Sguardi dalla stiva
C’è una domanda che mi pongo frequentemente perché, nella sua semplicità, la ritengo utile alla comprensione degli eventi. Suona così: come viene vista la realtà? Con quale sguardo o – per meglio esprimere la consapevolezza dei parziali e mai neutrali punti di vista – con quali occhiali?
Me la pongo anche nei confronti della realtà operaia, individuata prima come centrale per la comprensione e la trasformazione della società, ma da alcuni decenni catalogata come marginale, residuale, destinata ad essere del tutto superata in uno scenario radicalmente cambiato.
Certo, rispetto alla sbornia ideologica della fine del lavoro, la cronaca di questi giorni sulla crisi della Fiat rimaterializza agli occhi di tutti la persistenza degli operai, la precarietà della loro condizione subordinata alle scelte unilateralmente prese dagli azionisti di maggioranza…
Ma come si guarda a ciò che succede? Il tipo di sguardo decide il giudizio che ci si fa e l’azione che s’intraprende…
Vorrei ragionare non tanto sullo sguardo distratto, zapping, proposto dai mass-media: qui sta, certo, il principale nodo problematico per la costruzione di uno sguardo in grado di leggere la realtà. Il compito educativo di decostruire un tale approccio – con la sua pretesa di neutralità vellutata ed accattivante, in grado alla lunga di spegnere ogni attenzione critica e di produrre uno sguardo geneticamente modificato – è evidente nella sua drammaticità.
Mi limito a riflettere su di un tipo di sguardo più articolato e consapevole, che non si limita a riempire il palinsesto informativo ma vuole scavare a fondo, alla ricerca di una comprensione al di là delle sensazioni.
Lo spunto lo prendo dall’ultimo romanzo di Ermanno Rea intitolato “La dismissione”. È un racconto totalmente incentrato sulla vicenda operaia, vista nel momento della chiusura di un grande stabilimento. Rea racconta la fine dell’acciaieria di Bagnoli, l’Ilva, fabbrica simbolo del riscatto di Napoli (“Noi amavamo Bagnoli. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-cartolina della città. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata – la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando – valori inusuali: la solidarietà; l’orgoglio di chi si guadagna la vita; il senso della legalità… ”).
Il protagonista del romanzo è Vincenzo Buonocore, nome d’arte di un ex operaio diventato tecnico delle Colate Continue e, alla fine, incaricato di sovrintendere allo smontaggio del “suo” impianto ormai venduto in Cina.
Come ha deciso di guardare alla chiusura dell’Ilva Ermanno Rea?
Nell’ultimo capitolo del romanzo, che all’apparenza sembra un post- scriptum (la trama del racconto si conclude al capitolo precedente) ma che, in realtà, gioca come una consapevole chiusura redazionale (per fare un’analogia, un po’ come Giovanni, laddove, al cap. 21 del suo Vangelo, dichiara il motivo per cui tutte queste cose sono state scritte… ), in un breve dialogo tra Buonocore e Rea, il protagonista confidente dello scrittore sui fatti dell’Ilva dichiara: “siamo tutti come dentro a un romanzo: quando sta per finire lo capisci subito, e scorri le righe chiedendoti se in quello che stai leggendo si nasconde per caso un senso più generale, più profondo, di quanto appaia a prima vista…”. Commenta Rea: “Non sembra una domanda, ma lo è. ‘No, non c’è’, rispondo asciutto. Allora lui mi lancia una delle sue occhiate furbe, ironiche. ‘Sì, va bene’ dice, ‘ma uno spera sempre. Forse, pensa, questo significato mi sarà rivelato nell’ultimo momento’. No, caro il mio Vincenzo. All’ultimo momento non ti sarà rivelato proprio niente, salvo che la vita è un groviglio di contraddizioni (capirai!) e un romanzo è di necessità la storia di una perdita, la storia di qualcosa che prima c’era e poi non c’è più: una speranza, un sentimento, una donna, un mestiere, perfino una fabbrica. O addirittura un mondo, una civiltà, un costume, un’epoca. I romanzi sono inventari di cose perdute. E poiché, quando si perde qualcosa, si prova dolore, essi sono, generalmente, anche storie tristi, storie di dolori”.
