Incontro PO italiani ed amici
Viareggio, 20-21 aprile 2002


 

Venerdì santo 2002. Alla guida di un ducato con cui trasporto i libri del prestito interbibliotecario. I miei pensieri vanno ad altri tridui pasquali vissuti diversamente. Giorni silenziosi, di riflessione sulla morte e risurrezione del Cristo. Tacevano le parole banali ed il cuore si concentrava sull’essenziale; digiunavo del pane per accogliere la parola che esce dalla bocca di Dio.Oggi sono immerso nel traffico metropolitano, nei rumori della città, tra le chiacchiere delle persone, incapaci di silenzio persino nelle biblioteche. Mentre sono nell’abitacolo del furgone provo a concatenare pensieri, continuamente interrotti da mille distrazioni. Intravedo da una parte lo stacco dalla quotidianità, la concentrazione che permette l’attrazione del cuore: una condizione di silenzio che parla, di ascolto di una parola che interpella; dall’altra c’è l’immersione nel quotidiano, la dispersione su mille fronti: si odono tante parole che non parlano, non interpellano. Dunque, c’è un silenzio pensoso che parla ed una parola-chiacchiera che non dice niente. Inevitabile il giudizio positivo sul primo e la problematizzazione della seconda.Eppure Gesù di Nazaret vive la sua “ora” tra le urla degli accusatori, le chiacchiere dei passanti, le proteste del corpo sofferente. Il Golgota non è un chiostro: è il luogo in cui si sperimenta l’essere in balìa di altri e di quell’Altro, per eccellenza, che non è Dio – scandalosamente assente – bensì la morte!Certo, prima c’è il Getsemani e prima ancora il ritirarsi in luoghi desertici. L’incarnazione, la condivisione Gesù non le confonde con l’alienazione inautentica. I tempi dell’ascolto, della consapevolezza e della decisione li ha difesi strenuamente. E tuttavia la verità della sua vita Gesù se la gioca sulla scena rischiosa della storia, con quel suo intollerabile mischiare momenti alti e meschinità, possibilità di perseguire un progetto e violento spossessamento del proprio sogno.Mi sono sempre immaginato l’ultimo atto di una vita, quello in cui una persona consegna ciò che ha colto come essenziale, ultimativo nella figura tranquilla e pensosa della stesura del testamento. Lì tace il penultimo e si ode il linguaggio solenne della rivelazione delle cose ultime. Il Venerdì santo, invece, mi sembra che evochi un “ultimum” espresso nella dispersione e nel dramma di una vicenda a più voci, attraversata dal dubbio, dalla sensazione dell’abbandono verticale ed orizzontale, soffocato dalle chiacchiere altrui e dalle debolezze proprie…La storia – come ha intuito il Qoelet – sembra irridere ciò che noi poniamo come ultimativo!
È in un clima simile che ho iniziato a riflettere sull’ultimum.
E nel domandarmi cosa sia ultimativo, decisivo, irrinunciabile, i fili della mia trama personale si sono intrecciati con quelli più vasti della trama sociale. Sono “figlio del mio tempo”, anche nei tentativi (più mentali che reali) di andare controcorrente.
Mi sembra che il presente sia tempo di crisi. Crisi dei criteri ultimi. Dietro la retorica della crisi delle ideologie, della modernità ecc. emerge il dato reale di crisi di ciò che è ultimativo, con conseguente resa al cinismo postmoderno o, al contrario, con un recupero fondamentalista del religioso.
Secondo l’opinione invalsa, il 1989 segna uno spartiacque decisivo. Rappresenterebbe la data simbolo della destituzione dei grandi racconti ideologici (al plurale) e del grande racconto della modernità (al singolare). Dice, per esempio, V. Vitiello: “Mi piace paragonare la nostra condizione storica a quella della prima metà del Cinquecento, quando la cristianità europea, lacerata negli animi e nei corpi, nella religione e nella politica, si volse indietro, e per comprendere il suo presente tornò ad interrogarsi, con Lutero e Müntzer, Calvino e Melantone sul sogno di Nabucodonosor, sul crollo della grande statua dai piedi di argilla, raffigurante l’Impero. Possiamo noi oggi riprendere il tema, chiedendoci se sono caduti, l’uno dopo l’altro, soltanto altri imperi, più nuovi e tremendi, o nell’immagine del crollo della statua è da vedere dell’altro ancora? Possiamo, se riusciamo ad essere all’altezza del nostro presente. Se comprendiamo anzitutto che il 1989 non chiude soltanto il nostro secolo breve, iniziato nel 1914, o nel 1917; chiude un più ampio saeculum, un più ampio evo. Che è iniziato nel 1789. Talora i numeri si richiamano simbolicamente. Il mondo, l’evo, il saeculum, racchiuso in queste due date simboliche, è segnato da un grande sogno: grande ma umano, troppo umano. Il sogno di realizzare in questo nostro mondo il Regno. Non aggiungo: di Dio. Perché la grande illusione fu quella di realizzare il Regno dell’uomo. L’etica è questo sogno, questa illusione: che il Regno è dell’uomo”.
