“IL VANGELO NEL TEMPO:
SENSO DI UNA VITA”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 28-30 aprile 2000
Interventi
Ogni volta che mi immergo nel silenzio della grotta di Celestino V sul Monte Morrone, mi martellano in testa le parole del Vangelo di Matteo: «Quando pregate, non siate come gli ipocriti, i quali amano pregare stando sulle piazze per farsi vedere dagli uomini» (Mt 6,5).
O ancora: «Sul seggio di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. Ambiscono i saluti sulle piazze ed essere chiamati maestri» (Mt 23, 1. 6-7).
E quella grotta dove arrivo turbato perché costretto a vivere in una società e anche in una chiesa sempre più capace di mobilitare la piazza e di mettersi al centro dell’attenzione e dell’omaggio dei mezzi di comunicazione, nonché di tutti i potenti della terra, quella grotta mi ridona sempre una grande serenità.
In quell’anfratto – dove rimango a lungo in silenzio ed in ascolto – ho l’impressione vivissima della presenza di fra’ Pietro. Mi si concretizza davanti il suo spirito di sorprendente modernità.
Modernità che mi piace riassumere in tre punti fondamentali e peraltro sempre troppo poco evidenziati.
1. L’accoglienza dei fraticelli
Erano gli “eretici” del XIII secolo, dopo che papa Niccolò III aveva emanato la bolla in cui i cosiddetti “spirituali” erano «invitati ad obbedire alla regola francescana sistemata da frate Elia, pena l’esclusione dalla comunione ecclesiale».
Sempre così, da Caifa e Pilato in poi. Chi ha inteso applicare integralmente l’annuncio di Gesù Cristo è stato quasi sempre costretto a nascondersi, a fuggire, a vivere “fuori delle mura”. Se non addirittura ad essere imprigionato e messo sui vari roghi.
Pietro da Morrone, forte dell’autorità che gli veniva dalla sua vita, ha osato mettersi contro l’editto di un papa: per lui era molto più importante l’invito di Gesù ad accogliere e ad amare i fratelli perseguitati.
Non deve essergli stato facile prendere più volte quella decisione, ma ci ha ricordato così che talvolta è necessario «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5, 29).
2. La perdonanza
In questi ultimi tempi tutti si riempiono la bocca di parole quali giubileo, conversione, riconciliazione.
Celestino V, prima di altri, aveva intuito che bisognava offrire riconciliazione a tutti e non solo a quelli che possedevano una borsa piena di monete o beni da lasciare alla chiesa in cambio della remissione dei peccati.
È questo il significato profondo della perdonanza celestiniana.
Può anche essere vero che noi – sia pure profondamente radicati in una cultura e in una società cristiana –, come il giovane ricco del Vangelo, non abbiamo ammazzato, non siamo stati adulteri, non abbiamo rubato, ma quando ci risuona all’orecchio il «va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri» ci rattristiamo e non siamo capaci di farlo.
Quando Celestino V ha proclamato la Perdonanza ha inteso mettere una scure alla radice dell’accumulo di beni attraverso le indulgenze o comunque delle “prestazioni” religiose che poi, purtroppo, si sarebbe copiosamente ripetuto anche nei secoli successivi, fino ai nostri giorni.
3. Il dubbio
L’aspetto più moderno della figura di Celestino è comunque la capacità di dubitare, di non coltivare sempre e comunque solo certezze.
Anche il dubbio ha in lui un profondo radicamento nel tessuto evangelico. «Non fatevi chiamare padre e maestro, perché uno solo è il vostro padre e voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8-9). Non fatevi chiamare “padre”. E quindi tanto meno con altri titoli che creano distacco e divisione.
Forse proprio la repulsione ad essere costantemente riverito, ad essere considerato al di sopra di tutti, con il potere sulla vita e sulle scelte degli altri, sulle loro coscienze, sulle loro tensioni interiori, lo ha portato al rifiuto del più grande potere che possa essere concentrato nelle mani di un uomo.
Si è accorto di non riuscire più a coniugare l’“ora et labora” con la partecipazione, la solidarietà, lo stare con i poveri, da povero. Evidentemente non gli bastava proclamare encicliche sull’uguaglianza e sulla povertà. Voleva viverle. E perciò ha rinunciato ad essere papa.
Questi ed altri pensieri si affollano nella mia mente dentro la grotta del Morrone “vissuta” da fra’ Pietro. E idealmente mi trasferisco in un altro luogo angusto e scomodo – questa volta non scavato nella roccia ma ricavato nella fortezza del Fumone dove Celestino venne rinchiuso dal suo successore Bonifacio VIII.
E mi piace raccoglierne come in un dolce sogno le ultime parole:
«Ti ringrazio, o Dio, per avermi aiutato a conservare la fede, nonostante tutto. Qualche volta mi sono chiesto – forse bestemmiando – se tu non avevi commesso un errore a fondare una chiesa così spietata con gli avversari, così poco umana con chi sbaglia, una chiesa che troppo spesso non conosce la tenerezza. Ma in questi momenti estremi della vita, la mia memoria si popola di pastori e contadini abruzzesi, come pure di uno stuolo di poveri di Napoli, di Milano, di Francia, di Inghilterra. Sono loro il tuo popolo, sono loro la tua chiesa. Ti ringrazio, Padre, perché ti sei manifestato a me attraverso la loro semplicità, la loro immediatezza, la loro generosità, la loro precarietà di vita, il loro sorriso… Grazie».
Pura immaginazione e forzatura la mia? Può darsi. Ma a me sembra il modo migliore per mettere a fuoco questa figura poco conosciuta perché spesso volutamente rimossa: riscoprirne la Fede radicata nel Vangelo vissuto, sorretta da una semplicità disarmante e da un forte spessore di umanità.
È per questo – ne sono certo – che verrà il giorno in cui tante donne e tanti uomini, senza distinzione di colore, di cultura, di religione, muniti semplicemente della propria dignità e di un pezzo di pane da dividere con gli altri, si metteranno in viaggio sulla via di Celestino.
Una via che non porta a nessuna piazza ricolma di gente acclamante, ma in una grotta dove ognuno scoprirà semplicemente la gioia indescrivibile del rapporto con Dio e il valore della propria dignità.