Editoriale


 

Il numero della rivista che avete tra le mani contiene gli atti del convegno “Il vangelo nel tempo. Senso di una vita”. La pubblicazione delle relazioni degli interventi è un atto dovuto, ma, normalmente, poco impegnativo. Chi ha partecipato all’incontro sa già cosa si è detto; e, se conosciamo almeno un po’ i nostri lettori, non possiamo non pensare che nutrano qualche insofferenza nei confronti di una certa convegnistica che “lascia il tempo che trova!”. Un’istanza critica importante che ci spinge più sulle scelte che sulle parole e, in ogni caso, a non moltiplicare i convegni. Eppure in un momento in cui il presenzialismo sulla scena pubblica, sociale ed ecclesiale, è agito da arrivisti senza scrupoli, che fanno senza discutere, che invocano l’idolo dell’evidenza, che adorano il dio mediatico; in un contesto simile il fermarsi per capire, riflettere, confrontarsi, non gioca il ruolo della deriva idealistica bensì quello dell’impulso critico. A questo proposito G. Anders capovolge provocatoriamente la famosa tesi di Marx: “cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi”.
Ma al di là dell’istanza di principio sull’importanza del momento interpre-tativo, questo convegno ha fatto emergere, soprattutto negli interventi dei partecipanti, una ricchezza di intuizioni che, se seminata e coltivata, mostrerebbe una preziosa fecondità anche in termini di progettualità.
Alcuni di questi interventi li trovate, rielaborati nella forma dello scritto, nelle pagine seguenti. Io vorrei enucleare i nodi principali emersi a proposito del nostro tema.

“Tra due giardini”

Viviamo il tempo della pazzia della globalizzazione, nel quale non risuonano certo i precetti evangelici quanto piuttosto quello di B. Franklin: “ricordati che il tempo è denaro” ! Numerosi interventi hanno parlato e testimoniato della barbarie del presente: in fabbrica come nelle cooperative, nei campi di detenzione (lager) per immigrati come nei diversi Sud del mondo… Se si scelgono come compagni di viaggio quelli che stanno “sotto”, non si può non cogliere la drammaticità della situazione, non si può evitare uno sguardo tragico sul presente.
Qualcuno ha invitato a stendere bilanci a partita doppia, a vedere anche il positivo di una storia abitata da volti e da gesti di solidarietà e condivisione: uno sguardo più utopico per evitare la paralisi.
Sia per chi presenta un bilancio in pareggio che per coloro ai quali i conti non tornano e la prospettiva è quella della bancarotta, il territorio sul quale muoversi è segnato da due giardini: quello del Getsemani, terra di disperazione, e quello del sepolcro vuoto, giardino del Regno, della speranza nella quale si è salvati.
Attraversiamo questi due giardini in un senso e nell’altro. Più spesso in senso contrario: dopo essere stati chiamati per nome, giungiamo nei luoghi dell’abbandono dove nessuna voce più risuona ma solo il grido di dolore.
C. Magris ha scritto pagine acute nelle quali invita ad unire utopia e disincanto. Eppure come sono lontane queste due terre e quant’è faticoso percorrerle soprattutto se, mentre si cammina sulle strade dell’una, non si dimentica quanto si è visto nell’altra!
Su questi territori si parlano una pluralità di lingue: da quella radicale di chi lotta per la giustizia “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”, a quella delle micro-realizzazioni o dell’opposizione culturale, preoccupata di smascherare la menzogna e di educare cervelli pensanti e sognanti, fino all’attesa (im-)paziente delle donne o all’afasia di chi si sente morire la parola in bocca…
Lingue di resistenza al negativo del tempo e, contemporaneamente, autocritiche rispetto alla propria militanza: è alla nostra portata la giustizia a livello globale? Ma, del resto, i microprogetti non rischiano di addormentare le coscienze?