Non che il filo della mia vita si sovrapponga perfettamente a questo clima. Però ne respira l’aria…
Cerco di nutrire pensieri, parole ed opere segnate dalla speranza del riscatto umano dal male (che è legione!); provo a tenere viva la passione per la giustizia degli oppressi, dei perdenti; tento di interrogarmi sull’evangelicità delle scelte personali… Tentativi che non sempre giungono a buon fine per le innumerevoli rese alle incoerenze soggettive, all’inerzia al clima culturale, agli spiazzamenti della vita. Tentativi che, comunque, provo continuamente a porre nell’ambito di una “fede tragica”, che si ostina a prendere sul serio le luminose promesse di Dio pur vivendo nel buio dell’ingiustizia sociale e nel silenzio della parola salvifica. Non è più una fede a tutto tondo, nella quale l’ultimum risuona come chiara parola d’ordine da tradurre con atteggiamento militante. È fede disperata, arrischiata nonostante tutto…
È adesione storica ad una parola originaria che resiste al fluire indifferente del tempo: “è questa resistenza, risvegliata dentro al tempo stesso, contro il tempo come vuoto fluire, che nella storia diretta in avanti è sempre di nuovo condannata a fallire, quella che, in quanto sempre di nuovo si leva nella storia, è la sola a creare storia nel senso autentico del termine. Siccome il tempo porta con sé il pericolo della dissoluzione e la possibilità della redenzione, il popolo della promessa sta nel massimo pericolo, e dal percepire la chiamata che fa svoltare il tempo dipende tutto”. Giocare l’ultimum nell’aldiqua non può certo tradursi in un atteggiamento storicista che celebra la storia dei vincitori, il corteo trionfale di ciò che si è imposto. Il Vangelo ha la funzione di essere memoria sovversiva di un mondo altro, di ciò che non è stato anche se fu annunciato. “Un veloce sguardo a quelle antiche storie ci mostra che là si schiude una verità, la quale è così poco sfiorata dai secoli che solo ora si apre a noi”. Ma si apre su uno scenario di catastrofe per lo più cinicamente conosciuta ed archiviata.
Nessun appiattimento sulla pasta del presente, se non altro per l’intuizione (non sempre l’uso!) della presenza di un lievito. E tuttavia la crisi, la constatazione del continuo indurimento della pasta, mi spinge ad interrogarmi anche sulla qualità del lievito.
Come si rideclina l’idea di salvezza, di Regno, dopo l’età del nichilismo? Mi sembra interessante l’analisi che fa M. Tronti: “Da un lato c’è una salvezza finale, che è anche un ritorno alle origini, quel ‘torno presto’ mancato, irrealizzato (…). Questa promessa non mantenuta, che ha incardinato tutta una fede, anche degli immediati discepoli, che cosa poi ha provocato? Il rinvio della seconda venuta, questa dilazione del tempo della salvezza, ha avuto come immediata conseguenza la costruzione dell’istituzione Chiesa. La motivazione è quella: bisogna controllare, dominare, gestire, organizzare i tempi lunghi dell’attesa. Per questo ci vuole appunto una forza istituzionale, una potenza mondana capace di trattenere questo tempo e, dentro questo tempo, ridistribuire il rapporto tra una potenza che si fa e il popolo che attende. Le motivazioni sono quelle classiche della leggenda del Grande Inquisitore: riuscire a far sopportare a questo popolo di Dio la sua possibile libertà, o la sua possibile liberazione finale, per adesso e a lungo irrealizzabile.
Ecco, io trovo una corrispondenza impressionante di questo con vicende politiche proprie del novecento. Nel novecento, nel suo tempo più grande, c’è la rivoluzione, c’è un atto rivoluzionario, che nasce in un determinato punto, non particolarmente favorevole, e avrebbe bisogno di un’espansione al di là di questo punto, per realizzare immediatamente la prospettiva di rovesciamento di una forma sociale-politica. Anche qui, non il totalmente, astrattamente, nuovo, ma l’inversione della potenza e dell’ordine precedente: innalzare chi sta in basso, abbattere chi sta in alto. Il comunismo subito. Ma questo non è possibile realizzarlo qui ed ora, se non si realizza là, dappertutto, domani. Allora bisogna costruire una struttura politica, statuale, ideologica, per gestire anche qui i tempi dell’attesa, questa attesa della rivoluzione mondiale. Nasce la forma di potere dello Stato di partito e del partito di Stato: per condurre la guerra contro chi vuole cancellare, da fuori, l’atto rivoluzionario, per organizzare il terrore contro chi lo contesta dall’interno, per consolidare le conquiste ottenute, per mobilitare le energie totali delle masse.
