Per il prossimo incontro nazionale PO:
“AMA IL TUO SOGNO SE PUR TI TORMENTA:
PASSIONE DELLA LIBERTÀ / OBBLIGO DELLA LIBERAZIONE”

 Viareggio, 30 aprile-2 maggio 1999


 

1.
Ai pretioperai italiani

Cari amici,
sabato 6 febbraio alcuni rematori volontari (Tony Revelli, Giorgio Bersani, Luigi Forigo, Giancarlo Ruffato, Sergio Pellegrini, Renzo Fanfani e Roberto Fiorini) si sono incontrati a Verona per mettere a punto il tema e l’organizzazione per il prossimo incontro di Viareggio.
Lo scorso anno, concludendo i nostri lavori, si è deciso che ci saremmo ritrovati per scambiare le nostre riflessioni su libertà-liberazione.
Il titolo sul quale i rematori si sono trovati all’unanimità è il seguente:

“Ama il tuo sogno se pur ti tormenta:
passione della libertà, dovere della liberazione”

 
Si è anche deciso di non aggiungere altre indicazioni a quelle già offerte (Pretioperai 42-43 pp. 85-86) e che si riportano in parte con leggere modifiche:
“Va tenuta presente una premessa generale: libertà-liberazione vanno sempre riferite ad un contesto preciso nel quale si utilizzano, quale unica possibilità per capirci. quanto riguarda la libertà indichiamo 4 piste:
• La libertà come è nominata e proposta nel contesto biblico, in particolare nel N.T. (es. da Paolo in Galati, da Giovanni…)
• Esercizio di libertà e responsabilità nella chiesa
• La libertà nel contesto dell’occidente nell’epoca moderna e postmoderna
• Come il preteoperaio ha accolto la sfida della propria libertà, nel pensare e nell’agire, nei tre ambiti:

– personale
– lavoro
– fede-testimonianza.

Per quanto riguarda la tematica della liberazione:
• La liberazione è una categoria centrale della rivelazione biblica
• Relazione di oppressione strutturale (finanziaria, economica, militare, mediale, culturale) tra nord e sud del mondo
• Pratiche di autoliberazione in un contesto di capitalismo avanzato
• Incrocio libertà-liberazione (la mia libertà non deve diventare oppressione per l’altro, anzi deve lottare perché l’altro possa essere libero)”.


 

2.
Per una riflessione su libertà e liberazione
di Toni Revelli

Impossibilitato a partecipare all’incontro deI 17-18/10 per impegni non procrastinabili, invio un piccolo contributo scritto.
Vorrei dare a questa riflessione un carattere anzitutto etico, perché ritengo che ogni azione politica di liberazione, ogni affermazione di libertà, necessitano di un fondamento che la sola politica non può dare.
La questione della libertà si decide a livello etico e, per il credente, a livello di adesione fedele alla Parola che libera. Nessuno ci “libera”, nel senso pieno del termine, se non Cristo. Nessuno libera nessuno, se la liberazione non nasce da profonde i stanze etiche ed evangeliche.
Mi pare dunque di dover porre la questione sui diversi tipi di “libertà” che siamo chiamati a vivere:
• esiste una “libertà da…”, sempre da raggiungere, in risposta a situazioni sempre nuove (seppure sempre ripetitive): libertà dallo sfruttamento, dalle oppressioni fisiche e morali, dalle imposizioni e dalle costrizioni, da condizioni inumane di vita a livelli economici, sanitari, culturali, ecc…
• riproponendo però la questione in termini più creativi e propositivi, mi pare si debba affermare la “libertà di…”: libertà di agire secondo le proprie convinzioni, di partecipazione attiva alla vita sociale politica ed economica, di accrescimento del proprio bagaglio di capacità e del proprio patrimonio culturale, di dialogo e di confronto con le culture “altre” nella costruzione di liberi rapporti con “l’altro”, con colui che viene negato proprio per la sua alterità; di costruire il proprio spazio di libertà costruendo nel contempo condizioni di uguale libertà per tutti, ecc.

