“CHI LOTTA E SOFFRE SU UNA ZOLLA DI TERRA
LOTTA E SOFFRE PER TUTTA LA TERRA”
Viareggio 1998

Interventi


 

L’incontro a Viareggio nella comunità di don Sirio, con gli amici di sempre mi offre la possibilità di una conversazione piana attorno ad alcune parole, che col tempo sedimentano e fioriscono nuovi colori e nuovi profumi. Sono poche, ma hanno uno spessore che può coprire diversi volumi. Non per questo voglio incomodare la pazienza del lettore e la penna dell’esegeta.
A Viareggio non si poteva passare sotto silenzio don Sirio Politi; ho seguito la lettura al femminile fatta dalla signora Maria Grazia su uno dei primi PO, che ha dovuto scoprire la strada da percorrere, che ancora nessuno aveva tracciato. Lui è il testimone di un percorso che si poteva fare; un testimone non rigido, anche se attorno a lui si ponevano difficoltà di ordine teorico e prammatico. Lui ce l’ha fatta; e da buon testimone lascia a ciascuno di scoprire la sua strada, quella che parte da lui e confluisce nella relazione. Il testimone ci chiede gli occhi per vedere e l’orecchio per ascoltare.

L’ ascolto è la seconda parola che mi sovviene. Il movimento dei PO, che sembra scemare nel crepuscolo di fine millennio lascia dietro di sé questa traccia, luminescente, madreperlacea direbbe il poeta: ed è la capacità di ascoltare. La risposta dei PO si è sviluppata dopo l’ascolto, ed è per questo che la nostra inutilità è fertile; la sensazione alla fine di questo millennio, e non perché non ci sono stati riconoscimenti ufficiali, è quella della inutilità; siamo rimasti soli e testardi alla fine della vita, di fronte alla morte, inutili; ma è l’inutilità che nasce da un servizio senza trofei; l’inutilità che ha dato tutto, e dunque vuota per accogliere ancora la vita. Non ci aspettavamo un premio. Ed oggi nell’atmosfera di questo convegno io percepisco un clima di mitezza: sono caduti i venti della polemica, ma siamo più sicuri di fronte all’imponderabile.
La terza parola è la misericordia . Questo procedere mi fa venire in mente gli esercizi che talvolta qualche buon gesuita teneva in Seminario: pieno di punti e sotto punti, all’infinito. Ma il seminario mi ricorda anche il ruolo o i ruoli ai quali ci aveva preparato. Il ruolo di pastore, di maestro, di capo, difensore della dottrina e dei buoni costumi; integerrimo, disponibile, attento, ossequiente, mangiato dalle anime. Tutte cose buone, ma tutte cose astratte, che poi la vita avrebbe saggiato e verificato. Ma quando ho iniziato l’attività in fabbrica, quando abbiamo iniziato l’attività manuale ci siamo accorti quanto era distante il modello, il libro dei ruoli rispetto alla realtà.
Le cose che dicevamo erano pur sante, avevano illuminato le nostre veglie e le nostre riflessioni davanti a Dio, al nostro Dio solitario. Ma poi a contatto con la realtà, con la nostra debolezza, con la fatica degli altri a costruirsi uno spazio umano cresceva dentro di noi non tanto il maestro, o il confessore, ma l’anima del padre che non fa programmi per i suoi figli, ed aspetta che ciascuno manifesti le sue doti, faccia le sue scelte. Sono caduti i traguardi della perfezione, e si sono aperte le strade dell’imperfezione; non per cullarci nella pigrizia del pressappoco, ma per trovare azioni e parole che non si perdessero nel frastuono; parole e atti che costruissero delle relazioni e non dei rapporti di forza, di inferiorità o di soggezione. Nella misericordia si scopre il rispetto di se stessi e si costruisce una vita senza finzioni, perché scompare la competizione, quella con noi e con gli altri.

