’incarico di aprire un nuovo monastero. Convocò i suoi discepoli, pose una brocca sul pavimento e disse loro: “Sceglierò chi saprà descrivere questa brocca senza nominarla”. “È un vaso di forma rotondeggiante, con un manico e un becco” rispose il più colto dei suoi allievi. “È un recipiente di color grigio e serve a contenere acqua e altri liquidi” disse un altro. “Non è uno zoccolo” intervenne un terzo più spiritosamente. Gli altri monaci non dissero nulla perché erano convinti di non poter escogitare definizioni migliori. “Non c’è nessun altro?” domandò il maestro. Allora si alzò Kuei-shan, che nel monastero era un semplice inserviente. Egli prese la brocca in mano e la mostrò a tutti senza dir nulla. Il maestro dichiarò: “Kuei-shan sarà l’abate del nuovo monastero”.
Non c’è bisogno di parlare molto su quello che si è vissuto e soprattutto su quello che si vive. La comunicazione ha scelto altre strade più complete di quella verbale. Chi vive sulla montagna non ha bisogno di parlare della
montagna: il parlarne significa che essa sta là e noi siamo qui: si è semplice­mente diventati montagna. I gesti, gli sguardi e il volto esprimono le lotte sofferte, la ricerca di Dio, il lavoro e la solidarietà. È l’acquisizione di una deformazione professionale positiva. Considero gli avvenimenti di questi 20-30 anni che hanno segnato le nostre vite simili al periodo di Gesù a Gerusalemme: giorni di grandi dibattiti e scontri, giorni di passione e morte. Ma dopo la risurrezione ecco l’annuncio dell’angelo: “Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea, là lo vedrete, come vi ha detto”. Un ritorno in Galilea che significa Nazareth, il lago, la pesca, il mangiare i pesci sulla riva del lago, le parabole e i racconti, la veglia nella notte. Un riappropriarsi della vita ordinaria che diventa importante, come luogo privilegiato dell’incontro con Dio. Non è rinuncia e resa, ma un mangiare i frutti della propria liberazione, frutti del Regno che è già in mezzo a noi. È la saggezza del tempo: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, c’è un tempo per abbattere i muri e un tempo per ricostruire, un tempo per arare e seminare, un tempo per raccogliere i frutti, sapendo che la storia è un continuo andare e ritornare nella sua concezione circolare: ritornando al centro si riesce a capirne il significato profondo.
L’ambito più qualificante e significativo del prete-operaio è quello del lavoro e vorrei entrare in esso con il famoso terzo occhio di cui parlavo sopra. Dopo le mie nozze d’argento con il legno posso dire che il mio matrimonio sia ben riuscito e con l’andare del tempo esso si rafforza dando frutti insperati. Mi sembra la fecondità del vecchio Abramo. Sono innamorato del mio lavoro che vivo come arte, come contemplazione e perché no come preghiera. Non un lavoro per vivere, che passa in second’ordine, ma un lavoro che diventa vita, la gioia del lavoro, un momento di grazia. È un atto creativo: “E vide che ciò era buono”. Un lavoro che diventa parte del riposo sabbatico.
In francese il lavoro è “travail” e in catalano “treball”: ambedue derivano dalla parola latina “tripalium”, che significa: strumento di tortura. Per molti esso è diventato tale ed è reso tale dalla situazione storica che non ha avuto la forza di liberarlo.
Gli artigiani veri si assomigliano tutti nella fisionomia: ti accorgi quando li incontri per strada, quando lavorano e soprattutto presso i fornitori di legno o nelle ferramenta. Toccano il legno con delicatezza, lo accarezzano, lo girano e lo rigirano nelle mani senza fretta prima di acquistarlo. Michelangelo faceva lo stesso con il marmo perché vedeva in esso l’immagine scolpita. Altri invece, direi la maggioranza, arrivano velocemente con dei furgoni, scendono sbattendo le portiere, prendono fogli enormi di truciolare e laminato, cataste di legno quasi sempre africano e sudame-ricano scriteriatamente e se ne vanno in fretta. Coinvolti in lavori grossi nell’edilizia, legati agli appalti, costretti a lavorare fino a notte, sabato e domenica comprese per far fronte alle richieste. Questi “colleghi”, la maggior parte sono dei fumatori accaniti, ti mettono ansia mentre aspettano e appena possono ti fregano, non vogliono aspettare il loro turno. Il lavoro è diventato una droga. Non hanno tempo per i lavori piccoli e più umili. A me serve tempo prima di iniziare un lavoro: un tempo per pensare, è l’atto contemplativo che mi permette di diventare tutt’uno con esso. È come stringere un albero e sentire la linfa che scorre dentro ricevendone così energia positiva. Solo ora capisco il perché Rubliev prima di dipingere le sue icone passava un periodo di contemplazione, preghiera e meditazione: l’opera che creava diventava viva, comunicava energia a chi la guardava. L’orante diventava e diventa tutt’uno con l’opera. Direi che l’artista teneva conto dell’osservatore-orante, lo invitava ad una simbiosi, facendolo entrare nell’icona come parte integrante. Lo si vede chiarissimamente nell’icona della Trinità: i tre seduti alla mensa sembra aspettino il quarto personaggio che in questo caso è l’orante, che chiude il cerchio riempiendo con la sua presenza lo spazio lasciato libero di proposito. È la stessa sensazione che si prova per i mobili fatti a mano, danno calore e rendono l’ambiente più accogliente. Ogni opera commissionata ha una storia unica, collegata a persone, luoghi, non adattabile ad ogni situazione, che permette di relazionarti a volti precisi e non anonimi delle persone per le quali stai lavorando: un lavoro che diventa comunione. Quando c’è questa simbiosi il tutto ha un senso, il tempo non esiste più perché diventa un tempo liberato. Non c’è un prima e un poi. Sarebbe troppo limitante definire la storia del movimento operaio solo come un tentativo di distruggere il tempo, ma qualcosa di vero c’è. I rivoluzionari della comune di Parigi avevano distrutto tutti gli orologi pubblici della città. È lo sforzo di dare dignità al lavoro, facendolo uscire dalla logica dello sfruttamento. Quando esso è considerato come obbligo ha come fine non la realizzazione dell’uomo, ma la soddisfazione delle necessità del lavoro. La perversione sta proprio nel togliere l’anima per diventare macchina tecnologica, con l’annullamento dello spazio interiore. Molte volte allora la macchina tecnologica diventa “tripalium”, strumento di tortura.
