Editoriale
Alla fine dei giorni, il male sarà sconfitto dall’Uno; in tempi storici, i mali devono essere sconfitti ad uno ad uno”.
(Abraham Heschel )
In questi mesi nei discorsi dei pretioperai ricorrono le parole “libertà e liberazione”. Su queste ci troveremo a Viareggio attorno al 1° maggio nel nostro incontro annuale. Dal cilindro abbiamo estratto questa composizione: “Ama il tuo sogno se pur ti tormenta: passione della libertà, dovere della liberazione”. La prima parte sta ancora scritta nella stanza della casetta del porto dove don Sirio dormiva, la seconda l’abbiamo coniata di fresco.
Le parole hanno molti significati: non solo diversi, ma anche contrapposti a seconda delle situazioni e dei contesti nei quali vengono utilizzate ed anche in rapporto a chi le utilizza ed alle intenzioni reali che i soggetti intendono rendere effettive nel loro agire. Questo dato generale acquista uno spessore enorme quando si pronunciano parole come libertà o liberazione. I rischi di fraintendere queste parole-bandiera, cariche di usi storici sovrapposti e cangianti, sono esperienza quotidiana. Ci si può salvare solo a condizione di un uso metodico della attenzione critica come esercizio di libertà in vista dell’azione responsabile, pena la caduta nella inerzia della stupidità (quella denunciata da Bonhoeffer nel suo bilancio di un decennio di regime nazista).
La lotta per le parole e per chiamare per nome i loro significati è condizione di vita o di morte per la verità della comunicazione. Una comunicazione comunque non facile perché le parole hanno anche una storia legata alla unicità del percorso umano compiuto da ciascuno di noi.
La loro soggezione al dominio della virtualità e della fittissima rete mediale richiede la fatica personale per riscattarle — le parole appunto — radicandole nel concreto della vita delle persone umane, nei fatti e nelle sofferenze, nelle strutture e rapporti nei quali si materializza il senso o il non senso degli individui e del mondo da noi abitato.
Ecco noi abbiamo pensato di… esercitarci riprendendo criticamente riflessioni che ci hanno accompagnato per tutta la nostra vita di pretioperai nella certezza che ragionare su queste cose non vuol dire fare una operazione corporativa. Significa, invece, pensare nodi che appartengono a tutti e a ciascuno e che interessano molteplici campi nei quali si esprime la vita umana: dalla condizione materiale, alla quale nessuno può sottrarsi, alla politica, dalla vita culturale alla dimensione della fede, dalla storia individuale nella sua unicità alla appartenenza collettiva ad una classe sociale e ad un popolo…
In queste righe verranno offerti alcuni spunti, venuti alla luce in nostri incontri di questi mesi, nei quali le parole libertà – liberazione sono implicate in fatti, narrazioni, racconti: modi concreti per contestualizzarle onde tentare di impedire la loro volatilizzazione nella evanescenza.
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Un’ immagine che ricorre nei nostri discorsi è quella dei rematori, con ovvio riferimento alla forza che occorre spendere perché la barca possa procedere frangendo le onde. Ecco un racconto sul tema venuto fuori in una pausa dopo aver ragionato su liberazione e libertà.
Nelle antiche galere, quelle che solcavano i mari, vi erano i rematori che tutti in squadra, alla cadenza dettata dal tamburo, stavano sotto coperta per mandare avanti lo scafo. Erano incatenati ed avevano come unica opzione quella di seguire il ritmo, che in certe circostanze diventava forsennato, finché avevano fiato ed energia. Poi…
Nella battaglia di Lepanto i rematori cristiani erano sulle galere turche e viceversa i turchi prigionieri menavano i remi delle navi cristiane. Da una parte e dall’altra, quando lo scafo affondava, il destino dei rematori incatenati ai remi era segnato: nessuno li scioglieva dalle catene. E poi, in quelle circostanze, chi si sarebbe dato pensiero di farlo? Così si può ragionevolmente immaginare che i rematori cristiani se avevano ancora un briciolo di voglia di sopravvivere, erano costretti a fare il tifo per la nave turca sulla quale erano imbarcati e viceversa i turchi per quella cristiana, salvo quelli che erano talmente stremati che speravano di andare sotto una volta per tutte per farla finita con quella loro vita di…
Che cos’è la libertà e la liberazione?
