Vegliare in tempo di guerra
Riportiamo qui alcuni testi di autori americani con lo scopo di documentare che anche nel paese colpito dagli atti di terrorismo dell’11 settembre vi è una opinione pubblica non allineata, anzi profondamente dissenziente dall’unico punto di vista che domina la scena dei media statunitensi ed occidentali.
1. Progetto imperiale
Un anno fa negli USA veniva pubblicato “Blowback. Il costo e le conseguenze dell’impero americano” un libro scritto da Chalmers Johnson un convinto anticomunista, negli anni ’60 fautore della guerra in Vietnam. Di sé scrive nella prefazione:
“In quegli anni ero irritato dalla protesta degli studenti…In realtà loro stavano capendo molto meglio di me le motivazioni profonde di un Robert McNamara, di un Walt Rostow. Coglievano un elemento essenziale del ruolo imperiale dell’America nel mondo che a me sfuggiva”.
È un messaggio agli americani su un punto decisivo, sul quale essi sono ignari:
“Ci esimiamo dall’essere coscienti di come possiamo apparire al resto del mondo. La maggior parte degli americani non è conscia di come Washington esercita la sua egemonia globale, visto che tanta parte di queste attività si svolge in segreto o sotto diciture consolanti…Ma solo se riusciamo a vedere il nostro paese come qualcosa che insieme trae profitto ed è intrappolato dalle strutture di un impero in costruzione, riusciremo a spiegarci molti elementi del resto del mondo che altrimenti ci lasciano perplessi”.
“Dieci anni dopo la fine della guerra fredda, centinaia di migliaia di soldati americani, dotati dell’armamento più avanzato del mondo, incluse armi atomiche, sono stanziati in più di 61 basi in 19 paesi, se si usa la definizione più restrittiva data dal Dipartimento della difesa per definire una ‘grande installazione’; ma se s’include ogni installazione che ospiti rappresentanti delle Forse Armate Usa, allora il numero sale a 800 basi. Naturalmente non ci sono basi italiane negli Stati Uniti. Il solo pensiero sarebbe ridicolo. Né, se per questo, ci sono basi tedesche, indonesiane, russe greche o giapponesi di stanza sul suolo italiano. Per di più l’Italia è una stretta alleata degli Usa e non c’è nessuna nazione che sia una verosimile minaccia per le sue rive. Tutto ciò è fin troppo facile da constatare. Semplicemente non è materia di discussione, e ancor meno di dibattito, nella terra dell’ultimo potere imperiale. Probabilmente questo modo di pensare è una seconda natura per ogni impero. Può darsi che i Romani non trovassero strano avere truppe in Gallia, né gli Inglesi in Sud Africa…”.
La stessa cosa vale per altri paesi che sono sotto occupazione americana: Gran Bretagna, Germania, Spagna, Turchia, Arabia Saudita, Filippine, Giappone, Corea del Sud.
“Gli imperi più moderni sono di solito celati da qualche concetto ideologico e giuridico – commowelt, alleanza, mondo libero, occidente, blocco comunista – che maschera le relazioni concrete dei suoi membri”.
Il libro inizia con la strage della funivia del Cermis, con l’assoluzione dei piloti ed il rifiuto di risarcire le famiglie. Ma è tutt’altro che un caso isolato: gli stupri impuniti delle ragazzine giapponesi da parte di marines Usa a Okinawa, il peschereccio giapponese affondato da un sottomarino atomico in emersione…
“Tipica di un popolo imperiale la memoria corta dei propri più spiacevoli atti imperiali, ma per chi li subisce la memoria può essere molto più lunga”.
“Dalla fine della guerra fredda, per perseguire la propria politica estera gli Stati Uniti hanno smesso quasi del tutto di affidarsi alla diplomazia, all’aiuto economico, alla legge internazionale, alle istituzioni internazionali e si sono affidati sempre più al pugno sul tavolo, alla forza militare e alla manipolazione finanziaria”.
Nel 1998 Madeleine Albright, segretario di stato, diceva: “Se dobbiamo usare la forza è perché noi siamo l’America. Siamo la nazione indispensabile. Noi ci ergiamo alti. Noi vediamo più lontano nel futuro”.
A questo punto ecco il Blowback che si potrebbe tradurre con boomerang.
“Blowback è un’abbreviazione per dire che una nazione miete ciò che ha seminato, anche se non capisce cosa ha seminato. Con la loro ricchezza e il loro potere, gli Usa saranno il primo e principale oggetto di tutte le più prevedibili forme di blowback, in particolare attacchi terroristici, anche sul territorio Usa. Ma la vera minaccia è il blowback nel senso più lato – il costo tangibile di un impero – perché gli imperi sono imprese carissime. La deindustrializzazione degli Usa è un’involontaria conseguenza negativa della politica americana. Un altro esempio è il militarismo in una società che una volta era democratica. È l’impero che fa problema. Più i progetti sono imperialisti, più provocano blowbacks”.