Al primo modello di libertà contribuiscono notevolmente le diverse “carte dei diritti” che man mano sono state elaborate; tuttavia l’orizzonte appare ancora limitato e statico:
– in genere si gioca “in difesa”: la difesa dei propri diritti;
– si rimane impigliati in logiche rivendicazioniste che possono assumere in sé la violenza o l’affermazione unilaterale di “diritti” che non sempre sono tali, se per la loro soddisfazione si prevarica sull’altro (tutto sommato non è mai da dimenticare la “Lettera a Pipetta” di don Lorenzo Milani)..
Il secondo modello è fondato piuttosto su una “etica della responsabilità”, capace di aprire orizzonti più ampi e creativi, facendo uscire dalle secche delle “attese” o delle battaglie di retroguardia per passare a una logica propositiva, capace di indicare obiettivi sempre più avanzati, capace di coinvolgere più a fondo tutti coloro che vogliono ipotizzare e attuare nuove frontiere di solidarietà, di allargamento delle opportunità, di potenziamento delle capacità di costruire forme sempre più elevate di convivenza, soprattutto attraverso una reale “crescita” in capacità e potere delle classi povere, emarginate, tenute in condizione di sfruttamento: dare loro lo spazio negato affinché diventino in prima persona costnittrici di libertà…
L’etica della responsabilità diventa un forte richiamo alla utilizzazione piena di ogni pur piccola risorsa, stimolo ad accrescere le risorse di cui si dispone, ricerca di nuove risorse…
Sono convinto che certe forme di apatia e di disinteresse per il politico che caratterizza molta parte dei poveri e degli emarginati, compreso il crollo della “coscienza di classe” su cui molto abbiamo scommesso nella nostra storia di PO, trovano una loro spiegazione anche nelle attese deluse, nella debolezza delle “lotte di difesa”: in una parola nella illusione che la libertà dovesse venire “da altri”, al limite rivendicata e fatta oggetto da “conquistare”.
Ma la libertà non è un oggetto; non ci viene da altri…
D’altra parte siamo testimoni ogni giorno di come il capitalismo avanzato, con i suoi miti, sappia dare ampi surrogati di libertà e sappia soddisfare a modo suo molti vantati “diritti”, ridotti spesso alla pura dimensione economica, creando ulteriore deresponsabilizzazione.
Non sono ancora state elaborate delle “carte delle responsabilità”: l’etica della responsabilità è certamente meno agevole da annunciare e da vivere, rispetto alle logiche puramente rivendicazioniste.
Diventare liberi è sempre un cammino lungo e contrastato; essere liberi è scomodo e pericoloso, soprattutto quando si vuole essere “liberi di…”.
Come vedete, sono pensieri disordinati, appunti abborracciati e non sufficientemente pensati…
Credo tuttavia che, in prospettiva di “storia della salvezza” possiamo ritrovare e approfondire i grandi temi che vanno dall’ Esodo (liberazione da. .) alla pienezza della “libertà di cui Cristo ci ha liberati”, fino alla “Verità che rende liberi…”.
 


 

3.
“Liberarmi” per essere libero: descrizione per “sintomi”
di Bruno Ambrosini

Queste riflessioni non vogliono essere una formulazione teorica sul tema “libertà”: non ne sono capace e credo non ce ne sia bisogno, visto tutto quanto è stato già detto, anche nei nostri incontri precedenti.
• Piuttosto vorrei tentare di raccontare, di descrivere i “sintomi” di un mio personale cammino di “liberazione” verso la libertà.
• È un cammino di purificazione da tutto quanto ostacolava, oscurava il mio essere dentro le cose che faccio o che mi circondano, senza sentirmi legato e posseduto da tali cose e situazioni. Sono inoltre profondamente consapevole che tale cammino di liberazione è stato, e continua ad essere, con “qualcuno”. Da solo, ma con accanto l’ “altro”.
• È un cammino. Quindi un ripartire ogni mattina, aiutato dall’esperienza del vissuto passato, e facendo sempre più attenta la mia coscienza al mio collocarmi nelle cose e nelle situazioni.