Una cosa si può affermare: quando la vita è deprivata e rapinata nella sua sostanza, al punto da non potersi più chiamare vita, il parlare di libertà sembra appartenere al genere dei discorsi salottieri e vuoti di sostanza. Liberazione intesa come riscatto da una condizione di non vita è certamente più pertinente ed aderente alla realtà. È aderente anche al pensiero ebraico, fonte privilegiata della nostra cultura occidentale, oltre che della fede cristiana. Una citazione serve a rafforzare il punto che si è tentato di mettere in luce:
“Il centro del pensiero ebraico è la vita: la vita sopra tutto. Ciò viene espresso nel Deuterononio in modo folgorante: ‘Ho posto davanti a te la vita e la morte, ma tu sceglierai la vita’. Questo è l’iper-comandamento sotto il quale stanno tutti gli altri. Il discorso ebraico della libertà entra in questo punto: la libertà esiste solo se c’è vita, se la vita è santa, intoccabile, integra” (Moni Ovadia in Esodo 4/98 p.13).
In concreto e per dirla in soldoni, come è emerso nei nostri incontri: “prima stabiliamo da che parte ci schieriamo, su che tronco stiamo, poi si può discutere della libertà”.
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Però di libertà si parla. Anzi questa è una bandiera che tutti tirano dalla loro parte, ma è come una coperta corta: non può coprire tutti. Allora è importante valutare che cosa si nasconde dietro la bandiera, che cosa si vuole veramente intendere. Qualche esempio.
Il primo lo prendiamo citando un foglio che Sandro ci omaggia regolarmente nei nostri incontri di pretioperai della Lombardia. Il pezzo si intitola “le miserie del pensiero Liberal”:
“Proprio nei giorni in cui appariva sulla stampa un nobile ‘manifesto’ di intellettuali laici, di diversa estrazione, a difesa della scuola pubblica, il professor Sylos Labini, uno dei più noti firmatari, rilasciava a Repubblica un’intervista (11.11.98) in cui affermava che rendere i licenziamenti più facili è uno strumento utile per creare occupazione. ‘Se il padrone sa che può licenziare assume più facilmente!’. E invitava il sindacato ad avere più ‘coraggio’ nell’accettare che il licenziamento ‘non sia più un tabù’.
Ci rifiutiamo di credere che il professor Labini non si renda conto a che cosa si ridurrà la dignità e la possibilità di difesa dei lavoratori se si concede ai padroni la completa libertà di disfarsene quando gli fa comodo. Questo episodio svela a quale miseria approdi, quando cala sul fronte dei diritti dei lavoratori, l’interclassismo del pensiero liberal” (SLAI-COBAS gennaio ’99 p. 6).
Certamente se ne rende conto, il prof. Labini, però accade che dignità e difesa dei lavoratori, cioè del lavoro vivo e umano, siano valenze talmente irrilevanti da essere ridotte a problema semplicemente inesistente. Un problema che molti occhi o non vedono più oppure, se anche visto, non può trovare altra soluzione, che nella magica e benefica combinazione delle forze che agiscono attraverso mercato.
Una riflessione applicata ad una scoperta può risultare illuminante.
Verso la fine dello scorso anno TV e giornali hanno dato la notizia del ritrovamento, nella regione pugliese, di un lungo cunicolo sotterraneo che funzionava da acquedotto al tempo dei romani. Un cunicolo artificiale, scavato certamente da schiavi, che di tanto in tanto si schiude con un foro verso l’aria aperta. Chi può negare l’interesse archeologico ed ingegneristico di questa opera della civiltà romana? Normalmente è questo lo sguardo che prevale quando si viene colti dallo stupore per costruzioni umane significative sotto il profilo storico ed artistico. Però vi è anche un altro aspetto di non minore importanza. Alcuni operai, riflettendo sulla cosa dal loro punto di vista, cioè da quello della fatica quotidiana per produrre trasformazioni sulla materia in condizioni imposte, si sono domandati: “chi sa quanti corpi sono stati estratti, morti per la fatica dello scavare e per la rarefazione dell’ossigeno?”.
