“IL VANGELO NEL TEMPO:
SENSO DI UNA VITA”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 28-30 aprile 2000
Interventi
Rileggendo la mia vita di questi ultimi 30 anni mi rendo conto che il Vangelo ha avuto la parte più importante del mio sentire e nello stesso tempo ha subito delle modifiche che chiamerei accentuazioni diverse a seconda dei periodi. I primi anni sentivo molto il Vangelo di Nazareth, la vita nascosta di Gesù che cresceva in “età, sapienza e grazia”. Facendo il falegname sentivo e sento tutt’ora Cristo come mio collega di lavoro.
Non è solo quando si è giovani che si cresce in sapienza e grazia, ma quello fu un periodo fondamentale, non un passaggio come avviene nella vita con l’infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia. Inoltre c’è un tempo e momento per ogni cosa e la realtà è talmente complessa che richiede approcci olistici, a più dimensioni. Era quello il periodo della parabola del seme: mi sentivo seminatore, convinto che la verità aveva i suoi tempi e richiedeva impegno e sofferenza. Seminatore di che cosa?
Oggi non più, preferirei essere solo seme e nient’altro, senza un “per”, senza secondi fini. La gioia di essere un seme. Gandhi parlava della fede come di un’energia talmente grande che non ha bisogno di essere diffusa, perché si diffonde da sè, senza spinte. È un pò come la rosa che non fa nulla per essere tale, il suo profumo si diffonde da sè.
Un altro passo evangelico che tutti noi abbiamo vissuto e tutt’ora viviamo è quello della sinagoga di Nazareth: “Lo spirito del Signore è su di me, egli mi ha inviato ad annunziare il lieto annuncio ai poveri”. L’andare verso i poveri, il mondo operaio, l’incarnazione, lo stare dentro. Tutto è partito da quella frase. Mi sentivo inviato, con la scelta preferenziale per i poveri. Qui è avvenuto il più grande cambiamento: i poveri non hanno bisogno di essere evangelizzati perché sono già Vangelo, annuncio di liberazione, profezia, coscienza critica dell’umanità. Essi mi fanno scoprire il vangelo. Da maestro mi sento oggi discepolo: credo sia la più bella carriera per un credente. Oggi non mi sento di liberare nessuno, ma solo me stesso. Nelle relazioni umane spesso è facile buttare sugli altri i propri problemi non ancora risolti; sentirsi un inviato che ha qualcosa da dire è stata una grossa pretesa; il maestro di Nazareth diceva “Nessuno di voi si senta maestro, perché uno solo è il vostro maestro”. Ora ho poco da dire e molto da imparare.
Il vecchio capo indiano Wabashaw diceva: “Sorveglia la tua lingua in gioventù, allora, forse, nella vecchiaia, regalerai un pensiero saggio al tuo popolo”. Questo cambiamento lo legherei alla tematica dell’ascolto, che è anche il primo e più importante dei comandamenti: “Ascolta Israele”. È difficile ascoltare. Quando qualcuno ci parla pensiamo alla risposta da dare, alla soluzione pronta per quello che ci sta di fronte. Quindi la preoccupazione non è l’ascolto ma la risposta. Le parole, le risposte sagge nascono dall’ascolto, dalle pause e lunghi silenzi, che sono il segno dell’interesse, dell’assumere. Molte volte non ci sono risposte, rimangono interrogativi che decantati danno origine forse a risposte o meglio a cambiamenti. L’ascolto cambia entrambi: chi parla e chi ascolta, cercando delle soluzioni insieme.
Negli anni 70-80 ero molto affascinato dal Gesù arrabbiato che si scaglia contro i mercanti del tempio, che moltiplica i pani, che guarisce gli infermi, duro con gli scribi e farisei. Era il Gesù del Vangelo di Matteo del regista Pasolini. La liberazione si esprimeva attraverso forme di lotta e di protesta molto visibile e con metodi duri.
È facile lasciarsi coinvolgere dalla spirale della violenza, sia nel linguaggio sia nei gesti, facendo così il gioco dell’altro. Preferisco il silenzio di Gesù davanti a Pilato come forma di protesta, che non è lasciarmi cadere le braccia di fronte ad un’ingiustizia, ma è il non-collaborare col male.
La liberazione la legherei alla vigilanza, al vegliare evangelico, mentre il sonno è simbolo di morte. Si ritorna oggi alla cultura biologica e il grano si mangia non solo sotto forma di pane: lo si può mangiare così com’è. Per mangiarlo cotto ci vuole molto tempo, perché i chicchi di grano sono molto duri quindi occorre cuocerlo molto lentamente ed è importante il fuoco acceso sotto la pentola: dopo alcune ore i chicchi si ammorbidiscono e si aprono. Il vegliare evangelico è il tenere acceso il fuoco sotto i problemi che angosciano noi e l’umanità: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora” (Mt. 25,13).
Il lavoro, lo sfruttamento, la difesa degli esclusi, dei diritti umani e della terra non vanno lasciati a se stessi, altrimenti si bruciano, vanno alla deriva, nel dimenticatoio. Siamo costretti a perdere terreno ogni giorno e i margini di manovra sono sempre più ristretti, perché i “figli delle tenebre, sono più scaltri dei figli della luce”. Ogni giorno perdiamo compagni di viaggio che vengono attratti dal canto di altre allodole e le fila si assottigliano sempre di più. Quello che è successo a Seattle è un segno di speranza. Probabilmente il grano sta cuocendo bene, perché c’è qualcuno che veglia.