A. Essendo io un prete, formato per 10 anni in seminario, dove si affermava e si insegnava che I’ordinazione ci faceva “ontologicamente” diversi dagli altri, ho avvertito la necessità di un cammino per costruire un mio pensiero e una mia prassi che fossero liberazione dalla “cultura del privilegio” della casta sacerdotale, dentro una chiesa “istituzione totale”. Chiesa che chiede di continuo libertà per sé, come istituzione, ma che difficilmente ammette spazi di libertà, autonomia, diversità al suo interno.
Tale richiesta di libertà da parte della chiesa, nella linea della cultura del privilegio, è frutto della sfiducia e del poco rispetto della realtà complessa e pluralista dentro la quale la chiesa è posta.
Si produce così una sorta di bipolarismo o contrapposizione, in cui la “posizione della chiesa” è il criterio di verità e validità su cui il “resto” della realtà viene valutato.
La scelta della condizione operaia è stata la risposta al disagio sofferto dentro una logica di omologazione della struttura ecclesiastica. Il frutto è stata la nostra “autonomia” a livello economico, intellettuale e affettivo, che in passato abbiamo comunicato ampiamente.

B. Sette anni in Salvador.
In una situazione di povertà e di guerra, dentro un processo di “liberazione” pur sentendomi addosso la condizione di privilegio come prete e prete del Nord, ho vissuto una stimolante esperienza di “provvisorietà” e “insignificanza”.
• Provvisorietà. In un’emergenza continua con niente o quasi di “piani pastorali”, la semplice presenza, lo “star lì con loro”, dava carne al “ministero della consolazione”.
Inoltre la prassi quasi quotidiana dell’ ospitalità (il “convento”, casa del prete, era la “posada” – albergo – della gente delle comunità) ti richiedeva disponibilità continua, distacco anche dalle tue esigenze personali, quindi libertà interiore.
• Insignificanza vuol dire sensazione di non incidere sulla situazione, di non modificarla, ma sentirti comunque parte di un grande, complesso processo, un cammino sofferto e faticoso che vuol essere di liberazione integrale. E non sei tu a decidere o suggerire soluzioni all’occidentale, ma “accompagni” in atteggiamento di profondo e sincero rispetto, perché devi “capire” e poi, pur mantenendo la tua diversità, servire al cammino comune.

C. Attualmente, inserito, per mia scelta, in un’attività a livello di zona pastorale riguardo alle cosiddette “nuove povertà” e in particolare all’immigrazione, ci si trova di fronte all’esclusione sistematica e organizzata di persone vittime dell’ingiustizia (anche da parte dei cristiani) e non della loro “cattiveria” o ignoranza, o cattiva volontà, come si è soliti etichettare gli emarginati e gli esclusi a causa del pregiudizio automatico o dei residui di dottrina della retribuzione temporale (se sono poveri, è colpa loro) da cui non ci si è ancora pienamente liberati.
Da un lato, la chiesa continua ad essere istituzione totale, che guarda al “mondo” con sospetto, non sa cogliere la positività di cammini diversi dai suoi e sui quali non può esercitare il suo controllo. Chiesa che continua a chiedere privilegi (vedi scuola privata o “libera”) e che di fronte ad alcune emergenze, intese come eventi che introducono elementi di grande novità, non sa cogliere l’esigenza di altrettanta novità di prassi, di profezia e di pensiero.
Dall’altro, una convivenza sociale dove predominano logiche e giudizi (pregiudizi?) sulla realtà quotidiana che, anziché stimolare a cammini nuovi, sono espressione di paura del diverso, di difesa del proprio “modo di vivere” come l’unico “vero”, e rifiuto dell”altro” che viene tra noi.

Concludo con l’ultima parte di un articolo pubblicato su “Servitium” che riflette sul nostro percorso di P.O. in Bergamo.