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(Informazione e traduzione testi da Marco d’Eramo / Il manifesto, 20 novembre 2001)
2. Ancora sull’impero
“Ritengo che lo spreco dissoluto delle nostre risorse in inutili sistemi di armamenti e il crollo economico dell’Asia, così come l’ininterrotta catena di “incidenti” militari e di attacchi terroristici alle installazioni e ambasciate americane, siano tutti presagi di una crisi che nel XXI secolo si abbatterà sull’informale impero americano, un impero fondato sulla proiezione del potere militare in ogni angolo del mondo e sull’impiego del capitale e del mercato americano per imporre l’integrazione economica globale alle nostre condizioni senza alcun riguardo per il prezzo che ciò comporta agli altri. Prevedere il futuro è un’impresa che nessun uomo con un briciolo di buon senso si azzarderebbe a rischiare. È impossibile indovinare quale forma assumerà la crisi del nostro impero da qui a qualche anno, o forse qualche decennio. Ma la storia insegna che per tutti gli imperi questo momento prima o poi arriva, ed è irragionevole pensare che l’America possa miracolosamente sfuggire al proprio destino.
Ciò di cui siamo totalmente privi, tuttavia, è la benché minima consapevolezza di come possiamo apparire agli occhi delle altre nazioni della terra. La gran parte degli americani non è probabilmente a conoscenza dei modi attraverso cui Washington esercita la propria egemonia sul globo, dal momento che gran parte della sua attività viene espletata in relativa segretezza o mascherata sotto edificanti programmi. Molti potrebbero in un primo momento far fatica a credere che la nostra posizione nel mondo sia equiparabile a un impero. Tuttavia, solo considerandoci un paese che trae profitto dall’impero che ha creato ma nelle cui strutture è rimasto al contempo intrappolato possiamo spiegarci molti aspetti del mondo altrimenti destinati a rimanerci oscuri.”
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(Da “Gli ultimi giorni dell’impero americano” di Chalmers Johnson, Garzanti, 2001)
3. Sul terrorismo
Gore Vidal, scrittore americano, in una breve raccolta di saggi dal titolo “La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo, Roma 2001, pubblicato in Italia, dopo che negli USA erano state chiuse le porte alla pubblicazione, riporta un brano di un articolo di Arno J. Mayer, professore emerito di Storia a Princeton, comparso su Le Mond, dopo che nessun giornale americano aveva accettato di pubblicarlo.
“In epoca moderna, fino ad oggi, gli atti di terrore individuale sono stati l’arma dei deboli e dei poveri, mentre gli atti di terrore economico e di stato sono stati l’arma dei forti. In ambedue le forme occorre naturalmente distinguere tra obiettivi e vittime. Questa distinzione è quanto mai chiara al riguardo del fatale attacco al World Trade Center: l’obiettivo è uno dei maggiori simboli e fulcri del potere economico e finanziario globale; la vittima è la forza-lavoro sventurata e (parzialmente) subalterna. La distinzione non si applica al Pentagono, il comando militare supremo – l’ultima ratio regum – della globalizzazione capitalista, anche se ha provocato, per utilizzare il linguaggio del Pentagono danni “collaterali” in termini di vite umane.
A conti fatti, dal 1947, gli Stati Uniti sono stati all’avanguardia e il principale esecutore del terrore “preventivo” di Stato, agendo però esclusivamente nel “Terzo Mondo” e dunque in maniera notevolmente dissimulata. Oltre ai consueti colpi di Stato durante la guerra fredda, operati in competizione con l’Unione Sovietica, Washington ha fatto ricorso all’assassinio politico, a squadroni della morte e a riprovevoli paladini della libertà (fra i quali Bin Laden). Ha orchestrato l’uccisione di Lumumba e Allende; ha provato a fare lo stesso con Castro, Gheddafi e Saddam Hussein; ha posto il proprio veto contro qualunque sforzo di mettere un freno non solo alle violazioni di accordi internazionali e risoluzioni ONU da parte di Israele, ma anche al terrore preventivo che questo Stato ha esercitato”, (pp. 7-8).
4. Denuncia dell’Human Right Watch americano
(Osservatorio dei Diritti Umani)
Dopo sette settimane di bombardamenti.
“Sono 70700 BLU-97 le cluster bombs scaricate dagli Stati Uniti su gran parte del territorio dell’Afghanistan. Di queste, cinquemila cluster bombs sono inesplose e disseminate su vasta scala con danni e gravissimi rischi per la popolazione civile, per i rifugiati, per i volontari arruolati in questa situazione odierna in Afghanistan, fluida e senza controllo.
Il Pentagono deve por fine immediatamente a questo massacro indiscriminato nei confronti della popolazione civile. Deve assumersi la responsabilità dei danni e dei rischi ai quali sottopone civili innocenti non solo ora, ma in futuro. Gli Stati Uniti contravvengono al trattato internazionale della Convenzione di Ginevra secondo la quale è interdetto l’uso indiscriminato nei confronti della popolazione di armi messe al bando come le cluster bombs. Gli Stati Uniti non riconoscono come ‘illegale’ l’impiego delle cluster bombs” dichiara Mark Hiznay della sezione specializzata Arms Division di Human Rigts Watch, a Washington, interpellato da Il Manifesto.
