“IL VANGELO NEL TEMPO:
SENSO DI UNA VITA”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 28-30 aprile 2000
Introduzione
Questo testo col quale è stato aperto l’incontro annuale dei PO non è stato pensato come una relazione organica, ma come uno strumento per ragionare insieme, un contributo per mettere in luce alcuni elementi del problema. Un modo per riavviare un discorso che deve continuare: è urgente!
Lo “strumento di lavoro”
offerto da Angelo Reginato e Roberto Fiorini
Iniziamo questo incontro ricordando tre persone che lo scorso anno erano qui tra noi e che ora non sono presenti. Nicolino se n’è andato, consumato da un tumore, cosciente del male che lo affliggeva. Queste le parole che ci ha lasciato consegnandole a Mario Signorelli nell’ultima telefonata: “la strada che noi pretioperai abbiamo intrapreso è quella giusta, l’unica cosa di cui mi rammarico è che sono stato troppo buono e paziente: dovevo essere più duro sulle idee per le quali ci siamo battuti”.
Sandro di Milano è reduce da un infortunio sul lavoro che per un soffio non ha avuto conseguenze più drammatiche. Se l’è cavata con la frattura del piatto tibiale del ginocchio sinistro. Dopo una prima ingessatura, ha dovuto subire un nuovo intervento correttivo del precedente. “Speravo di poter arrivare alla pensione in condizioni fisiche accettabili…” .
Poco prima di Pasqua ci ha telefonato Renzo Fanfani scusandosi di non poter essere presente tra noi perché, recentemente sottoposto ad una angioplastica al cuore, necessita di un periodo di riposo.
Questi primi accenni non sono solo un doveroso ricordo di compagni di strada con i quali ci siamo tante volte incontrati. Essi ci aiutano ad “entrare in tema” evocando innanzi tutto lo spessore che deve essere attribuito alla storia vissuta dalle persone e dai gruppi, con tutto il suo carico di dolore, passione e pienezza. Essa va distinta dalla storia testimoniata nei vari momenti d’aggregazione e con l’utilizzo dei diversi strumenti di comunicazione ed infine dalla storia interpretata con livelli più o meno raffinati di rigore scientifico.
Nella storia del nostro gruppo che vive i segni, le ferite, la fruttuosità e i vuoti che il tempo trascorso porta con sé, sono nettamente prevalsi i primi due momenti — la storia vissuta e testimoniata — com’è naturale. L’interpretazione non può ancora contare su quella distanza critica che normalmente i protagonisti della storia non possono possedere. Ciò non toglie che dei doverosi tentativi d’interpretazione siano spuntati anche tra noi facendo registrare distanze anche notevoli.
Su un punto però c’è sempre stata convergenza: il riferimento della nostra storia vissuta nel concreto, ma pure testimoniata ed elaborata nei piccoli spunti interpretativi tentati, al Vangelo di Gesù ed alla salvezza promessa da Dio ai piccoli ed ai poveri, agli umiliati e offesi, quale speranza, per tutto il mondo. Forse, pur attraverso le modalità espressive diversificate che hanno contraddistinto il nostro cammino, il valore della nostra comparsa sulla scena e quindi il senso della nostra vita va rintracciato in questo riferimento al Vangelo.
Per questo, nella sera del cammino del nostro gruppo di PO italiani, abbiamo pensato che fosse giusto collocare al centro della nostra attenzione la riflessione sul Vangelo, come evento e parola, nel tempo. La nostra esistenza nel suo sbocciare e nel suo raccontarsi, ha voluto esserne una concreta incarnazione, per usare una delle parole che per molti anni hanno veicolato il senso della nostra scelta, in un tempo preciso: nell’arco che va da prima del Concilio alla fine del secolo. Il nostro è stato un tentativo di mettere in contatto il Vangelo, così come appare nel racconto, e soprattutto l’evento in esso annunciato, con la concretezza della vita mondana, materiale e spirituale, conflittuale e condivisa con tanti compagni, espressa nel lavoro. Forse — ma perché no? — siamo la materia di una parabola evangelica o, se volete, come scriveva don Sirio, un rottame nel grande mare dell’umanità sul quale “può esserci scritto un nome e può significare tutta una storia bellissima, così tanto da meritare di essere tutta o quasi raccontata”. Il forse è d’obbligo, perché il giudizio vero ed ultimo non appartiene a noi.