Ancora una volta le scelte di vita ci hanno travalicato e sono state occasione di ulteriori appelli alla conversione. In particolare due realtà assumono il carattere di “prova”, ci sollecitano la virtù della fedeltà e della perseveranza e sono alla base degli appelli alla conversione.
In primo luogo l’impossibilità oggettiva a “condividere la vita” delle persone cui ci siamo rivolti, le quali ci identificano comunque con i popoli che operano e sono causa di ingiustizia: nei casi più fortunati ci riconoscono la buona fede e la buona volontà; il più delle volte siamo identificati come rappresentanti e funzionari del potere oppressore.
La seconda realtà riguarda la radicale mancanza di potere e di opportunità di queste persone e la nostra ribellione ispirata più da orgoglio che da amore per gli ultimi, e quindi poco evangelica, di fronte a questo dato di fatto. Con la classe operaia abbiamo imparato a lottare per difendere o affermare diritti, abbiamo ereditato mezzi per promuoverli e, collettivamente, ne abbiamo inventati di nuovi; in qualche modo abbiamo condiviso la situazione dì persone e soggetti sociali in grado di rivendicare i loro diritti, persone e soggetti certamente non privilegiati, ma a modo loro “potenti”. I nostri “nuovi amici” invece sono radicalmente deboli, sono i poveri della Bibbia che non potranno mai recuperare i loro diritti senza l’aiuto di qualcuno, del “Padre dei poveri”, secondo tempi, modalità e strade che non ci è dato conoscere.
L’appello alla conversione ci arriva sotto forme diverse come limiti che ci bruciano e ci umiliano: non riconoscimento di quanto facciamo e sospetto rispetto alle intenzioni; privazione di efficienza e di potere; ennesima mancanza di sintonia con la chiesa e con le stesse comunità ecclesiali in cui viviamo. Di fronte.a questi limiti si ripresenta con tutta la sua forza la tentazione originale di chi vuole possedere e dominare la realtà mangiando «dell’albero della scienza del bene e del male». Nel momento in cui ci sembrava di aver conquistato un po’ di sapienza evangelica ci siamo riconosciuti di nuovo nella condizione di Abramo invitato dal Signore a lasciare la sua terra.
Nel rimetterci in cammino ci sostiene l’esempio di Abramo. «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava».

Ritengo interessante questa pagina di Dzevad Karabasan dal suo libro Il centro del mondo, dove descrive la sua città, Sarajevo, prima e durante l’assedio. Karabasan era docente di drammaturgia a Sarajevo. Il suo è un punto di vista, un’analisi stimolante, che può essere utile a cogliere le logiche distruttive presenti anche nella nostra società:

«Il sistema culturale bosniaco, costituito nella forma più pura e realizzato nel modo più conseguente possibile proprio a Sarajevo, si potrebbe descrivere abbastanza precisamente con l’attributo di «drammatico», e definire in opposizione con quello che si potrebbe descrivere con l’attributo di «dialettico». I suoi principi fondamentali sono affini a quelli sui quali si costituisce il dramma e si possono capire per comparazione. Il rapporto essenziale fra gli elementi del sistema è la tensione che li oppone, questo significa che sono posti uno di fronte all’ altro e che sono reciprocamente legati proprio dalla contrapposizione che li definisce l’uno rispetto all’altro. Gli elementi entrano nella composizione del sistema (nella struttura di un intero di livello superiore) senza perdere la loro natura primordiale, mantenendo tutte le particolarità che hanno al di fuori del sistema di cui vanno a far parte: ogni tessera entra nella struttura del sistema arricchita di nuove particolarità senza abbandonare quelle che già possedeva. Ciascun elemento è anche da solo un intero complesso, composto da due parti collegate fra loro da un rapporto di opposizione.
Il segno fondamentale di un sistema culturale del genere è il pluralismo e, in questo senso, è direttamente opposto ai sistemi culturali monistici, che si potrebbero anche definire dialettici, ancora dominanti nelle grandi città occidentali dove si creano mescolanze di religioni, lingue e popoli come già accadde a Sarajevo. Se in un sistema culturale drammatico il rapporto essenziale è la tensione, nella quale ciascuno dei fattori del rapporto conferma la propria natura primaria, nel sistema dialettico il rapporto fondamentale è il divorarsi reciproco, oppure, se deve suonare meglio, l’essere ricompreso dell’inferiore nel superiore, del più debole nel più forte. A ciascun membro del sistema drammatico l’Altro è necessario come prova della propria identità, perché la propria particolarità si dimostra e articola in relazione alle particolarità dell’altro, mentre in un sistema dialetticamente costruito l’Altro è solo apparentemente Altro, mentre in realtà è un lo mascherato, è I ‘Altro contenuto in me, poiché nel sistema dialettico (nel modo di pensare dialettico) i fatti contrapposti sono in realtà Uno. È questa la differenza fondamentale fra Sarajevo e le babeliche mescolanze contemporanee delle città occidentali, differenza che richiedeva una spiegazione fugace, e un po’ tecnica, dei sistemi culturali che si sono venuti formando».