“Le conseguenze e gli effetti di queste 70.000 cluster bombs esplose e delle restanti 5.000 ancora inesplose e disseminate in tutto l’Afghanistan le abbiamo testimoniate durante la ‘guerra umanitaria’ Nato in Kosovo. Con l’esplosione dell’ordigno, ognuna di queste cluster bombs al momento dell’impatto fa scoppiare 202 minibombe che fanno parte della composizione a grappolo. Si creano così dei micidiali frammenti multipli che una volta colpito l’organismo umano hanno degli effetti orribili e provocano mutilazioni devastanti. Ed è questo l’aspetto più grave come conseguenza su civili, bambini e chiunque ora entrerà in contatto con le 5.000 cluster bombs ancora inesplose sul territorio dell’Afghanistan”.
Queste si aggiungono ai circa 10 milioni di mine sparse dappertutto in Afghanistan”.
(Il Manifesto, 20 novembre 2001)
GENESI DEL TERRORISMO CHE SI COMBATTE IN AFGHANISTAN
“Ricordo ancora le colonne di camion color arancio, accuratamente sigillati, che da Quetta, Pakistan, percorrevano le strade polverose che portano a Spin Boldak, Afghanistan. Sulla fiancata, una grande scritta nera, NLC, National Logistic Cell, una compagnia di strasporti di proprietà del servizio segreto pakistano.
Dentro i camion armi, naturalmente, di ogni tipo.
Molte armi erano ‘russe’, o meglio copie esatte di armi sovietiche prodotte in una fabbrica messa in piedi dalla CIA non lontano dal Cairo e poi spedite dall’Egitto al Pakistan.
Non si sa mai, meglio non trovare armi USA in mano a tipi poco raccomandabili, e soprattutto che nessuno possa puntare il dito contro i campioni della libertà, per aver fornito armi al Pakistan…
Per anni Stati Uniti ed Arabia Saudita hanno praticato la tecnica del ‘matching funds’ – se tu metti un dollaro, o un miliardo di dollari, io ne metto altrettanti – per finanziare il reclutamento, l’armamento, l’addestramento dei combattenti della jihad, della guerra santa. E il Pakistan ha aperto le porte ai ‘fratelli’ musulmani desiderosi di raggiungere l’Afghanistan per battersi in nome dell’Islam.
Egiziani, sudanesi, palestinesi, algerini, irakeni, yemeniti, magrebini, persino filippini hanno raccolto l’appello, oltre beninteso a un gran numero di pakistani.
Per anni, bastava presentarsi all’ambasciata del Pakistan e dichiararsi volontari della Jihad per ottenere il biglietto aereo e un documento di viaggio: destinazione Peshawar, nel nord pakistano.
Ad attendere i volontari a Peshawar, prima di essere smistati nei vari campi di addestramento alle tecniche della guerriglia e del terrorismo, c’era, tra gli altri, un certo Osama Bin Laden…
Così, quando la notte di Natale del 1979 le truppe sovietiche attraversano l’Amu Darya, il mitico fiume Oxus che allora segnava il confine con l’URSS, la trappola è pronta.
Il Great game può continuare, la Guerra Fredda diventa guerra per procura, su commissione…è stata la dottrina di Henry Kissinger. E il grande massacro, con la posta in gioco diversa, continua tuttora…
Il risultato è che i sovietici se ne sono andati, sconfitti nella guerra per procura, mentre i vincitori, i mujaheddin – la guerra non l’anno ancora smessa dodici anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro l’hanno anche importata, al loro rientro, nei Paesi d’origine.
Già, è successo anche questo, che dall’Algeria alle Filippine, dalla Cecenia al Sudan – per citare solo alcuni casi – i veterani della Jihad afgana si sono messi a organizzare la loro Jihad casereccia.
E quel tale Osama, prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col dichiarare apertamente guerra…agli Stati Uniti!
E l’Afghanistan, in tutto questo? E gli afgani? Che cosa è successo a quel popolo di poco meno di venti milioni di persone?
1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000 di profughi”
Gino Strada
medico chirurgo fondatore di Emergency
(introduzione a G. Chiesa, “Vauro, Afghanistan anno zero”
NB: scritto prima della guerra in corso!)