In questo intervento vengono offerti spunti di riflessione, costruiti servendosi abbondantemente degli scritti di alcuni autori. Sono percorsi, linee di ricerca aperte, abbozzati senza la pretesa della organicità e della completezza, con la speranza che possano essere strumenti utili a mettere in gioco i due termini del titolo: Il Vangelo nel tempo. Ciascuno prenderà quello che gli può servire. Già negli articoli apparsi sull’ultimo numero della rivista e nella bibliografia segnalata sono stati forniti alcuni contributi in proposito. Il fatto stesso che ci sia bisogno di una introduzione per la chiarificazione dei termini su cui verte il nostro incontro — Vangelo e tempo — la dice lunga riguardo agli smarrimenti della strada maestra avvenuti in questi venti secoli di cristianesimo. Dovrebbe essere del tutto ovvio il legame tra Vangelo e tempo, invece…
Tempo: modelli interpretativi
Si riportano tre modelli interpretativi del tempo.
Il primo è quello teorizzato da O. Cullmann in Cristo e il tempo. Si basa sulla contrapposizione tra il tempo circolare (o ciclico) e tempo lineare (o storico). Il primo è caratteristico della mentalità greca, mentre il secondo lo ritroviamo nella rivelazione biblica. La visione greca comporterebbe, secondo l’autore, un asservimento dell’uomo alla inevitabile ripetitività dei cicli con la mancanza di finalità da poter imprimere sul reale. Ne deriva che l’unica salvezza possibile la si può trovare solo fuori dal tempo, nella liberazione da ciò che inchioda nella circolarità della fatalità. Al contrario si colloca la religione biblica, nella quale il tempo è dotato di un inizio e anche una fine che si identifica con la meta (telos), mentre il suo decorso è punteggiato di interventi salvifici di Dio (kairoi) che disegnano una linea progressiva della rivelazione e della salvezza.
Il cristianesimo primitivo si colloca su questa linea, identificando nel Cristo “il punto fisso che orienta tutta la storia” .
Il secondo modello è quello elaborato da Mircea Eliade, storico e fenomenologo della religione. La storia si presenta come un seguito di avvenimenti irreversibili ed imprevedibili rispetto ai quali l’uomo si sente in balia, esposto agli avvenimenti più strani. Egli perciò ricerca la salvezza dal non senso integrando i vari avvenimenti in modelli ripetibili che lo possano riscattare dalla casualità. Questo viene realizzato mediante il ricorso alle origini antiche, ad archetipi divini iscritti nel profondo della coscienza umana che vengono attualizzati in particolare nella celebrazione delle feste. “Qui lo schema di Cullmann è capovolto: è la storia che fa problema, con la sua carica di imprevisto, ed è il tempo ciclico a costituire la soluzione, con la sua forza di sempre rinnovata fondazione. Eliade non misconosce però la novità della religione biblica, dove le strutture religiose archetipiche vengono trasformate in eventi storici. Dio si rivela nella storia, e gli atti fondatori non appartengono più al tempo mitico ma a momenti situabili entro il cammino storico di un popolo … C’è dunque in Eliade, aldilà della contrapposizione tra tempo storico e tempo ciclico, quella, più radicale, tra tempo profano e tempo sacro: il primo è l’esistenza umana nella sua problematica fattualità, il secondo è il conferimento di senso che le viene dal Fondamento, sia esso inteso come potenza mitica o come Dio personale che interviene nella storia … Il problema è come dare senso al tempo … c’è un tempo-base, che è lo stesso ex-sistere dell’uomo nel mondo: tempo profano, che è bisogno di senso ma non riesce a produrne se non frammentario e caotico, votato all’insignificanza. E c’è il tempo sacro, che risponde positivamente a quel bisogno di senso conferendone uno saldo e stabile, valido e unitario”.