Non abbiamo assolutizzato il mondo del lavoro, anche se abbiamo avuto momenti in cui abbiamo sentito il bisogno di una forte identificazione con il movimento operaio: forse non avevamo schemi preconfezionati. Ed i percorsi non erano segnati. Per questo sul nostro tracciato non poteva mancare la donna ; la donna non come episodio personale, rifugio affettivo ed affettuoso nel mare in tempesta. E la donna dovrebbe determinare anche il futuro della chiesa, non tanto rispetto ai ruoli, ma al modo di porci nel rapporto con il trascendente. L’incontro con la donna, il rapporto con lei significa rapporto con la vita; noi uomini, e noi preti in particolare abbiamo sempre bisogno delle motivazioni, delle ideologie, della razionalizzazione del nostro operare.
La donna ci riporta al contatto con l’esistente, con la persona che cresce, la persona che vive e non con la persona astratta. La dimensione intuitiva della donna avvicina la realtà e la vita a quelli che sono i bisogni fondamentali dell’uomo. Fa parte della donna la capacità di ascoltare, di crescere nel suo grembo la vita; la pazienza di seguire passo per passo la crescita del figlio. Ed è lei che comprende ed ha compassione, nel senso che è capace di camminare accanto, senza chiedere il perché razionale delle cose. Ed è appunto con lei che si può scoprire la dimensione della misericordia. La donna accetta il figlio che la vita le offre. La donna si oppone alla guerra, perché solo distruzione della vita. La donna è contro le grandi costruzioni ideologiche, assolute, perché ha di fronte il bimbo che le cresce tra le braccia.

E si apre il siparietto su di un’altra parola: liberazione . Noi usiamo molto la parola libertà; ed in nome della libertà altri hanno combattuto e sono morti. La libertà apre la nostra era; tempo di rivoluzioni e di guerre; di scontri e di massacri; di grandi entusiasmi e di precipitosi abbattimenti. In America latina usano di più la parola Liberazione. La liberazione non è un’affermazione di principio, ma un processo in cui sono coinvolti degli uomini, delle persone concrete. La liberazione è un processo che risponde a dei bisogni concreti. La liberazione tiene davanti a sé anche il progetto di liberazione grande; ma passa attraverso la costruzione di una vita che sia fin da ora umana. Ecco allora la funzione importante dell’ascolto, dell’attesa; ecco emergere la funzione della donna, non per i ruoli, ma con la sua presenza dialettica; che senza opporsi, vitalizza la nostra razionalità fredda e senza anima.
Certo, quando ho iniziato il mio viaggio di evangelizzazione non stava scritto tutto questo nel mio taccuino. Credo che proprio alcune cose fossero un tabù. Oppure erano cose buone teoricamente, ma che ben altre erano le mete verso cui dirigersi. Camminando abbiamo incontrato persone; con loro abbiamo fatto dei pezzi di strada; a volte brevi, a volte lunghi; ma in quei percorsi c’eravamo noi, con la nostra pelle, con la nostra responsabilità . Ecco un’altra parola, che rappresenta per noi forse la nuova etica.
Qualcuno nel suo intervento parlava di disagio, insofferenza di fare delle cose inutili. Cose che nel parlar comune vengono disprezzate. Io credo che anche questo ci abbia portato ad una scelta diversa; che non è quella di essere solo coerenti, ma di accettare l’altro, la diversità. Accettarla non per omologarla, ma perché tale diversità diventi gioia nel grande convito che gli uomini costruiscono e demoliscono in continuazione. Non esiste infatti un processo ascendente di vita e di progresso: il grande evento, la grande novità è quella di rispondere alle parole degli altri e capire i suoi cenni, e non quello del mondo migliore possibile (già demolito da Voltaire). Questo forse è almeno una parte del messaggio dei PO: non quello di costruire una chiesa nuova, con nuove gerarchie, ma quello di aver ascoltato un mondo che cerca lo spirito al di là dei sacri riti. Che non rifiuta i simboli, ma si sente a disagio a fronte dei paludamenti. Che gradisce il pane ed il sale; e sorseggia il vino.
Per questo nel crepuscolo del millennio, mentre pare spegnersi il movimento dei PO, resta la sua eredità, che è anche la testimonianza di don Sirio. Anch’io ho conosciuto don Sirio che apriva negli anni cinquanta l’esperienza dei PO, non certo come movimento organizzato, ma per rispondere a sé ed agli altri. Noi non salviamo nessuno; ma ci salviamo con gli altri; nella carne e nel sangue; e non solo nell’impalpabile rarefazione. Don Sirio è un testimone, perché ha saputo cogliere ed ascoltare un bisogno che nasceva dentro e si realizzava nel rapporto con gli altri e con Dio. Per questo era tollerante, e sapeva aspettare; e pure mediare, senza tradire. Era fedele all’uomo concreto, che piange e che ride; che vive e che muore; che lotta e corre nel vento.

Giuseppe Stoppiglia


 

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