IL TERRORISMO DI STATO
Brani scelti da un’intervista rilasciata da Rigoberta Menchù, nel corso di una sua visita negli Stati Uniti assieme ad altri premi Nobel per incontrare Kofi Annan segretario generale dell’ONU (pubblicata sul quotidiano cileno “El Siglo” il 4/11/01)
“Fin dal primo momento ho condannato energicamente questi atti criminali (11 settembre). Nessuno può giustificare, per nessun motivo, la strage indiscriminata di civili indifesi. Nessuna causa o bandiera può giustificare l’uso del terrore assassino contro donne e bambini …Non sono un’osservatrice imparziale, sono una sopravvissuta del terrorismo e proprio per questo il mio atteggiamento di condanna è così categorico. Anche per questo esigo che gli Stati e le società civili nel mondo si oppongano drasticamente a qualunque forma di terrorismo, sia che provenga da gruppi che dagli stessi Stati. Quello che non vale è l’ipocrisia e la doppia morale di coloro che condannano una forma di terrorismo nello stesso tempo in cui cercano di giustificare il terrore degli Stati…
Il terrorismo esercitato dai governi militari nel mio Paese mi ha strappato mio padre, mia madre i miei fratelli Victor e Patrocinio e mia cognata Maria. Ed essi sono appena una piccola parte delle otre 200.000 vittime del genocidio commesso in Guatemala. Per questo offende la nostra dignità il fatto che colui che si crede il presidente del pianeta ci dica “O con noi o con i terroristi”. Le più alte autorità degli Stati Uniti pretendono di ignorare che proprio loro addestrarono, armarono, finanziarono e sostennero le menti insane che oggi si rivolgono contro di loro; cercano di occultare che i genocidi commessi nella seconda metà del XX secolo in America Latina e in altre parti del mondo nella maggior parte dei casi contarono sull’approvazione, l’appoggio e la consulenza di Washington….
Questi crimini del terrorismo di Stato sono cominciati nel mio Paese 7 anni prima del golpe di Pinochet e 10 anni prima dell’inizio della dittatura argentina. Il cerchio si è chiuso, all’inizio degli anni ’80, con l’invio dei consiglieri militari cileni e argentini in Guatemala. Questi ‘ambasciatori del terrore’ hanno portato nel mio Paese le esperienze più sofisticate in tecniche di controllo dei cittadini, sequestro e tortura degli oppositori; in tutte queste arti dell’orrore che vengono elegantemente chiamate ‘intelligence militare’. In tutto questo processo, dall’inizio alla fine, è presente la consulenza, l’addestramento, il finanziamento e l’equipaggiamento da parte del governo degli Stati Uniti. Il ruolo diretto e personale che giocarono personaggi come Henry Kissiger o Veron Walters è chiaramente documentato…
Fino al giorno prima degli attentati terroristici a New York e Washington, vari governi e alcuni dei grandi mezzi di comunicazione nel mondo ci criticavano per volere il processo e il castigo per i responsabili del genocidio e del terrore pianificati dagli Stati; ci accusavano di cercare la vendetta e pretendevano da noi che optassimo per il perdono e l’oblio. Ora, essi invocano un presunto diritto alla vendetta, passando sopra qualunque principio o meccanismo giuridico…”.
Riferendosi alla guerra in Afghanistan Rigoberta afferma:
“Ci troviamo di fronte all’ingiustizia inqualificabile rappresentata dal fatto che le nazioni più ricche e potenti del mondo hanno unito la loro più alta tecnologia ed il loro apparato militare per attaccare uno dei popoli più poveri della terra. Offende l’intelligenza di quanti nel mondo pensiamo con la nostra testa il fatto che gli Stati Uniti e le grandi potenze intendano farci credere che, per perseguire un gruppo di terroristi, si giustifichi la distruzione di interi villaggi, l’attacco alla popolazione civile nelle città e la distruzione di edifici come quelli delle Nazioni Unite o della Croce rossa di Kabul.
Rispondendo al terrore di gruppi fanatici con il gigantesco terrore istituzionale degli Stati più potenti, si sta imponendo all’umanità una logica perversa. La brutale aggressione contro il popolo dell’Afghanistan, che viola ogni legalità internazionale, non può essere giustificata in nessun modo”.
RIGOBERTA MENCHÙ
(ADISTA 84/2001)
CONTRO LA GUERRA: SEMPRE
La guerra scatenata in Afghanistan è ormai diventata una notizia di terza pagina. Una popolazione già debilitata da un regime di fanatici religiosi, fino a ieri servi armati dagli americani, è da mesi sotto bombardamento. Ma le notizie dei morti civili che arrivano quotidianamente sembrano non provocare più turbamenti. Stiamo assistendo alla inoculazione e al trionfo del “principio di indifferenza”.
Le guerre sono un elemento costitutivo dell’”ordine mondiale” che ci stanno imponendo. Per questo esso programma la rimozione di massa degli orrori che esse generano. Scorreranno sempre più fiumi di sangue e dovremo imparare a non avere più pietà per nessuno. Sopportando anche la lampante evidenza che in questa guerra le nazioni più forti e ricche del mondo si stanno scatenando sulle zone più povere e immiserite del pianeta. Chi pensa che un mondo diverso è necessario deve sapere che finchè sono al potere i “cannibali” la storia si ciberà di carne umana: la carne degli sfruttati, dei morti di fame, dei bombardati, di quelli manovrati a scannarsi gli uni contro gli altri per interessi altrui. Oggi il pretesto del terrorismo, figlio della stessa violenza imposta dalla globalizza-zione imperialista, serve per nascondere che il capitalismo è il regime cannibalesco che genera e genererà sempre guerre. Con qualsiasi pretesto e in qualsiasi parte del mondo.