Uno sviluppo ulteriore nella elaborazione avviene con J. Le Goff, storico del Medioevo, con la formulazione della seguente antitesi: tempo della chiesa – tempo del mercante . Il tempo della chiesa è il tempo configurato sugli statuti immutabili della creazione, nella scansione delle ore e delle stagioni, e che incorpora il disegno della salvezza che si sviluppa nella storia stessa della chiesa. Il monaco dedito alla preghiera, e il contadino immerso nel suo lavoro, trascorrono la vita cadenzata sui ritmi di questo tempo. Dopo l’anno mille, con l’iniziale sviluppo del commercio, il tempo comincia a diventare realtà misurabile e controllabile dall’uomo. Il tempo del mercante, quantificabile e prevedibile, non sostituisce, ma si sovrappone al tempo imprevedibile della natura e della storia sacra.
Nel Medioevo i due tempi convivono, però “questa conquista rappresenta una profonda trasformazione antropologica, un’innovazione inaudita nei rapporti tra l’uomo e il tempo. Finora, per dominare il tempo, dargli forma e senso, l’uomo si era rivolto a potenze superiori, a principi trascendenti … Con il mercante si profila una possibilità inedita: è l’uomo stesso a dominare il tempo, a renderselo disponibile, a dividerlo e impiegarlo secondo la propria volontà. Senso e signore del tempo non è più il disegno di Dio, ma l’insieme dei disegni della società in evoluzione”.
Vittoria del tempo del mercante e crisi di senso
Il tempo del mercante, intendendo con questo l’intero ciclo economico con la messa a frutto dell’immenso potenziale tecnologico, si è progressivamente imposto in occidente dettando i suoi ritmi e le sue regole anche a “livello mondiale”. Il simbolo complessivo di questa situazione è il predominio del denaro. Sprovvisto di ogni valore intrinseco, equivalente universale e puramente formale dello scambio, il denaro esprime a perfezione l’essenza del tempo del mercante. La formula “il tempo è denaro” non è un facile slogan, propagandistico e denigratorio; è la ‘definizione essenziale’ di quella temporalità originalissima che costituisce l’identità dell’uomo industriale. Quando Heidegger scrive che l’essenza della tecnica è la volontà di potenza, intesa come volontà di volontà, esprime eloquentemente quel paradossale riempimento di senso che non è altro che l’universale gioco della convenzione sociale. L’essere è tempo, ma il tempo è denaro. ( … ) Ora, si può dire che l’essenza della società industriale avanzata è il pieno dispiegamento dell’essenza della tecnica: il suo allargamento da zone di punta e d’avanguardia all’intera struttura del sociale, e la sua ‘interiorizzazione’ da parte della collettività. Il senso generale del tempo è l’organizzazione della produzione, e il suo senso individuale è l’organizzazione del guadagno”.
Non ci soffermiamo ulteriormente nella descrizione di aspetti ripetutamente affrontati. Solo qualche sottolineatura funzionale al filo generale del nostro discorso.
“All’aurora del nuovo mondo, l’Illuminismo prometteva libertà e autonomia. Alla luce della sera, quest’epoca ci mostra il dominio totale della ragione strumentale, la perdita della libertà e il dissolvimento della soggettività umana”. A. Gelhen ha usato il concetto di “post-storia” come il più adatto ad indicare il mondo perfettamente organizzato, privo di ogni sorpresa, futuro, storia. Sembra non avere più senso parlare di storia. È la tesi, ad esempio di U. Galimberti nel suo ultimo libro Psiche e Techne – l’uomo nell’età della tecnica: “La storia si costituisce nell’atto della sua narrazione, che ordina l’accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualunque orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso. Rispetto alla memoria storica, la memoria della tecnica, essendo solo procedurale, traduce il passato nell’insignificanza del ‘superato’ e accorda al futuro il semplice significato di ‘perfezionamento’ delle procedure. L’uomo, a questo punto, nella sua totale dipendenza dall’apparato tecnico, diventa astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un futuro pensato solo in vista del proprio autopotenziamento”.