È una vera e propria dichiarazione di “poetica”. Lo sguardo si posa sulle cose che finiscono e lo scrivere è un’elaborazione del lutto, in questo caso della perdita non solo dell’Ilva ma di tutto il “novecento operaio”. Non a caso la trama si conclude con un funerale di una ragazza che “si trovò a rappresentare con la sua morte, in modo clamorosamente involontario, tutto ciò che nel quartiere aveva riempito la nostra vita e improvvisamente scompariva. Quel funerale fu come ‘un macigno appeso al collo del 1999: fu il nostro modo di piangere la fabbrica scomparsa, il vecchio secolo, anzi il millennio, che se ne andavano a loro volta. Un evento ideale per seppellire qualcosa di simbolico: un passato di speranze, congetture, ideologie; per seppellire affetti, memorie, modi di vita. “Gente di Bagnoli” disse il parroco di Santa Maria Desolata durante l’omelia, dopo aver letto alcuni passi del libro della Sapienza “forse sta per arrivare un tempo migliore di quello che ci lasciamo alle spalle. Non è detto. Prevederlo è difficile per non dire impossibile. Quello che è certo è che sarà un tempo totalmente diverso. Attrezziamoci spiritualmente a questa diversità, in maniera da non subirla soltanto…”.
Poetica della perdita e del disorientamento. Come dichiara un amico del protagonista: “Di fronte a tutto questo, di fronte a tempi così oscuri e indecifrabili, di fronte alla fabbrica che scompare, al tramonto di tutte le cose nelle quali ho creduto… a volte mi sembra di avere sprecato la mia vita. Ho un bel dirmi che non è vero, che ho fatto ciò che era umanamente, politicamente e moralmente giusto fare, che ogni mia scelta è stata sacrosanta, anche se poi è stata smentita dalla storia. Ho un bel dirmi tutto questo: quella sensazione di inutilità rimane… ”.
Buonocore evita il registro nostalgico in nome di una lucida identificazione con la realtà, escludendo del tutto l’ipotesi di opporsi lottando: “avevo già cercato di spiegare a Chung Fu la mia condizione emotiva: nessun rimpianto, nessuna nostalgia. Desideravo soltanto smontare con cura l’impianto, liberarmene”. “Dal momento che l’Ilva è finita” gli avevo confidato “che cosa altro si può desiderare se non di disfarsi di ogni sua parte al più presto? Tutti gli uomini di buon senso non temono tanto la morte quanto l’agonia, cioè quella parte della morte che è in qualche modo ancora vita”.
Ciò non toglie che il compito risulti arduo: “l’Ilva che scompare è una dissolvenza che non soltanto mi riguarda ma mi comprende. ‘Dobbiamo imparare a dismettere innanzitutto noi stessi’ dissi un giorno di particolare malumore al mio amico Arturo Scuderi. ‘Distruggere all’improvviso una fabbrica può essere anche un’operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche”.
In ogni caso, lo sguardo della “dismissione” spinge a volgere altrove l’attenzione, a voltar pagina. Ma per chi continua a muoversi tra le righe della pagina precedente lo sguardo della dismissione si risolve semplicemente nella dismissione dello sguardo dallo zoccolo duro del lavoro manuale dipendente, da leggere certo nei suoi cambiamenti senza tuttavia sconti o rimozioni troppo à la page.
Sono convinto che una stagione di maggior attenzione su quanto accade nel mondo del lavoro richieda l’abbandono di sguardi onnicomprensivi, dagli esiti paralizzanti, a favore di sguardi più dialettici e più discreti…