A cura di SANDRO ARTIOLI
e ROBERTO FIORINI
Sguardi dalla stiva
a cura di Sandro Artioli e Roberto Fiorini
Si riportano alcuni testi di autori americani con lo scopo di documentare che anche nel paese colpito dagli atti di terrorismo dell’11 settembre vi è una opinione pubblica non allineata, anzi profondamente dissenziente dall’unico punto di vista che domina la scena dei media statunitensi ed occidentali.
(1) Progetto imperiale
Un anno fa negli USA veniva pubblicato “Blowback. Il costo e le conseguenze dell’impero americano” un libro scritto da Chalmers Johnson un convinto anticomunista, negli anni ’60 fautore della guerra in Vietnam. Di sé scrive nella prefazione:
“In quegli anni ero irritato dalla protesta degli studenti…In realtà loro stavano capendo molto meglio di me le motivazioni profonde di un Robert McNamara, di un Walt Rostow. Coglievano un elemento essenziale del ruolo imperiale dell’America nel mondo che a me sfuggiva”.
È un messaggio agli americani su un punto decisivo, sul quale essi sono ignari:
“Ci esimiamo dall’essere coscienti di come possiamo apparire al resto del mondo. La maggior parte degli americani non è conscia di come Washington esercita la sua egemonia globale, visto che tanta parte di queste attività si svolge in segreto o sotto diciture consolanti…Ma solo se riusciamo a vedere il nostro paese come qualcosa che insieme trae profitto ed è intrappolato dalle strutture di un impero in costruzione, riusciremo a spiegarci molti elementi del resto del mondo che altrimenti ci lasciano perplessi”.
“Dieci anni dopo la fine della guerra fredda, centinaia di migliaia di soldati americani, dotati dell’armamento più avanzato del mondo, incluse armi atomiche, sono stanziati in più di 61 basi in 19 paesi, se si usa la definizione più restrittiva data dal Dipartimento della difesa per definire una ‘grande installazione’; ma se s’include ogni installazione che ospiti rappresentanti delle Forse Armate Usa, allora il numero sale a 800 basi. Naturalmente non ci sono basi italiane negli Stati Uniti. Il solo pensiero sarebbe ridicolo. Né, se per questo, ci sono basi tedesche, indonesiane, russe greche o giapponesi di stanza sul suolo italiano. Per di più l’Italia è una stretta alleata degli Usa e non c’è nessuna nazione che sia una verosimile minaccia per le sue rive. Tutto ciò è fin troppo facile da constatare. Semplicemente non è materia di discussione, e ancor meno di dibattito, nella terra dell’ultimo potere imperiale. Probabilmente questo modo di pensare è una seconda natura per ogni impero. Può darsi che i Romani non trovassero strano avere truppe in Gallia, né gli Inglesi in Sud Africa…”.
La stessa cosa vale per altri paesi che sono sotto occupazione americana: Gran Bretagna, Germania, Spagna, Turchia, Arabia Saudita, Filippine, Giappone, Corea del Sud.
“Gli imperi più moderni sono di solito celati da qualche concetto ideologico e giuridico – commowelt, alleanza, mondo libero, occidente, blocco comunista – che maschera le relazioni concrete dei suoi membri”.
Il libro inizia con la strage della funivia del Cermis, con l’assoluzione dei piloti ed il rifiuto di risarcire le famiglie. Ma è tutt’altro che un caso isolato: gli stupri impuniti delle ragazzine giapponesi da parte di marines Usa a Okinawa, il peschereccio giapponese affondato da un sottomarino atomico in emersione…
“Tipica di un popolo imperiale la memoria corta dei propri più spiacevoli atti imperiali, ma per chi li subisce la memoria può essere molto più lunga”.
“Dalla fine della guerra fredda, per perseguire la propria politica estera gli Stati Uniti hanno smesso quasi del tutto di affidarsi alla diplomazia, all’aiuto economico, alla legge internazionale, alle istituzioni internazionali e si sono affidati sempre più al pugno sul tavolo, alla forza militare e alla manipolazione finanziaria”.
Nel 1998 Madeleine Albright, segretario di stato, diceva: “Se dobbiamo usare la forza è perché noi siamo l’America. Siamo la nazione indispensabile. Noi ci ergiamo alti. Noi vediamo più lontano nel futuro”.
A questo punto ecco il Blowback che si potrebbe tradurre con boomerang.
“Blowback è un’abbreviazione per dire che una nazione miete ciò che ha seminato, anche se non capisce cosa ha seminato. Con la loro ricchezza e il loro potere, gli Usa saranno il primo e principale oggetto di tutte le più prevedibili forme di blowback, in particolare attacchi terroristici, anche sul territorio Usa. Ma la vera minaccia è il blowback nel senso più lato – il costo tangibile di un impero – perché gli imperi sono imprese carissime. La deindustrializzazione degli Usa è un’involontaria conseguenza negativa della politica americana. Un altro esempio è il militarismo in una società che una volta era democratica. È l’impero che fa problema. Più i progetti sono imperialisti, più provocano blowbacks”
(Informazione e traduzione testi da Marco d’Eramo in
Il manifesto, 20 novembre 2001).