Un’altra sottolineatura la troviamo in S. Natoli: “A mio parere ci troviamo di fronte ad una sorta di seconda secolarizzazione: una secolarizzazione della secolarizzazione. Se la prima è stata una secolarizzazione della salvezza, quella contemporanea è una secolarizzazione dalla salvezza. La prima aveva reso immanente il trascendente, mantenendone in qualche modo il modello: dalla salvezza dal tempo alla salvezza nel tempo. Il grande progetto umano di conquista del futuro, l’uomo al posto di Dio. La secolarizzazione della secolarizzazione dissolve l’idea stessa di salvezza, intesa come fede in una salvezza incondizionata ed assoluta”.
E del tempo della chiesa che ne è stato? Non è possibile ora affrontare questo aspetto. In compenso alleghiamo due testi provocatori di Quinzio e di Benjamin che lateralmente toccano il problema. E facciamo un volo verso il Vaticano II.
I segni dei tempi
Con questo sottotitolo vogliamo riferirci alla stagione di risveglio della chiesa avvenuta con il concilio. Il libro di M.D. Chenu comparso in quegli anni Il Vangelo nel tempo è una raccolta di studi che esprime molto bene i fermenti allora presenti. Basta scorrere l’indice per ritrovare motivi ai quali in molti ci siamo abbondantemente alimentati.
Nel concilio si è espressa da un lato la volontà di ritornare alle fonti — il ressourcement — non chiudendosi nel passato prossimo contrassegnato dalla polemica nei confronti dell’illuminismo e dall’altro — e questa è la novità principale — si è posto al centro la considerazione della storia nel suo rapporto con il Vangelo e la vita cristiana. Non più dunque un vangelo fuori dal tempo, prigioniero del tempio, custodito nei recinti del sacro. In concreto si tratta di riscoprire fino in fondo il senso della storia vissuta e interpretata dagli uomini come luogo teologico.
Per Giovanni XXIII, l’interpretazione del vangelo era inseparabile dal riferimento della storia … Si tratta infatti di comprendere che l’innovazione fa parte dello statuto stesso della dottrina cristiana, che ne rispetta l’equilibrio interno di sostanza che si formula nel tempo rimanendo identica a se stessa. La formulazione del rivestimento allora non appare come ciò che è caduco, ma come imperativo storico ogni volta nuovo, come ciò di cui deve tener conto un magistero che è a carattere prevalentemente pastorale. Veniva così inserita la connotazione pastorale all’interno stesso della dimensione dottrinale del cristianesimo, come esigenza intrinseca alla dottrina perché se ne renda presente la sostanza nel tempo: pastorale come ermeneutica storica della verità cristiana” . Un altro aspetto molto importante circa il rapporto col tempo è stato sottolineato da Rahner in una sua lettura del significato storico-teologico del Vaticano II. In sostanza dice che noi viviamo un tempo nel quale si è verificata una cesura che è paragonabile a quella avvenuta nel primo secolo della chiesa con il passaggio dal giudeocristianesimo al cristianesimo dei pagani. Oggi la chiesa ha proclamato il passaggio dalla chiesa occidentale ad una chiesa universale. Noi ci troviamo di fronte ad un nuovo inizio. In forma inedita emerge il pluralismo delle culture e di popoli che, nella consapevolezza storica che abbiamo oggi di questo pluralismo e della sua dignità, non è paragonabile a quello delle epoche passate. Il riferimento al passato è un momento necessario, ma assolutamente non sufficiente per capire e discernere il cristianesimo che deve essere incarnato nella nuova situazione mondiale. Riferendosi, in un altro saggio, all’ ottimismo salvifico che trasuda dai testi conciliari, ben lontano dalla concezione agostiniana “della storia del mondo come storia della massa damnata ”, Rahner afferma che un tale “atteggiamento è ben più cristiano di quelli precedenti e frutto di una maturazione della coscienza cristiana, che si avvicina lentamente al messaggio fondamentale di Gesù circa la vittoria del regno di Dio. ( … ) Chi però presagisce da lontano chi sia Dio, che percepisce realmente la tenebra orrenda della storia dell’umanità, non può che vedere nell’ottimismo salvifico universale, cui la chiesa è faticosamente giunta, un messaggio terribile che mette a dura prova le energie ultime della sua fede”.