Un altro problema che il lavoro mi ha posto è stato quello degli scarti. Fino ad alcuni anni fa, quando ancora lavoravo freneticamente, non avevo il tempo di accantonare i piccoli pezzi di legno: li bruciavo in mezzo al giardino, così pure la segatura, per non parlare dei pezzi di compensato. Ora anch’essi hanno la loro dignità: trovo il tempo di collocarli in lavori sempre più piccoli, che richiedono maggior impegno ma diventano dei gioielli dando grosse soddisfazioni. Questa attenzione al piccolo e al particolare è diventata uno stile di vita: tutto è prezioso, nulla va scartato. I piccoli gesti quotidiani sono diventati importanti: il mangiare e il dormire, il camminare e gli incontri casuali e le strette di mano, il saluto e lo sguardo, l’aprire la porta a chi entra in casa accogliendolo con un sorriso, il preparare seriamente ogni incontro anche piccolo senza lasciarsi sopraffare dalla fretta, diradando le attività per avere il tempo di assorbire i messaggi. Chiamo questo modo di vivere col termine di consapevolezza, che è lo stesso concetto evangelico del vegliare, della lampada accesa perennemente come nella parabola delle vergini, perché nel frammento c’è l’intero di tomistica memoria.
Mi vengono in mente gli anni settanta, quand’ero a Gregna, nella periferia di Roma: avevo sempre fretta, impegni sopra impegni: comitato di quartiere, riunioni, assemblee, dibattiti, occupazioni. Si mangiava di corsa, lavori frenetici da consegnare. Quando incontravi qualcuno non si aveva tempo e si diceva: ripassi più tardi. La casa piena di cose, il tavolo ingombro di libri, giornali, ciclostilati, volantini e nonché di piatti, bicchieri sporchi e avanzi di cibo. Quello che contava erano le attività vistose, senza cura del particolare.
Il legno è stato per me un grande maestro, molto saggio. Con esso ho imparato ad evitare lo scontro. Piallando contro vena t’accorgi che saltano i pezzi, lasciando nel legno delle ferite. Seguendo il verso giusto tutto scorre con facilità e si appiana. Le lotte che senso hanno? Ci sono molti modi per affrontare i problemi, e qui mi affido ancora al mio maestro legno e a un altro maestro: un bambino. Per cinque anni ho vissuto con un bambino nato in casa mia da una coppia che ho ospitato: egli mi ha fatto riscoprire la saggezza delle favole che spesso gli raccontavo tenendomelo sulle ginocchia tutte le sere. In una di queste favole (la spada nella roccia) si parla del mago Merlino che si scontra con la maga Margot. In questa lotta uno dei due doveva soccombere e per questo dovevano trasformarsi in mostri sempre più grandi: la stessa strategia usata per la corsa al riarmo. Merlino riesce ad avere la meglio quando smette di trasformarsi in grossi mostri ed entrando nella maga come piccolo virus. Il legno mi ripropone la stessa soluzione che ho appreso con il restauro dei mobili antichi, che un piccolo animale demolisce lentamente, ma con costanza: il tarlo. Dopo questo lavorio silenzioso e sotterraneo basta un colpo per far saltare le gambe e far cadere gli sportelli. La lotta oggi è quella del tarlo, nelle piccole cose, nella quotidianità dove si è insidiato il grande Moloch del consumismo, ridando dignità alla nostra vita, utilizzare i sassolini di David per abbattere il Golia, perché anche i giganti hanno i piedi di argilla. Basta spegnere il televisore e non comprare certi prodotti per far saltare e mandare in crisi i giganti.
È un’esperienza universale, che ti mette in contatto con tutto il mondo. È l’idea di questo convegno: chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre per tutta la terra. Aprendo il frigorifero t’accorgi che quei prodotti sono frutti di sfruttamento di migliaia di persone e allora stai attento a comprare certi prodotti e non altri. Acquistando il legno puoi scegliere quello che cresce in Europa e quello che viene dal Sud del mondo causando il disboscamento sconsiderato di milioni di ettari con tutto quello che ne consegue. Si usa l’auto per lo stretto necessario e prima di salire mi chiedo: dove vado?, perché essa inquina e prima o poi le riserve si esauriranno. Non si andrà nei grossi supermercati perché questo significa disoccupazione per tanti. Un consumo consapevole e la consapevolezza fa grossi miracoli. È questo il tarlo quotidiano. Quando si è consapevoli, vigilanti, anche gli avvenimenti della vita che qualche volta ti obbligano a cambiare rotta hanno un senso e non ti spaventano, li accogli come dei passaggi, utilizzando degli strumenti che si hanno a disposizione.
Lasciare Roma per me dopo tanti anni poteva essere traumatico per ricominciare tutto da capo. Ho vissuto questo passaggio serenamente. Il contemplativo trova stupore in ogni momento, basta conservare dentro di sé l’animo del bambino che si stupisce di fronte a qualsiasi evento.
Vorrei concludere questo mio intervento con un piccolo racconto che ci invita alla consapevolezza e ad usare le risorse che abbiamo a disposizione, soprattutto per quelli tra di noi che in questo momento si sentono fuori dai grossi impegni per salute, per il pensionamento ed altro…