(2) Ancora sull’impero
“Ritengo che lo spreco dissoluto delle nostre risorse in inutili sistemi di armamenti e il crollo economico dell’Asia, così come l’ininterrotta catena di “incidenti” militari e di attacchi terroristici alle installazioni e ambasciate americane, siano tutti presagi di una crisi che nel XXI secolo si abbatterà sull’informale impero americano, un impero fondato sulla proiezione del potere militare in ogni angolo del mondo e sull’impiego del capitale e del mercato americano per imporre l’integrazione economica globale alle nostre condizioni senza alcun riguardo per il prezzo che ciò comporta agli altri. Prevedere il futuro è un’impresa che nessun uomo con un briciolo di buon senso si azzarderebbe a rischiare. È impossibile indovinare quale forma assumerà la crisi del nostro impero da qui a qualche anno, o forse qualche decennio. Ma la storia insegna che per tutti gli imperi questo momento prima o poi arriva, ed è irragionevole pensare che l’America possa miracolosamente sfuggire al proprio destino.
Ciò di cui siamo totalmente privi, tuttavia, è la benché minima consapevolezza di come possiamo apparire agli occhi delle altre nazioni della terra. La gran parte degli americani non è probabilmente a conoscenza dei modi attraverso cui Washington esercita la propria egemonia sul globo, dal momento che gran parte della sua attività viene espletata in relativa segretezza o mascherata sotto edificanti programmi. Molti potrebbero in un primo momento far fatica a credere che la nostra posizione nel mondo sia equiparabile a un impero. Tuttavia, solo considerandoci un paese che trae profitto dall’impero che ha creato ma nelle cui strutture è rimasto al contempo intrappolato possiamo spiegarci molti aspetti del mondo altrimenti destinati a rimanerci oscuri.”
(Citazione da “Gli ultimi giorni dell’impero americano”
di Chalmers Johnson, Garzanti, Milano 2001)
(3) Sul terrorismo
Gore Vidal, scrittore americano, in una breve raccolta di saggi dal titolo “La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo, Roma 2001, pubblicato in Italia, dopo che negli USA erano state chiuse le porte alla pubblicazione, riporta un brano di un articolo di Arno J. Mayer, professore emerito di Storia a Princeton, comparso su Le Mond, dopo che nessun giornale americano aveva accettato di pubblicarlo.
“In epoca moderna, fino ad oggi, gli atti di terrore individuale sono stati l’arma dei deboli e dei poveri, mentre gli atti di terrore economico e di stato sono stati l’arma dei forti. In ambedue le forme occorre naturalmente distinguere tra obiettivi e vittime. Questa distinzione è quanto mai chiara al riguardo del fatale attacco al World Trade Center: l’obiettivo è uno dei maggiori simboli e fulcri del potere economico e finanziario globale; la vittima è la forza-lavoro sventurata e (parzialmente) subalterna. La distinzione non si applica al Pentagono, il comando militare supremo – l’ultima ratio regum – della globalizzazione capitalista, anche se ha provocato, per utilizzare il linguaggio del Pentagono danni “collaterali” in termini di vite umane.
A conti fatti, dal 1947, gli Stati Uniti sono stati all’avanguardia e il principale esecutore del terrore “preventivo” di Stato, agendo però esclusivamente nel “Terzo Mondo” e dunque in maniera notevolmente dissimulata. Oltre ai consueti colpi di Stato durante la guerra fredda, operati in competizione con l’Unione Sovietica, Washington ha fatto ricorso all’assassinio politico, a squadroni della morte e a riprovevoli paladini della libertà (fra i quali Bin Laden). Ha orchestrato l’uccisione di Lumumba e Allende; ha provato a fare lo stesso con Castro, Gheddafi e Saddam Hussein; ha posto il proprio veto contro qualunque sforzo di mettere un freno non solo alle violazioni di accordi internazionali e risoluzioni ONU da parte di Israele, ma anche al terrore preventivo che questo Stato ha esercitato”, (pp. 7-8).
(4) Denuncia dell’Human Right Watch americano (Osservatorio dei Diritti Umani)
Dopo sette settimane di bombardamenti
“Sono 70700 BLU-97 le cluster bombs scaricate dagli Stati Uniti su gran parte del territorio dell’Afghanistan. Di queste, cinquemila cluster bombs sono inesplose e disseminate su vasta scala con danni e gravissimi rischi per la popolazione civile, per i rifugiati, per i volontari arruolati in questa situazione odierna in Afghanistan, fluida e senza controllo.
Il Pentagono deve por fine immediatamente a questo massacro indiscriminato nei confronti della popolazione civile. Deve assumersi la responsabilità dei danni e dei rischi ai quali sottopone civili innocenti non solo ora, ma in futuro. Gli Stati Uniti contravvengono al trattato internazionale della Convenzione di Ginevra secondo la quale è interdetto l’uso indiscriminato nei confronti della popolazione di armi messe al bando come le cluster bombs. Gli Stati Uniti non riconoscono come ‘illegale’ l’impiego delle cluster bombs” dichiara Mark Hiznay della sezione specializzata Arms Division di Human Rigts Watch, a Washington, interpellato da Il Manifesto.