Io vedo cioè raggrumarsi intorno all’idea di salvezza una dialettica tragica tra il massimo di desiderio della libertà e il massimo di realizzazione dell’oppressione.
Scatta lì dentro qualcosa che fa in modo che si rovesci la prospettiva liberatoria sempre nel suo diretto opposto. Mi chiedo se questo fatto sia sufficiente per mettere mano a una critica dell’idea di escatologismo messianico, critica dei fini ultimi, della meta finale, critica del concetto di historia salutis”.
Di nuovo si affaccia l’esigenza di una “fede tragica” che disarticoli il monolitico racconto della storia della salvezza, il troppo semplice schema di una salvezza progressiva, senza per questo cadere nella deriva di un “cristianesimo senza redenzione”, chiamato in causa unicamente allo scopo di mitigare la barbarie inevitabile del tempo presente. Un’interrogazione senza sconti ma non nichilistica sull’ultimum, sul suo ruolo nel tempo della crisi (non necessariamente di riproposizione fondamentalistica delle proprie verità, senza la pazienza del confronto e l’umiltà dell’essere sottoposto a critica…). Una riflessione che, di certo, andrà ripresa.

Concludo ritornando più approfonditamente sulla figura della “fede tragica” e cercando di comunicare cosa significhi per me. Essa accosta temerariamente la speranza e la disperazione e, in tal modo, rifiuta un approccio dualistico alla realtà: la barbarie dell’aldiqua non trova giustificazione grazie alla salvezza dell’aldilà; la felicità interiore non può sostituire un’infelicità storica. Anche Bonhoeffer è preoccupato di non separare ‘ultimo’ e ‘penultimo’: “finché il mondo esiste, la risurrezione non sopprime le realtà penultime, ma la vita eterna, la vita nuova, irrompe sempre più potentemente nella vita del mondo e vi crea un suo spazio”. Nel suo fondamentale studio su Bonhoeffer, Alberto Gallas individua come chiave di lettura decisiva per la comprensione della riflessione del teologo luterano proprio il superamento di una prospettiva dicotomica, che separa i diversi ambiti della realtà, verso una forma di pensiero che metta i concetti in movimento, in tensione, stabilendo tra loro relazioni, anche polemiche. “L’ anthropos teleios non è dunque l’uomo moralmente perfetto, ma colui che vive la vita nella sua totalità, conformandosi alla struttura profonda del reale”. La realtà è, infatti, unitaria perché sotto l’unica signoria di Cristo.Questa riflessione teologica proposta da Bonhoeffer ha un andamento sapienziale: sa ritrovare un ordine affidabile, una struttura profonda della realtà, anche ad Auschwitz, anche sul Golgota, là dove “il cor curvum viene convertito nell’essere-per-altri”. La fede sapienziale scorge i tratti del disegno complessivo anche nelle dense tenebre; pure nel fallimento, non viene meno il nesso tra giustizia e felicità, che costituisce, per essa, il cuore etico della visione biblica della realtà.La fede tragica, invece, patisce una contraddizione non riconducibile ad una trama di senso, non nutre fiducia nell’affidabilità di un ordine o di un progetto salvifico. E, tuttavia, crede. Affermazione paradossale che presta il fianco all’obiezione che un senso bisogna pur averlo; in ogni caso, l’agire lo presuppone. Il credente lo confessa come dono di Dio, lo riceve narrato nelle Scritture: a quella precisa configurazione di senso converte il proprio cuore. Ma l’occhio, che del cuore è la lampada, fissa un panorama di terrificanti smentite. Come ogni credente anche chi vive nelle tenebre aspira alla luce, al senso, alla salvezza. La storia della salvezza tende tra l’inizio e la fine della vicenda umana un filo lineare in grado di dare significato a tutto. Chi vive una fede tragica vorrebbe aggrapparsi a questa corda al fine di non cadere nelle voragini della storia, però sperimenta che la vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa”. Si può condurre un’intera esistenza all’insegna di una fede tragica?Si può sostenere la contraddizione che l’anima, non solo in una particolare stagione della vita, cui ne seguirebbero altre meno tenebrose, bensì “ogni giorno”?Per molti sembra una prospettiva impraticabile: o a causa di limiti intrinseci alla posizione tragica, o in nome della natura plurale della fede, la quale si esprime col grido di sofferenza, ma anche col grido di giubilo; col linguaggio della sapienza eterodossa ma anche