Vegliare in tempo di guerra


 

Dall’omelia del Card. Carlo Maria Martini
tenuta in S. Ambrogio il 6 dicembre 2001

 

Sono molte le domande che si pone oggi l’uomo della strada di fronte alle notizie e alle immagini televisive di questi mesi e di questi giorni. La prima riguarda gli autori dei gesti di terrorismo, a partire dai più clamorosi e micidiali, in particolare quelli connessi col suicidio dell’attentatore, ed è la domanda sul “perché”. Ci si chiede in quali oscuri meandri della coscienza possono albergare tali sentimenti di odio, di fanatismo politico e religioso, quali sentimenti personali e sensi di umiliazione collettiva possono essere radici di simili folli decisioni.
Ma ci dobbiamo anche chiedere: ci siamo noi tutti davvero resi conto nel passato, rispetto ad altre persone e popoli, quanto grandi ed esplosivi potessero a poco a poco divenire questi risentimenti e quanto nei nostri comportamenti potesse contribuire, e contribuisse di fatto, ad attizzare nel silenzio vampate di ribellione e di odio?
Ma non posso, a proposito di questa prima domanda, non sottolineare anche la tremenda responsabilità di chi, magari dotato di grandi mezzi di fortuna, ha imparato a sfruttare questi risentimenti e li fornisce di strumenti di morte, finanziando i terroristi in ogni parte del mondo, forse anche vicino a noi. Emerge nel cuore della gente anche una seconda domanda, di natura politica e militare: Il tipo di operazioni che si vanno facendo contro il terrorismo sarà efficace? Anche a questa domanda non osiamo dare una risposta. Essa è però connessa strettamente con la seguente.
La terza domanda è infatti di tipo etico: ciò che si è fatto e si sta facendo contro il terrorismo rimane nei limiti della legittima difesa, o presenta la figura, almeno in alcuni casi, della ritorsione, dell’eccesso di violenza, della vendetta? È chiaro che il diritto della legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure nel nome di un principio evangelico. Ma occorre una continua vigilanza e un costante dominio su di sé e delle proprie passioni individuali e collettive per far sì che nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la volontà della rivalsa e la dismisura della vendetta. Si era avuta l’impressione che questi principi di cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai terribili attentati dell’11 settembre. Ma ora a che punto siamo? Non ha forse l’ansia di vittoria e il dinamismo della violenza preso la mano, diminuendo la soglia di vigilanza sulle azioni di guerra che potrebbero essere non strettamente necessarie rispetto agli obiettivi originari e soprattutto colpire popolazioni inermi? È qui che il principio della legittima difesa viene messo gravemente in questione: esso non può essere impunemente scavalcato senza creare più odi e conflitti di quanto non pretenda risolverne. Sembra questo in particolare il caso, è doloroso dirlo, di quanto continua a succedere in maniera crescente in Medio Oriente. Da una parte un terrorismo folle e suicida contro cittadini pacifici e anche tanti bambini, un terrorismo che non conduce da nessuna parte e che suscita un crescente di ira, indignazione ed orrore. Dall’altra atti di rappresaglia che è difficile definire ancora come operazioni di legittima difesa, che colpiscono popolazioni inermi, e anche qui tanti bambini. Vi si aggiungono in più vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali anche l’osservatore più imparziale e sinceramente desideroso e convinto del bisogno di una piena sicurezza per il paese che così agisce, non riesce più a cogliere quale sia quella strategia della pace e della sicurezza che pure è sempre nel desiderio di tutto quel popolo la cui sopravvivenza è essenziale per il futuro della pace nella regione e nel mondo.

C’è un’ulteriore domanda. Molto semplice, evangelica. Suona così: che cosa ci direbbe oggi Gesù su quanto abbiamo evocato fin qui? Che cosa ci suggerirebbe nello spirito del Discorso della Montagna, nel quadro delle beatitudini dei misericordiosi e degli operatori di pace? Gesù rimanda alla radice profonda di tutti questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di ciascuno con la violenza e il male, ripetendo per ben due volte: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Egli invita a cercare in ciascuno di noi i segni della nostra complicità con l’ingiustizia. Ci ammonisce a non limitarsi a sradicarla qui o là, ma a cambiare scala di valori, a cambiare vita. Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne porta le conseguenze. Per questo Gesù disse a Pietro che tentava di difenderlo con la forza quando vennero per arrestarlo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che metteranno mano alla spada periranno di spada». Gesù sa che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole situazioni. Ma gli importa molto di più segnalare che tutti gli sforzi umani di distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male stanno dentro, nel cuore nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione, che è connivente con l’ingiustizia.
Anche se lasciamo al Signore della storia il calcolo dei tempi, sappiamo che è ben possibile che maturi di nuovo in Occidente, forse proprio sotto la spinta di eventi così drammatici, la percezione che è necessario un cambio di vita, l’adozione di una nuova scala di valori. In un articolo recente si parlava, a proposito di tale riconoscimento, di «Apocalisse», nel senso etimologico di un «alzare il velo» di «una rivelazione» (Enzo Bianchi, Le apocalissi dell’11 settembre La Repubblica, 27.10.01). In questo contesto si tratta di una rivelazione del male in cui siamo immersi, dell’assurdità di una società il cui dio è il denaro, la cui legge è il successo e il cui tempo è scandito dagli orari di apertura delle borse mondiali.
Una società che giunge quasi al ridicolo nella sua ricerca affannosa di investimenti virtuali, di transazioni puramente mediatiche e che pretende di esportare messianicamente questo modo di vedere in tutto il mondo. È questa la globalizzazione che è giusto rifiutare. Se ciò vale per l’economia e la politica, perché non dovrebbero aprirsi anche nel campo della moralità nuovi spazi per un rinnovato impegno di serietà e di giustizia per una ricerca del significato profondo della vita, per una maggiore apertura sul mistero di Dio? Ma non è così importante sapere se ciò si avvererà presto. In fondo, come diceva Bonhoeffer: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: “come me la cavo eroicamente in questo affare”, ma: “quale potrà essere la vita per la generazione che viene?”. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde».
La pace è il più grande bene umano, perché è la somma di tutti i beni messianici. Come la pace è sintesi e simbolo di tutti i beni, così la guerra è sintesi e simbolo di tutti i mali. Non si può mai volere la guerra per se stessa, perché è sistematica violazione di sostanziali diritti umani. Vi saranno al limite casi di legittima difesa di beni irrinunciabili. Però il contrasto all’azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve restare nei limiti strettamente necessari per difendersi efficacemente. Potranno anche essere necessarie coraggiose azioni di «ingerenza umanitaria» e interventi volti alla restituzione e al mantenimento della pace in una situazione a gravissimo rischio. Ma non saranno ancora la pace.
Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, armistizio. Pace è frutto di alleanze durature e sincere, ( enduring covenants e non solo enduring freedom ), a partire dall’Alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l’uomo. In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno vede nell’altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo splendore della Trinità. Può dire al fratello: tu sei sommamente importante per me, ciò che mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il bene dell’umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell’etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell’umanità intera: questa è la pace. Ogni azione contro questo «bene comune», questo «interesse generale» affonda le radici nella paura, nell’invidia e nella differenza. Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera storia e superstoria di grazia per compiere questo cammino. Ma è questa la pace che è meta della vicenda umana.

Carlo Maria Martini

(“La Repubblica”, venerdì 7 dicembre 2001)


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