I segni dei tempi (ST), è il terzo aspetto, rappresentano una categoria ampiamente presente nei testi conciliari. È stata una categoria utilizzata strategicamente, pur essendo aperti problemi interpretativi a livello esegetico, teologico e sociologico. I più avvertiti ne erano chiaramente consapevoli. C. Boff, teologo della liberazione, ha dedicato all’argomento uno studio estremamente analitico, apparso all’inizio degli anni ’70, al termine del quale così afferma: “Il principale risultato della cosiddetta ‘teologia dei ST’, o ‘metodo ST’ è stato di aver segnalato a livello ufficiale il risveglio della chiesa dal suo sonno medioevale e il suo deciso inserimento nell’attualità storica. Si comprende come tale atteggiamento sia stato, all’inizio, contrassegnato dall’ingenuità del programma dell’ aggiornamento, che non si rendeva conto che il famoso ‘mondo moderno’ era praticamente il mondo borghese sviluppato. Un tale percorso era necessario. Solo così, appunto, diveniva possibile avanzare fino al fronte da cui irrompe il futuro”. Il teologo latino americano propone di abbandonare l’espressione ST e preferisce parlare di Teologia della storia.
Ci pare tuttavia degno di attenzione un approfondimento di questa categoria che Ruggieri presenta nell’articolo citato.
Nel N.T. l’espressione ST ricorre solo in Mt. 16,3 ed indica i segni del tempo messianico, cioè le parole ed i gesti di Gesù di Nazareth. Il passo parallelo di Lc. 12,56 non ha l’espressione ST, ma kairos, cioè il tempo qualificato nel quale è offerta la grazia di Dio all’uomo. Questo kairos, questo momento opportuno della grazia, percorre la storia tutta fino all’avvento ultimo ed alla riconciliazione finale di tutte le cose. “Si badi bene che non si tratta di una storia solo al positivo, quella cioè dei miracoli, ma anche al negativo, giacché il suo momento decisivo è proprio la morte in croce, l’abbandono di Dio (Auschwitz e Hiroshima!), la discesa agli inferi, almeno se la intendiamo come il prolungamento dell’abbandono di Dio sulla croce (H.U. von Balthasar)”.
A partire dalla prospettiva globale del NT Dio ha raggiunto ogni uomo e ogni cosa, riconciliandoli con sé, “scambiandoli” con Cristo, giacché Cristo è questa riconciliazione/scambio globale. In Lui Dio raggiunge e accoglie già ogni uomo, in primo luogo ciò che era perduto, il peccatore ( 2 Cor. 5,17-21).
“Ciò che bisogna notare ai fini di una ermeneutica dei segni dei tempi è la convinzione credente che in Cristo tutta la storia, anche quella della morte e del peccato, è stata raggiunta e redenta”.
Ora un approfondimento importante: “Un fatto è suscettibile di diventare ‘segno dei tempi’ quando, grazie alla presa di coscienza collettiva, è in grado di modificare in direzione messianica l’equilibrio dei rapporti umani in una determinata epoca. Perché ciò avvenga è necessaria una presa di coscienza collettiva”.
Ad esempio la presa di coscienza collettiva della distruzione della natura operata dalla cultura esasperata dell’ homo faber, una presa di coscienza collettiva che contribuisse a determinare un nuovo senso di responsabilità verso le generazioni future, è un segno dei tempi”.
Altro esempio: “La povertà, nella quale si trovano a vivere masse sterminate di uomini, non è ancora un segno dei tempi. Non lo è nemmeno quando esso suscita un movimento di solidarietà. La storia della chiesa è piena di testimonianze di carità verso i poveri ma, tranne forse che nella primitiva vicenda francescana, questo non ha significato un ripensamento effettivo del vangelo. Solo quando alcuni uomini cominciano a collocare la povertà nella luce messianica e scoprono un nuovo equilibrio nel vangelo e nella chiesa, per cui il mistero della povertà — nei poveri e nel Cristo che si fece povero — diventa l’asse della storia, il vangelo diventa il vangelo dei poveri e la chiesa diventa la chiesa di poveri, allora gli uomini cominciano a riconoscere un segno dei tempi”.