È una rappresentazione efficace per segnalare la scissione che attraversa l’umanità: tra quanti stanno sotto e quelli che stanno sopra e tra i loro rispettivi sguardi che manifestano polarizzazioni ed interessi diversi. Normalmente avviene che quelli che stanno sotto siano per lo più invisibili, o senza voce, e così succede che la realtà viene per lo più ri-costruita da quelli che stanno all’aria aperta, tanto da imporsi come l’unica realtà. Certamente libertà – liberazione acquistano un ben diverso contenuto nei due gruppi umani!
Può essere utile rileggere la valutazione complessiva che Simone Weil faceva dopo aver sperimentato il lavoro di fabbrica: “In conclusione, ho tratto due insegnamenti dalla mia esperienza. La prima, la più amara e la più impreveduta, è che l’oppressione, a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza alla rivolta, bensì una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione. L’ho constatato su me stessa….
Il secondo insegnamento è questo: che l’umanità si divide in due categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non contano nulla. Quando si appartiene alla seconda categoria si arriva a trovare naturale di non contare nulla – il che non significa che non si soffra. Io, lo trovavo naturale…” (La condizione operaia, MI, Ed. Comunità 1980, p.149).
Per associazione torna alla memoria una efficace espressione con la quale don Milani indicava alla professoressa il criterio che era solito praticare nella lettura della storia e che non ha perduto in nulla della sua attualità:
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in Italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
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Prima di chiudere queste note, conviene sostare sul primo insegnamento che la Weil ha tratto dalla condizione di vita sperimentata in fabbrica: “l’oppressione… genera… una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione”. Questa è stata per lei l’esperienza “più amara e impreveduta”. È anche lo scenario inquietante che in questo secolo di società di massa è apparso nelle forme più terribili.
E tuttavia vi è il quasi che sta ad indicare un limite posto all’invadenza della oppressione ed una possibilità di resistenza per il soggetto che la patisce. Al dominio della forza nel suo dispiegarsi in tutte le possibili varianti, dalla aperta brutalità alle arti sottili della suggestione, non è garantita la vittoria in assoluto, intendendo per assoluto l’inchinarsi totale del soggetto umano sino a dare il proprio consenso, o addirittura la propria complicità.
Il quasi, che persiste anche nelle situazioni di notevole “grado di intensità” dell’oppressione, è la fessura che annuncia la possibilità della libertà personale, cioè dell’evento che qualifica l’essere umano nella sua irriducibilità ad identificarsi semplicemente con il frutto dei processi naturali o con il risultato meccanico, calcolabile e programmabile delle macchine organizzative.
Si riporta una descrizione della libertà presa da Ignazio Silone:
“La libertà è la possibilità di dubitare
è la possibilità di sbagliare
è la possibilità di cercare
di esperimentare
di dire no
ad una qualsiasi autorità
artistica filosofica religiosa
sociale e anche politica”.
La possibilità di opposizione, cioè “di dire no ad una qualsiasi autorità”, non indica qualcosa di puramente negativo, ma può essere l’adesione doverosa ad un sì che porta con sé il carattere della perentorietà, per il quale vale la pena di impegnare la propria esistenza. Un sì rischioso al quale, però, sarebbe ingiusto sottrarsi.
Questo vale anche nei confronti dell’autorità religiosa. La storia della chiesa in Europa è innervata di un… totalitarismo spirituale che non ha disdegnato il ricorso alla forza per garantire l’unità della fede mediante l’annientamento morale ed anche fisico dell’avversario. Un accostamento — unità della fede e uso della forza — non meramente accidentale, ma sostenuto da giustificazioni teologiche. Non è sufficiente una rivisitazione del passato per chiedere perdono degli errori compiuti: occorre identificare le cause in profondità, chiamarle per nome per poterle e volerle eliminare, anche perché non hanno cessato di influenzare il presente.
Nei nostri discorsi è stato evocato un testo famoso contenuto ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij: il grande inquisitore rinfaccia a Gesù di aver portato e dato la libertà, per questo è stato necessario emendare il Vangelo. È una provocazione terribile, ma l’onestà intellettuale impedisce di archiviarla!