Incontro PO italiani ed amici
Viareggio, 20-21 aprile 2002



Per dire alcuni miei pensieri prendo l’avvio dall’affermazione di Sandro Artioli “Vivo il tempo (l’età) in cui uno si sente chiamato a misurarsi sull’ultimum perché non venga all’improvviso”.
Ricordo il finale della parabola del ricco stolto di Luca 12, 20, che traduco parte alla lettera e parte con qualche libertà.
«Stolto, questa notte ti viene richiesta la tua vita (anima): e le cose che hai preparato, a chi andranno? Così (stolto) è chi ha raccolto, realizzato per sé e non davanti a Dio».
Ricordo ancora Michea 6, 8: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente (altra traduzione “impegnandoti”) con il tuo Dio».
Vivo la consapevolezza dell’andare verso “la fine” anche se so che sarà “il fine”. È consapevolezza della provvisorietà, della precarietà che dà la giusta dimensione al mio “essere” in questa situazione, in questo momento, che è un attimo (“un soffio” in Qoelet) della storia umana. Non è di poca importanza, anzi è vera saggezza, “sentirci”, coglierci solo come parte, piccolissima, di una storia che è più grande di noi.
Nel tempo passato nel Salvador, in una situazione di continua emergenza a causa della guerra di liberazione, mi pare di aver appreso a cogliere il mio “esserci dentro” seguendo le indicazioni di Mons. Romero del ministero della consolazione e la pastorale dell’accompagnamento, nella dimensione della “permanenza e fedeltà” di Sirio. Comunque, da “straniero”, nella provvisorietà e parzialità. La domanda che ci rivolgevamo ogni giorno, o quasi, era “ma cosa stiamo qui a fare?”.
È illuminante la parabola di Marco 4, 26-29 del seme che cresce da solo e che un uomo sparge nella terra. Questo uomo, poi, ogni sera, va a dormire e ogni mattina si alza. Intanto, il seme germoglia e cresce e l’uomo non sa affatto come ciò avviene.
Prego spesso con il salmo 131, un salmo breve ma intenso, che esprime la “forza della debolezza”. «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore, e non si leva con superbia il mio sguardo, non vado in cerca di grandi cose, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia (altra traduzione: “i miei desideri sono come questo bambino”). Speri Israele nel Signore, ora e sempre». L’immagine è quella del bambino che, svezzato, viene caricato sulle spalle della madre. Sulle spalle di Lui; è Lui che mi porta. Non sono io che cammino, ma è Lui che mi porta.
A questi pensieri di serenità, che è abbandono fiducioso, si accompagna però il senso dell’andare verso “la fine”, il senso dello “scomparire”. Certo, io credo che risorgerò, ma questo credere mi è stato donato, non è una mia esperienza, mentre è mia esperienza il sentire che un giorno “finiremo”. Mi succede più spesso di un tempo avvertire questo senso dello “scomparire”. E ciò con un po’ di smarrimento, di delusione. Dopo tutto ciò che abbiamo fatto, pensato, amato, subìto, sofferto, sperato… passeremo. Giobbe 7,6ss: «I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti per mancanza di filo. Ricordati che un soffio è la vita: il mio occhio non rivedrà più il bene. Non mi scorgerà più l’occhio di chi mi vede: i tuoi occhi saranno su di me e io più non sarò. Una nube svanisce e se ne va, così chi scende agli inferi più non risale, non tornerà più nella sua casa, mai più lo rivedrà la sua dimora».
Sulla linea della riflessione “laica” del libro del Qoelet: «Soffio, fumo; tutto è soffio, fumo» a volte avverto un certo senso di mestizia, di nostalgia al pensiero di separarmi un giorno dai “miei”, da chi ho amato, dagli amici, dai compagni con i quali ho fatto un cammino, a volte faticoso, di non godere più della natura, dell’arte, della musica, della gioia e allegria, mista a fatica, di comunicare con gli altri, della ricchezza dell’incontrare l’“altro”, il “diverso”.
Sento molto vicino lo stato d’animo dei discepoli di Emmaus. Il mio cammino è molto simile al loro, “con gli occhi incapaci” di riconoscere la verità degli eventi vissuti, “col volto triste”, anche se avverto che “il cuore arde nel petto” nell’accogliere la spiegazione delle Scritture. E spero proprio di riuscire un giorno a riconoscere Lui nello spezzare il pane della condivisione quotidiana della storia umana.

Bruno Ambrosini


 

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