“Tra due forze”

La storia, da sempre, è dominata dalla forza. Sono i potenti, i vincenti a scrivere e ri-scrivere la storia. Gli altri possono rivendicare l’eticità delle proprie scelte ed il carattere testimoniale della propria biografia: ma solo la forza è efficace.
Di qui la contraddizione che aleggia sotto il titolo del nostro incontro: da una parte il Vangelo della stoltezza e della debolezza; e dall’altra il tempo configurato dalla forza. Di qui la tentazione di uscire dalla contraddizione appiattendo la verità sulla forza: ha ragione chi vince. Come aveva previsto Pascal, non essendosi potuto fare che la giustizia avesse la forza, si è fatto che la forza fosse la giustizia. È il pensiero diabolico illustrato nelle tentazioni di Gesù nel deserto. S. Weil, che a lungo ha riflettuto su questo tema, propone di abitare la contraddizione. Sappiamo che non è in nostro potere risolverla. Ma forte è la tentazione di sciogliere la tensione, di rimuovere il problema adattandosi alla posizione vincente. La scommessa è di riuscire a mantenere aperta la contraddizione. Qualcuno degli intervenuti, citando I. Mancini, ha indicato la via di un “cristianesimo del paradosso” che è cosciente della distanza tra la storia e l’Evangelo, che cerca di ridire il senso assoluto di una Parola indicibile nella laicità del tempo.
Contro la furbizia delle facili sovrapposizioni create in regime di cristianità e pagate col prezzo troppo alto del messaggio emendato, del tradimento dell’Evangelo, è emersa l’esigenza di un lavoro di purificazione.
Purificazione della memoria: non tanto quella storica ma, più a monte, quella cristologica. Nell’editoriale del precedente numero della rivista, R. Fiorini ha usato la suggestiva immagine del Cristo prigioniero. Un giubileo degno di questo nome dovrebbe iniziare a rimettere in libertà il Cristo incatenato. Una chiesa della sequela dovrebbe impiegare tutte le proprie forze per attingere più a fondo alla propria sorgente vitale.
Purificazione del linguaggio: l’universalismo cristiano deve spingere oltre le ristrettezze confessionali ed eurocentriche; la parresia evangelica chiede di contrastare le mistificazioni e gli equivoci (soprattutto di una carità giocata al posto della giustizia).
Qualcuno ha messo in dubbio che quest’opera di purificazione possa avvenire nelle chiese dopo il secolare “mescolamento” con i poteri politico- economici: la chiesa ha usurpato l’Evangelo e quest’ultimo va cercato altrove.
Qualcun altro ha messo in guardia dalla tentazione di confondere la chiesa con il Regno di Dio: la chiesa non potrà mai vivere integralmente l’Evangelo; essa può operare nella storia solo tentativi di approssimazione. Un dato è stato condiviso da tutti: siamo alla fine di una forma di cristianesimo, di un modo di giocare il Vangelo nel tempo ed è necessario non opporre resistenza a quel Signore che vuole immergerci nella lisciva dei lavandai (Mal 3,2), che ci indica una conversione intesa come “ricominciare dall’inizio”.

“Tra due prospettive”