“Le conseguenze e gli effetti di queste 70.000 cluster bombs esplose e delle restanti 5.000 ancora inesplose e disseminate in tutto l’Afghanistan le abbiamo testimoniate durante la ‘guerra umanitaria’ Nato in Kosovo. Con l’esplosione dell’ordigno, ognuna di queste cluster bombs al momento dell’impatto fa scoppiare 202 minibombe che fanno parte della composizione a grappolo. Si creano così dei micidiali frammenti multipli che una volta colpito l’organismo umano hanno degli effetti orribili e provocano mutilazioni devastanti. Ed è questo l’aspetto più grave come conseguenza su civili, bambini e chiunque ora entrerà in contatto con le 5.000 cluster bombs ancora inesplose sul territorio dell’Afghanistan”.
Queste si aggiungono ai circa 10 milioni di mine sparse dappertutto in Afghanistan”.
(Il Manifesto, 20 novembre 2001)
Genesi del terrorismo che si combatte
IN AFGHANISTAN
“Ricordo ancora le colonne di camion color arancio, accuratamente sigillati, che da Quetta, Pakistan, percorrevano le strade polverose che portano a Spin Boldak, Afghanistan. Sulla fiancata, una grande scritta nera, NLC, National Logistic Cell, una compagnia di strasporti di proprietà del servizio segreto pakistano.
Dentro i camion armi, naturalmente, di ogni tipo.
Molte armi erano ‘russe’, o meglio copie esatte di armi sovietiche prodotte in una fabbrica messa in piedi dalla CIA non lontano dal Cairo e poi spedite dall’Egitto al Pakistan.
Non si sa mai, meglio non trovare armi USA in mano a tipi poco raccomandabili, e soprattutto che nessuno possa puntare il dito contro i campioni della libertà, per aver fornito armi al Pakistan…
Per anni Stati Uniti ed Arabia Saudita hanno praticato la tecnica del ‘matching funds’ – se tu metti un dollaro, o un miliardo di dollari, io ne metto altrettanti – per finanziare il reclutamento, l’armamento, l’addestramento dei combattenti della jihad, della guerra santa. E il Pakistan ha aperto le porte ai ‘fratelli’ musulmani desiderosi di raggiungere l’Afghanistan per battersi in nome dell’Islam.
Egiziani, sudanesi, palestinesi, algerini, irakeni, yemeniti, magrebini, persino filippini hanno raccolto l’appello, oltre beninteso a un gran numero di pakistani.
Per anni, bastava presentarsi all’ambasciata del Pakistan e dichiararsi volontari della Jihad per ottenere il biglietto aereo e un documento di viaggio: destinazione Peshawar, nel nord pakistano.
Ad attendere i volontari a Peshawar, prima di essere smistati nei vari campi di addestramento alle tecniche della guerriglia e del terrorismo, c’era, tra gli altri, un certo Osama Bin Laden…
Così, quando la notte di Natale del 1979 le truppe sovietiche attraversano l’Amu Darya, il mitico fiume Oxus che allora segnava il confine con l’URSS, la trappola è pronta.
Il Great game può continuare, la Guerra Fredda diventa guerra per procura, su commissione…è stata la dottrina di Henry Kissinger. E il grande massacro, con la posta in gioco diversa, continua tuttora…
Il risultato è che i sovietici se ne sono andati, sconfitti nella guerra per procura, mentre i vincitori, i mujaheddin – la guerra non l’anno ancora smessa dodici anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro l’hanno anche importata, al loro rientro, nei Paesi d’origine.
Già, è successo anche questo, che dall’Algeria alle Filippine, dalla Cecenia al Sudan – per citare solo alcuni casi – i veterani della Jihad afgana si sono messi a organizzare la loro Jihad casereccia.
E quel tale Osama, prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col dichiarare apertamente guerra…agli Stati Uniti!
E l’Afghanistan, in tutto questo? E gli afgani? Che cosa è successo a quel popolo di poco meno di venti milioni di persone?
1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000 di profughi”
(Gino Strada, medico chirurgo fondatore di Emergency,
introduzione a G. Chiesa, “Vauro, Afghanistan anno zero”
NB: scritto prima della guerra in corso!)