La potenza del negativo
Nei vangeli i sommari rappresentano delle descrizioni sintetiche dell’attività di Gesù. Prendiamo ad esempio il passo di Matteo che precede le beatitudini: “Gesù andava per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo…” ( Mt. 4,23). È importante il contatto diretto che stabilisce con il popolo afflitto dai suoi problemi, prendendosi cura di lui. Questo prendersi cura è una costante della sua attività messianica: proprio in questo avveniva la rivelazione di Dio.
L’attività messianica che si esprime nel “prendersi cura” consente una perfetta attualità con tutte le generazioni. È essa il criterio per valutare se il sale ha sapore oppure se deve essere buttato.
Un prendersi cura che non può essere superficiale, ed estemporaneo, fatto di attivismo ottuso. Tanto meno deve scadere in forme di autocelebrazione. Il prendersi cura, come attività messianica, deve cogliere le esigenze profonde di un’epoca e ad esse deve corrispondere agendo puntualmente nel micro ove ci è dato di essere presenti. Prendersi cura significa anche stanare il negativo diffuso nell’oggi, togliergli la maschera di rispettabilità e di buonismo. A questo livello non è improbabile che il prendersi cura possa comportare di venirsi a trovare in condizioni estreme, ai limiti del possibile.
In questi ultimi decenni dopo il concilio è venuto alla luce l’orrore della Shoah. È diventato un pungolo inevitabile per la teologia, per le chiese, per la buona coscienza europea allevata ai valori cristiani. “Esso fu messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura”. Secondo Bauman «la lezione dell’olocausto sta nella facilità con cui la maggior parte degli individui prende le distanze dalla questione del dovere morale (e non riesce a porsela correttamente), adottando invece i precetti dell’interesse razionale e dell’autoconservazione. In una società in cui la razionalità e l’etica spingono in due direzioni diverse, l’umanità subisce i danni maggiori. Il male può svolgere il suo sporco lavoro, sperando che la maggior parte degli individui si astenga da compiere gesti avventati e imprudenti; e resistere al male è avventato e imprudente. Il male non ha bisogno né di seguaci entusiasti, né di un pubblico plaudente. Basterà l’istinto di conservazione, incoraggiato dal pensiero che induce a dire: “non è ancora il mio turno, grazie a Dio, mentendo ora posso salvarmi”».
Prendiamo queste considerazioni, fatte a proposito della Shoah, come valide non solo per le moltissime altre situazioni che hanno visto lo scatenamento della barbarie…, ma anche in riferimento alla disumanità, indifferenza e cinismo diffusi nel quotidiano della nostra vita. È la banalità del male (H. Arendt).
Un vangelo che fosse utilizzato in complicità con questa inerzia dell’auto-conservazione, magari nobilitandola come esemplare, si rovescerebbe nel suo contrario.
Un’altra situazione presente a livello mondiale, ben conosciuta da noi, manifesta la violenza del negativo in azione. La esprimiamo con dei dati che riportiamo da un intervento di L. Boff. «Prendiamo alcuni dati dal World Developement Report della Banca Mondiale, del 1993, e dal programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, del 1992. Viene detto che negli ultimi 25 anni, quando la globalizzazione ha cominciato ad accelerarsi (1965-1990), la ricchezza globale è cresciuta di dieci volte, mentre la popolazione del pianeta è appena raddoppiata. In questo periodo la quota di ricchezza di cui si sono appropriati i paesi ricchi è salita dal 68% al 72%, mentre la loro popolazione scendeva dal 30% al 23% della popolazione mondiale. La ricchezza di cui disponeva il 20% più ricco della popolazione mondiale saliva dal 72% (della ricchezza totale) all’83%, mentre quella toccata al 20% più povero scese dal 2,3% all’1,4%. Questo tipo di sviluppo globalizzato viene a costare ogni giorno la morte di 40.000 persone per fame o per sottoalimentazione. R. Garaudy commenta: «ogni due giorni ciò costa al Sud l’equivalente di Hiroshima”».