Legato al tema della veglia è il tema della consapevolezza: essere presenti, consapevoli di quello che sta avvenendo. La sofferenza e le tragedie umane diventano spettacolo, correndo il rischio della assuefazione e del “non se ne può più”. Esse diventano spot televisivi, documentari di tragedie insieme a prodotti di consumo. Tutto viene livellato, come se l’annuncio di una tragedia sia sullo stesso livello di un prodotto di bellezza o cibo per cani.
Il samaritano non è come il levita, che mette insieme servizio al tempio e soccorrere il ferito, optando per il primo; egli sa scegliere ed è consapevole che la gloria di Dio è l’uomo vivente, non le pietre del tempio o della sinagoga. Quale Vangelo per il nostro tempo?
“Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Ci sarà caldo”, e così accade. E quando soffia lo scirocco dite: “Ci sarà caldo e così accade”.
Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc. 12,54-56)
Legato al tema della consapevolezza è la memoria. “Fate questo in memoria di me”. È la centralità del memoriale, del discorso biblico. La fede ebraica regge sul fare memoria del passato e del presente per rilanciare. Il nostro tempo ha perso la memoria, cancella tutto facilmente: la carta e il giorno dopo diventa carta straccia; le case sono costruite per durare poco, così le macchine. Tutto è consumo. Tra qualche decennio si dirà: ma i nostri nonni dove hanno abitato e lavorato? Distrutto! La civiltà tecnologica mangia se stessa senza lasciare tracce. Si dimentica, si ha la memoria corta, si minimizzano le tragedie che fanno notizia per alcuni giorni. E anche le grandi tragedie di questo secolo che stiamo lasciando sono acqua passata senza accorgerci che “a volte ritornano”. “Annunciamo la tua morte o Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Raccontare per non dimenticare i racconti degli uomini e delle donne delle morti e delle risurrezioni, delle pasque e dei venerdì santi. Gesù usava un linguaggio semplice, quello delle parabole: la vita diventa Vangelo.
Un altro brano che mi affascina e che sento molto vicino al nostro tempo è quello di Gesù di fronte alla tentazione. “Fa’ che questi sassi diventino pane”, dirà il tentatore. Il nostro tempo vuole trasformare tutto, anche l’uomo.
Un conto è carpire l’energia nascosta nella natura, sondandone i misteri ed un conto è trasformarla geneticamente. Probabilmente anche gli autori biblici della Genesi si sono accorti che un certo tipo di interpretazione della creazione poteva portare alla distruzione; per questo abbiamo due tipi di racconto. In uno l’uomo domina la natura e la assoggetta, nell’altro egli è solo il custode del giardino. La risposta di Gesù è come se volesse dire: lascia che le pietre rimangano pietre, non stravolgere la loro natura.
Stravolgendo l’ordine l’uomo si trova fuori e il giardino è perduto per sempre. E già nel Primo Testamento, a proposito del riposo della terra con i suoi diritti, fa capolino una interpretazione che sembra sconcertante. “Vi disperderò fra le nazioni e vi inseguirò con la spada sguainata. Il vostro paese sarà desolato e le vostre città saranno deserte”. Perchè? “Allora la terra godrà i suoi sabati per tutto il tempo in cui rimarrà desolata e voi sarete nel paese dei vostri nemici; allora la terra riposerà e si compenserà dei suoi sabati” (Lev. 26,33 ss.).
È un’interpretazione ecologica dell’esilio di Israele in Babilonia. Dio ha voluto salvare la propria terra e quindi ha permesso che il popolo venisse sconfitto e deportato, prigioniero.
“Non tentare il Signore Dio tuo”, lascia che le pietre rimangano pietre, perché se violenti la terra essa rimarrà un deserto. Ci si può ricollegare a tutto il problema, direi meglio tragedia delle immigrazioni. La terra è sfruttata a monocultura dalle multinazionali e dal debito col Fondo Monetario Internazionale che impone certe politiche, sottraendo così la terra ai propri abitanti. Lo sfruttamento intensivo porterà all’esilio e alla fine determinerà la scomparsa del genere umano.
Di fronte a questo spettacolo è facile dire la preghiera di Gesù sulla croce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato”.
Allora anche Cristo è morto disperato? Anche qui gli evangelisti hanno apportato dei ritocchi evidenti, mettendo in bocca a Gesù in quel momento parole diverse: “Nelle tue mani affido il mio spirito”; “Tutto è compiuto”. Tutte queste frasi fanno parte del medesimo salmo 22: era evidente che egli non poteva morire disperato.
vieni presto, mia forza, in aiuto,
dalle spade accorri a scamparmi.
È per lui che vive il mio sangue
la mia stirpe lo serve per sempre
e lo canta all’età che già viene:
la salvezza sarà annunciata
a un popolo prossimo a nascere
si dirà: “Questo ha fatto il Signore”.
Concluderei con un’immagine: la foglia durante l’autunno cade perché ha fatto il suo tempo. Sembra inutile, ma così non è: essa diventa concime per la pianta e quindi è figlia della pianta ma anche madre della pianta. E il ciclo biologico ricomincia.
Il Gesù della risurrezione dice ai discepoli di ritornare in Galilea. Non voleva dire: “tornatevene alle vostre case perché la festa è finita”. Ritornare in Galilea è un rimettersi in viaggio, ritornare a remare con altri occhi pieni di volti e di immagini, con il corpo scassato ma più ricco, con ferite aperte e altre rimarginate. La Galilea è una terra di confine “Il paese di Zabulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano Galilea delle genti”.
Ora ci sono altri compagni di viaggio, con altre colture, gente della frontiera. Noi non siamo più al centro del mondo e non abbiamo più l’unica verità, perché nel progetto di Dio non c’è posto per una nuova torre di Babele.
Mario Signorelli