quello della sapienza ortodossa; con la bestemmia e la contestazione, ma pure con il fascino e la passione. In realtà la stessa fede tragica, per abitare, senza sciogliere, la tensione che la connota, non può limitarsi a parlare unicamente il linguaggio del negativo, comunemente definito tragico. Sono ingredienti propri di una fede tragica anche lo stupore, la passione, l’ironia … L’impasto che ne fa, tuttavia, non ha la semplicità ed il fascino del gregoriano e neppure la consistenza e l’armonia del canto polifonico. È piuttosto, si potrebbe dire, l’espressione atonale della fede, dove il codice classico viene disarticolato.L’esperienza del male per molti credenti, pur con la sua presenza pesante e inquietante, non può che durare poche ore, dal Venerdì santo all’alba della Pasqua, quando trionfa il riscatto.Per alcuni uomini e donne, che, nonostante tutto, credono alle promesse del Dio d’Israele, “un giorno è come mille anni”!Mosè dopo l’uscita gloriosa incontra di giorno, sul Sinai fumante, il Dio potente e luminoso; e, dopo l’incontro, scende raggiante con le tavole della testimonianza da consegnare al popolo.Elia, invece, in fuga e deciso al suicidio, fatica a riconoscere di notte, sull’Oreb, il Dio che gli parla con “voce di silenzio sottile”, lo interroga, e al profeta, che si ritiene solo, senza popolo, fa intravedere un resto che non ha piegato le ginocchia agli idoli.Anche Gesù, che pur ode la voce rassicurante del Padre al Giordano e sul Tabor, sperimenta sul Golgota il silenzio assordante dell’abbandono senza che venga meno la tenacia nel bere fino alla feccia il calice amaro, nel condividere fino agli inferi la sorte dei disperati.Un’innumerevole schiera di persone, che credono nel carattere promettente della vita, nella sua giustizia, incontrano il divino come forza di resistenza all’ingiusto male trionfante. Ma si tratta di una debole forza, non al riparo di contraddizioni e smentite.Di un piccolo e precario bottino parla Geremia, al capitolo 45 del suo libro, là dove riferisce questa parola: “Dice il Signore, Dio d’Israele, su di te, Baruc: Tu hai detto: Guai a me poiché il Signore aggiunge tristezza al mio dolore. Io sono stanco dei miei gemiti e non trovo pace. Dice il Signore: Ecco io demolisco ciò che ho edificato e sradico ciò che ho piantato; così per tutta la terra. E tu vai cercando grandi cose per te? Non cercarle, poiché io manderò la sventura su ogni uomo. Oracolo del Signore. A te farò dono della vita come tuo bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai”.
È un testo antico, che narra di una condizione totalmente diversa dalla nostra : Eppure – per dirla con Benjamin – lì “il passato vi ha depositato immagini che si potrebbero paragonare a quelle che vengono fissate da una lastra fotosensibile. Solo il futuro ha a sua disposizione acidi abbastanza forti da sviluppare questa lastra così che l’immagine venga ad apparire in tutti i suoi dettagli”. Lo sviluppo dell’immagine di Geremia non mi sembra sia reso nella camera oscura post-moderna, preoccupata solo di leggervi la conferma della destituzione delle grandi parole d’ordine della progettualità moderna ed il conseguente invito a rifluire nei territori meno ambiziosi e più realistici della vita privata. Si dimentica di far emergere un dettaglio non secondario: e cioè che la vita di Baruc-Geremia è stata vita militante. Il profeta non falsifica la storia, non annuncia pace e salvezza ma constata violenza e distruzione. Di fronte alla durezza della storia, però, non si ritira a vita privata, non cerca frutti nelle serre dell’interiorità. Condivide invece l’esilio, la sconfitta e la morte. Avrebbe voluto essere un testimone delle grandi opere del Dio d’Israele; deve fare il profeta in tempi di crisi, dove tutto cade a pezzi. Cosa resta? “Ti darò in bottino la vita”. Ripartire da sé: non nel senso di ripiegarsi sulla propria parabola individuale ma in quello di ricostruire tenacemente, iniziando da sé un nuovo possibile esodo, proprio in nome di quella speranza irriducibile, la quale non viene meno neppure mentre tutto crolla e lo stesso Dio si rimangia le antiche promesse. Nel cuore del credente tragico convivono paradossalmente la percezione della distruzione e quella di un bottino da cui ripartire nonostante tutto.

 

Angelo Reginato


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