Il Vangelo nel Tempo è stato anche il senso di una vita: quella dei pretioperai. Rompendo con la forma del “cristianesimo borghese” e abbandonando le secche clericali cui si era impigliata la figura del ministero presbiterale, i pretioperai hanno posto nella vicenda ecclesiale post-conciliare una concreta pietra d’inciampo ed un graffiante punto di domanda sul senso del Vangelo nel tempo.
Ma ora, ha ancora senso una tale scelta? E, prima ancora di porsi la domanda sulla significatività, c’è un futuro per un collettivo di persone per lo più anziane, senza che s’intraveda un ricambio generazionale?
Per molti l’esperienza dei pretioperai è giunta al capolinea e la figura da essi tracciata nel segno della radicalità non lascia impronte sulle pareti di gomma di una chiesa che non teme più e benevolmente irride il dissenso aperto, proprio mentre subisce il tracollo di uno “scisma sommerso”.
Anche tra di noi affiora qua e là la sindrome da “combattenti e reduci” e qualcuno ventila l’ipotesi di un dignitoso funerale autogestito affinché il punto finale di una vicenda del genere non venga posto strumentalmente da chi non l’ha mai digerita.
Ma per molti altri se ci si libera dalla paura di morire — nella consapevolezza che si è sempre servi inutili e che ogni scelta storica è provvisoria — e, nello stesso tempo, non ci si affida ad una sopravvivenza artefatta, allora si è liberi di vivere. Non con la preoccupazione di salvaguardare ciò che si è costruito ma con la libertà di chi non ha niente da perdere. Qualcuno degli intervenuti ha detto che saper offrire allo sguardo altrui dei “volti liberi” sarebbe l’approssimazione più vicina a quei “volti di risorti” invocati da Nietzsche.
Nella parabola dei pretioperai questa è la stagione dei frutti. C’è una responsabilità dei pretioperai per la storia vissuta e l’esperienza maturata. “Chi possiede dei saperi può schierarsi a favore della ricerca di una spiegazione dell’ingiustizia presente nel mondo attuale o in favore della complicità con la paralisi e l’insediamento nel limbo” (M. V. Montalban).
Una responsabilità che, in un contesto sociale ed ecclesiale cieco di fronte alla gravità dell’ingiustizia, deve innanzi tutto tradursi nel “ridare la vista ai ciechi”: offrendo strumenti, testimoniando segni, vigilando, facendo memoria.
“Il tempo non è solo destino da subire. È sempre anche tempo determinato dalle nostre scelte, da noi” (J. L. Borges).
Stagione dei frutti da offrire ma anche del vino da far decantare. E la decantazione dice una ricerca che continua, una fedeltà che non vive di rendita, un’eredità che si essenzializza liberandosi delle zavorre.
Le cantine nelle quali operare questo lavoro di stagionatura sono situate in basso, nei sotterranei della Storia. Là ci è chiesto di stare. Non di passaggio, come chi scende in cantina per prendere quello che gli serve e subito risale non sopportando l’insalubre umidità del basso e aspirando alla visibilità dell’alto.
Gli ultimi due interventi del convegno, prima della discussione sulle prospettive future, sintetizzano bene il comune denominatore dei diversi contributi: “a monte il Vangelo e a valle i poveri cristi, quelli che stanno sotto”. “Essere persone che portano speranza ma sperimentano la disperazione nella condivisione”.
Dare voce — la nostra voce — alla tragicità del nostro tempo e rischiare percorsi di speranza in nome di un Evangelo ricaricato di “dinamite politica”, di passione per la redenzione storica, a fronte del carattere infernale del nostro tempo.
Questo non perché siamo spettatori del naufragio, abitatori della terraferma, possessori di un sicuro punto di appoggio da cui muoversi per salvare gli uomini in mare. Siamo tutti imbarcati! Come ricorda un testo di H. Blumenberg: “si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la propria azione-quadro. Noi siamo come dei marinai che devono ricostruire la loro nave in mare aperto, che non possono mai smantellarla sulla terraferma e ricostruirla usando i migliori materiali. Pensare l’inizio vuol dire dunque immaginare la condizione senza la nave d’appoggio del linguaggio naturale e, indipendentemente dalla sua solidità, ripercorrere in un esperimento ideale le azioni con le quali, nuotando in mezzo al mare della vita, potremmo costruirci una zattera o magari una nave… Ma è chiaro che il mare contiene altro materiale rispetto a quello già impiegato nella costruzione. Da dove può venire, per far coraggio a chi ricomincia daccapo? Forse da precedenti naufragi?”
Stare sotto con chi subisce le pesanti conseguenze della deriva. Non per motivi strategici, perché lì c’è il fondamento della nuova umanità, la radice pronta per una nuova gemmazione. Ben sappiamo che “nel profondo non ci sono radici ma ciò che è stato estirpato” (H. Mujica).
Eppure, per dirla con E. Sabato, è sempre possibile un “patto tra vinti”. Non siamo vincenti, abbiamo perso una guerra e sappiamo che occorre tornare a casa. Ma il ritorno a casa ha il segno del patto di fiducia tra amici e non quello della dissoluzione e dell’autodistruzione. Fare i conti con la sconfitta ma anche con l’intatta dignità della passione per la giustizia e con la possibilità di esserci ancora nella storia.
Vinti che, nonostante tutto, oppongono resistenza all’ingiustizia sociale ed al suo vangelo complice, la teologia neo-liberista; e che sperano, contro ogni speranza, nella possibilità che ritorni a risuonare il “lieto annuncio ai poveri”.
Tra i vinti che oppongono resistenza al male, c’è anche Gesù di Nazaret. Con lui ci è chiesto di scendere agli inferi senza disperare.

Angelo Reginato


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