Se il vangelo viene tenuto lontano e protetto dalla violenza di questo negativo, da esso viene fatta scomparire la prassi messianica, cioè il prendersi cura. Il vangelo reagisce in rapporto alle vere questioni ed alle esigenze di un’epoca consegnandoci delle evidenze indiscutibili.
È immaginabile che l’annuncio delle beatitudini sia indifferente alla violenza di questa attualità e possa essere protetto sotto la bambagia dei “consigli evangelici”? Questo messaggio innanzitutto manifesta la compassione e la giustizia di Dio a favore dei poveri ed esclusi, a prescindere dalle loro qualità morali ed appartenenze religiose.
Se prendiamo il racconto di Mt. 25,31-46, sul giudizio ultimo, una composizione esemplare dell’agire concreto e puntuale reclamato dalla dimensione escatologia e giudicante del Vangelo, come è possibile che non venga connesso con la situazione di condanna a morte sistematica, prevedibile e programmata inflitta a milioni di persone? Come non riferirlo alle disumanità concrete che avvengono sotto i nostri occhi? Non vi è una chiara evidenza nella associazione delle due parole vangelo e tempo? La domanda caso mai si pone: come è possibile parlare di un vangelo avulso dal tempo?
L’azione messianica
La parola che irrompe nell’oggi, dentro la scenario di questa umanità, come parola imperativa ed escatologica, impone una decisione che si colloca agli antipodi dell’ istinto di conservazione che cristallizza nell’irresponsabilità. È la parola che grida ciò che è giusto: e questo ha una sua sostanziale evidenza. È la chiamata ad una assunzione di responsabilità che passa per il versante soggettivo della decisione ed operativo della fruttuosità storica.
Sappiamo che a questo si innesta il problema molto serio degli strumenti da adottare, dei metodi da seguire…, però questi devono essere guidati dalla luce di ciò che è giusto.
Non è un caso che oggi la parola giustizia è confinata nel mondo dell’amministrazione della giustizia da parte dello stato. A livello religioso, nella predicazione è stata ampiamente soppiantata in funzione di parole come solidarietà, carità ecc. con tutti gli equivoci che ne derivano; esse evocano la buona disposizione d’animo a fare qualcosa verso gli altri, più che la doverosità precisa che scaturisce da una obbligazione che nasce in me rispetto all’altro. Un’obbligazione che, per me credente, ha un carattere messianico ed escatologico, tale cioè da dover diventare l’asse attorno al quale organizzo l’insieme della vita.
Una pagina di S. Weil è illuminante: “La nozione di obbligo sovrasta quella del diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli uomini che si riconoscono nei suoi confronti obbligati a qualcosa. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. ( … ) L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano…”.
Azione messianica è anche stare accanto ad un Dio che chiede aiuto. In Matteo il Messia viene rivelato come l’Emanuele, il Dio con noi. Ad un certo punto, nel pieno della rivelazione messianica si chiede un rovesciamento: “restate con me” (26, 36-46). Restare con Lui nella sua impresa che sta avviandosi verso l’esito più drammatico.
Un tale comportamento lo si ritrova nella lettera di Bonhoeffer del 21 luglio, dopo il fallimento dell’attentato a Hitler, quindi nella consapevolezza dei rischi reali per la sua vita: “Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi … e questo io chiamo l’essere aldiqua della vita … allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getzemani…”.
Una conferma la troviamo in Etty Hillesum, un’ebrea olandese uccisa ad Auschwitz nel 1943 ed anche in M. Buber.
Sono solo degli spunti, delle chiavi di lettura sui due termini in gioco. Se a qualcuno queste considerazioni appaiono superflue, può seguire il consiglio di Rabbi Dov Bär di Mesritsch: “Ogni serratura ha la chiave adatta che la apre. Ma ci sono dei ladri forti che sanno aprire senza chiave: sforzano la serratura. Così ogni segreto del mondo si può aprire con la particolare meditazione adatta. Ma Dio ama il ladro che sforza la serratura: costui è l’uomo che si rompe il cuore per Dio”.
Angelo Reginato
Roberto Fiorini