In un campo di concentramento viveva
un tempo un prigioniero, il quale,
pur essendo stato condannato a morte,
si sentiva libero e senza paura.
Un giorno si mise a suonare la chitarra
in mezzo al cortile della prigione.
Si radunò una grande folla
ad ascoltarlo,
perché la magia della sua musica
comunicava a tutti il suo stesso coraggio.
Quando il direttore del carcere
se ne accorse,
proibì all’uomo di suonare.

Tuttavia il giorno seguente
la cosa si ripeté: il prigioniero
cantava e suonava la chitarra,
circondato da una folla ancora più grande.
Le guardie furenti lo trascinarono via
e gli fecero tagliare le dita.

Il giorno dopo egli riprovò
a cantare e suonare come poteva
con i monconi sanguinanti.
Questa volta la gente
applaudiva al colmo dell’entusiasmo.
Le guardie lo portarono via
di nuovo e gli fracassarono
la chitarra.

L’indomani egli cantò con tutte
le sue forze.
Com’era puro e sublime il suo canto!
Tutti unirono le loro voci alla sua
e mentre cantavano
i loro cuori divennero puri
e il loro spirito indomabile
come il suo.
Questa volta i carcerieri
si infuriatono così tanto
che gli fecero strappare la lingua.

Sul campo calò un profondo silenzio,
quasi un presagio di immortalità.

Con grande stupore di tutti,
il giorno dopo egli era di nuovo
al suo posto
e danzava oscillando al ritmo di una
musica silenziosa
che solo lui poteva udire.

Presto tutti si presero per mano
e si misero a ballare
intorno alla sua figura
mutilata e sanguinante,
mentre le guardie restavano impietrite
dalla sorpresa.

Mario Signorelli


 

Share This