 

4.
Libertà o liberazione: qual è il termine meno ambiguo?
di Giorgio Bersani

Mi ha sempre fatto paura tra PO la battuta ‘la POLITICA non è tutto’, mentre sarebbe stato più corretto ricordarci continuamente che ‘la RELIGIONE non è tutto’:
– strumento degli uomini la prima,
– strumento degli uomini la seconda.
Mi torna spesso in mente la fatica intellettiva dei primi anni di fabbrica quando, man mano che procedevo nel mio cammino di condivisione, mi accorgevo della pochezza del mio linguaggio o della schizofrenia dei miei schemi intellettivi, poco adatti a chiamare per nome i pezzi di quella realtà condivisa. Non solo, ma mi accorgevo come alcune nuove parole che man mano acquisivo, assumevano un significato diverso a secondo di chi le pronunciava: un operaio o un impiegato o un direttore.
Per esempio: libertà di non scioperare; è giusto che a mansione differente ci sia salario differente; la tua non è verità, è solo ideologia; prima del diritto c’è il dovere…

Sempre di più sentivo nascere dentro di me il bisogno intellettivo di trovare un elemento che tenesse uniti i due aspetti della ricerca, non uno subordinato all’altro, ma ambedue su un piano di pari dignità. Ricordo ancora con gioia il giorno in cui mi è stato dato di intuire che il possibile elemento unificante potesse essere il PROGETTO del REGNO per la VITA dei mondo.
Allora era per me solo un vuoto contenitore, però almeno avevo un elemento intellettivo che mi appariva permettere di raccogliere il grano buono che scaturiva dai due aspetti della ricerca.
È un lavoro che dura da 20 anni ed ha queste due coordinate:
attenzione agli avvenimenti di oggi come rivelanti il PROGETTO di DIO,
progetto che è già in mezzo a noi, che già si sta facendo;
ascolto degli elementi di questo stesso progetto come è apparso attraverso la
storia del POPOLO della BIBBIA.
E allora da una parte, sforzo serio per acquisire strumenti per comprendere questa nostra storia contemporanea e dall’altra tempo per riordinare nella mia mente i vari elementi di questo PROGETTO di DIO che mano a mano mi appaiono, aiutato in questo da chi lo sta facendo seriamente da decenni, facilitato in questo dal non aver nulla più da difendere se non la mia fede in GESÙ di NAZARET.
Non parlo più di DIO senza richiamare il suo progetto e non parlo più del suo progetto senza richiamare la necessità di fare la nostra parte perché diventi realtà per la VITA del mondo.
Rileggendo la rivelazione biblica e ascoltando i fatti della storia con l’ottica di questo PROGETTO di DIO per la vita del mondo, mi sono accorto che basterebbe aggiungere ai termini ‘libertà, giustizia, verità, diritto’ la frase ‘per tutti’ che ogni ambiguità verrebbe a galla.
Per stare al tema della nostra ricerca cerco di tenere sempre presente l’antica concezione di libertà: “essere libero” nell’A.T. voleva dire “non essere schiavo”. Inoltre si parla di libertà anche nel senso di indipendenza da una dominazione straniera. Infine la libertà viene messa in contrasto con la vita sotto la monarchia. La concezione della libertà politica dell’individuo e dell’indipendenza della città è più una concezione greca che ebraica.
L’uso del termine libertà nel N.T. sembra riflettere più la concezione greca che quella ebraica.
Comunque la concezione teologica della libertà appare solo nel Nuovo Testamento, e quasi esclusivamente negli scritti di Paolo e Giovanni.
Nel nostro linguaggio teologico si parla spesso di libertà cristiana: il problema, a mio parere, è cosa si intende o a cosa ci si riferisce quando si usa questo termine.
Come pretioperai comunque, per il fatto di aver condiviso per anni una condizione subalterna, dovremmo impegnarci a rivedere lo stesso nostro linguaggio teologico per non cadere in ambiguità vecchie di cui ci siamo liberati.
‘Libertà o liberazione’? Qual è oggi il termine meno ambiguo?
Se il cammino finora dell’umanità ha scoperto che l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha dei limiti che sono quelli che assicurano agli altri membri della società (e del mondo intero) il godimento di questi stessi diritti, a chi non è stata data ancora la possibilità di godere di questi stessi diritti naturali, è data la possibiltà di esercizio di questa sua libertà?

“GUAI a voi, Maestri della Legge e Farisei!
Voi chiudete agli uomini la porta del REGNO di DIO: non entrate voi e non lasciate entrare quelli che vorrebbero entrare”
(Mt 23,13).


 

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