IL TERRORISMO DI STATO
Brani scelti da un’intervista rilasciata da Rigoberta Menchù, nel corso di una sua visita negli Stati Uniti assieme ad altri premi Nobel per incontrare Kofi Annan segretario generale dell’ONU (pubblicata sul quotidiano cileno “El Siglo” il 4/11/01)
“Fin dal primo momento ho condannato energicamente questi atti criminali (11 settembre). Nessuno può giustificare, per nessun motivo, la strage indiscriminata di civili indifesi. Nessuna causa o bandiera può giustificare l’uso del terrore assassino contro donne e bambini …Non sono un’osservatrice imparziale, sono una sopravvissuta del terrorismo e proprio per questo il mio atteggiamento di condanna è così categorico. Anche per questo esigo che gli Stati e le società civili nel mondo si oppongano drasticamente a qualunque forma di terrorismo, sia che provenga da gruppi che dagli stessi Stati. Quello che non vale è l’ipocrisia e la doppia morale di coloro che condannano una forma di terrorismo nello stesso tempo in cui cercano di giustificare il terrore degli Stati…
Il terrorismo esercitato dai governi militari nel mio Paese mi ha strappato mio padre, mia madre i miei fratelli Victor e Patrocinio e mia cognata Maria. Ed essi sono appena una piccola parte delle otre 200.000 vittime del genocidio commesso in Guatemala. Per questo offende la nostra dignità il fatto che colui che si crede il presidente del pianeta ci dica “O con noi o con i terroristi”. Le più alte autorità degli Stati Uniti pretendono di ignorare che proprio loro addestrarono, armarono, finanziarono e sostennero le menti insane che oggi si rivolgono contro di loro; cercano di occultare che i genocidi commessi nella seconda metà del XX secolo in America Latina e in altre parti del mondo nella maggior parte dei casi contarono sull’approvazione, l’appoggio e la consulenza di Washington….
Questi crimini del terrorismo di Stato sono cominciati nel mio Paese 7 anni prima del golpe di Pinochet e 10 anni prima dell’inizio della dittatura argentina. Il cerchio si è chiuso, all’inizio degli anni ’80, con l’invio dei consiglieri militari cileni e argentini in Guatemala. Questi ‘ambasciatori del terrore’ hanno portato nel mio Paese le esperienze più sofisticate in tecniche di controllo dei cittadini, sequestro e tortura degli oppositori; in tutte queste arti dell’orrore che vengono elegantemente chiamate ‘intelligence militare’. In tutto questo processo, dall’inizio alla fine, è presente la consulenza, l’addestramento, il finanziamento e l’equipaggiamento da parte del governo degli Stati Uniti. Il ruolo diretto e personale che giocarono personaggi come Henry Kissiger o Veron Walters è chiaramente documentato…
Fino al giorno prima degli attentati terroristici a New York e Washington, vari governi e alcuni dei grandi mezzi di comunicazione nel mondo ci criticavano per volere il processo e il castigo per i responsabili del genocidio e del terrore pianificati dagli Stati; ci accusavano di cercare la vendetta e pretendevano da noi che optassimo per il perdono e l’oblio. Ora, essi invocano un presunto diritto alla vendetta, passando sopra qualunque principio o meccanismo giuridico…”.
Riferendosi alla guerra in Afghanistan Rigoberta afferma:
“Ci troviamo di fronte all’ingiustizia inqualificabile rappresentata dal fatto che le nazioni più ricche e potenti del mondo hanno unito la loro più alta tecnologia ed il loro apparato militare per attaccare uno dei popoli più poveri della terra. Offende l’intelligenza di quanti nel mondo pensiamo con la nostra testa il fatto che gli Stati Uniti e le grandi potenze intendano farci credere che, per perseguire un gruppo di terroristi, si giustifichi la distruzione di interi villaggi, l’attacco alla popolazione civile nelle città e la distruzione di edifici come quelli delle Nazioni Unite o della Croce rossa di Kabul.
Rispondendo al terrore di gruppi fanatici con il gigantesco terrore istituzionale degli Stati più potenti, si sta imponendo all’umanità una logica perversa. La brutale aggressione contro il popolo dell’Afghanistan, che viola ogni legalità internazionale, non può essere giustificata in nessun modo”.
(ADISTA 84/2001)
CONTRO LA GUERRA: SEMPRE
La guerra scatenata in Afghanistan è ormai diventata una notizia di terza pagina. Una popolazione già debilitata da un regime di fanatici religiosi, fino a ieri servi armati dagli americani, è da mesi sotto bombardamento. Ma le notizie dei morti civili che arrivano quotidianamente sembrano non provocare più turbamenti. Stiamo assistendo alla inoculazione e al trionfo del “principio di indifferenza”.
Le guerre sono un elemento costitutivo dell’”ordine mondiale” che ci stanno imponendo. Per questo esso programma la rimozione di massa degli orrori che esse generano. Scorreranno sempre più fiumi di sangue e dovremo imparare a non avere più pietà per nessuno. Sopportando anche la lampante evidenza che in questa guerra le nazioni più forti e ricche del mondo si stanno scatenando sulle zone più povere e immiserite del pianeta. Chi pensa che un mondo diverso è necessario deve sapere che finchè sono al potere i “cannibali” la storia si ciberà di carne umana: la carne degli sfruttati, dei morti di fame, dei bombardati, di quelli manovrati a scannarsi gli uni contro gli altri per interessi altrui. Oggi il pretesto del terrorismo, figlio della stessa violenza imposta dalla globalizza-zione imperialista, serve per nascondere che il capitalismo è il regime cannibalesco che genera e genererà sempre guerre. Con qualsiasi pretesto e in qualsiasi parte del mondo.