Il vangelo nel tempo


 

Pinuccia Scaramuzzetti fa parte del gruppo ecclesiale diocesano di Verona fra i Sinti ed i Rom.
Vive nella comunità di vita nata a metà degli anni 70 del secolo scorso nel tentativo di rompere il muro tra chiesa e questo particolare mondo.
Lo stile di vita è quello dei nomadi: vivono nelle roulottes nel campo nomadi e si mantengono come in un campo attrezzato a forte Azzano alla periferia della città; un tempo si spostavano molto per tenere relazioni con i clan conosciuti.
Pinuccia dipinge su vetro e smalto a freddo; Betti Adami è donna di famiglia e, curando il quotidiano, è in continua relazione con le altre donne del campo; Pamela, una ragazza Sinti, essendo maestra, opera nella scuola come mediatrice culturale; don Francesco Cipriani lavora il rame ed il peltro a sbalzo; Cristina Simonelli è teologa ed è docente di patrologia / matrologia nell’Istituto teologico di S. Zeno, di S. Bernardino e nell’Istituto di Scienze religiose di Verona, ed anche nella facoltà Teologica dell’Italia settentrionale di Milano.
Lo stile di vita si avvicina a quella dei piccoli Fratelli e Sorelle di P. De Foucauld: fatta di condivisione con i poveri, accompagnamento, testimonianza e cura, fuori dal protagonismo che vuole forzare o sostituirsi al lento cammino del popolo.
L’attenzione alla concretezza della vita unita all’incontro con la Parola apre sogni e concreti percorsi nella speranza di una possibile fraternità tra diversi.


Pensare i rom oggi: profughi e clandestini


Pensare i “rom” in questi ultimi anni significa spesso focalizzare l’immagine di rom rumeni: ragazzi e ragazze con le lunghe gonne di velluto che puliscono i vetri ai semafori, giovani donne con neonati in braccio che chiedono l’elemosina, mucchi di stracci, magari con una carrozzina o un fornello in edifici diroccati che aspettano il Ritorno di abitanti precari. Di conseguenza, articoli sui giornali e polemiche su: la vergogna per la città sporca, lo sfruttamento dei minori e atti amministrativi e giudiziari come ordinanze di sgombero, provvedimenti di espulsione e varie.

Sempre più lo status del rom viene ad essere quello dell’immigrato extracomunitario, spesso profugo o clandestino, malvisto perché gli viene attribuita poca voglia di lavorare, respinto, oppure obbligato per necessità nella situazione migliore ad accettare un’accoglienza totalizzante e paternalistica che nasce e muore non secondo i propri bisogni, ma secondo la situazione politica locale o l’idealità dell’associazionismo del momento.
Gli altri, cioè i rom e i sinti con cittadinanza italiana, che non tendono la mano, non vestono diversamente dai sedentari, “gli zingari nostrani” come sono stati definiti in una certa assemblea provinciale, diventano di colpo “buoni”, salgono di grado e persino i rom stranieri “penultimi”, i kossovari, sono un pochino più in alto. Vengono “usati” da chi fino a ieri – e anche oggi non appena cessa l’emergenza rumeni – li aveva respinti.


Incontrarsi dietro un vetro


Queste situazioni sempre vecchie e sempre nuove, non fanno della diffidenza e dell’accoglienza l’inizio e la fine di un percorso, ma due atteggiamenti contemporanei, perché mentre familiarizzi con qualcuno, c’è sempre un altro, un ultimo arrivato che continua ad esserti estraneo.
Può capitare di condividere la vita di certi rom in un accampamento e sentirsi estremamente a disagio quando una romni sconosciuta appartenente ad un altro gruppo bussa sul vetro della nostra auto per chiedere l’elemosina, il disagio aumenta quando assumiamo l’atteggiamento di tutti: un sorriso e poi guardare dritto.
Se il comportamento è diffuso, la responsabilità è personale. Come non sentire l’ammonimento di Tobia: “Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio.”? Al di là di quel vetro vorrei dire: “Sono dalla tua parte, abbiamo dei vissuti in comune” ma l’unico atteggiamento che apre un sorriso è colmare la mano tesa: l’elemosina è il primo ponte che avvicina le nostre estraneità. A questo gesto così banale, così “poco intelligente” è affidato il compito di essere la prima occasione di un incontro, di superare la diffidenza dell’altro. Già, perché siamo entrambi portatori di diffidenza, da una parte e dall’altra del vetro.


Segno di contraddizione


Non bastano trent’anni di vita d’accampamento per “passare sull’altra riva”, per essere riconosciuto istantaneamente come fratello, non basta neppure che nell’altro si possa leggere il volto di Cristo se non abbiamo occhi per vedere. Cercarsi e non trovarsi è una lunga storia. Gesù piange su Gerusalemme (Lc. 19, 41) perché si rende conto di essere sgradito [Gesù l’ebreo di Pino Stancari, in www.dossetti.com], piange perché cerca i suoi fratelli che non trova, subisce un rifiuto drammatico, ma non rinnega il suo essere fratello in cerca di fratelli. È la storia della nostra vita, del nostro incontrarci e respingerci… “Egli è qui … segno di contraddizione… (Lc. 2,34).
In senso lato anche la nostra carne, quella dei nostri fratelli, è segno di contraddizione.
Quella stessa donna che al semaforo ha teso la mano è povera, ma anche no, povera perché tende la mano, ma forse, dopo una giornata di lavoro”, non è senza denaro; è “dipendente” perché tende la mano, ma anche autosufficiente, perché decide della sua vita ed è esperta nell’arte della sopravvivenza, è un’immagine senza storia per il passante, è una madre, una moglie attiva e vivace all’interno della sua famiglia ed è capace di passare dal soffrire la fame all’allestire un banchetto.
È una persona il cui incontro ci destabilizza ogni giorno, perché ogni giorno ci rimette in discussione per quel suo protendersi dietro il vetro della nostra macchina, ci obbliga a interrogarci su quello che la sua immagine ci mostra e ci nasconde, su quello che legge in noi, nel nostro comportamento e che noi non sapremo mai.
Anche noi partecipiamo della presenza del Cristo nel mondo in questo essere segno di contraddizione. Condividiamo la vita, ma temiamo gli atteggiamenti più banali, compiamo battaglie a favore dell’accoglienza e ci lasciamo paralizzare dalle dinamiche dell’incontro.


Quella casa che è il mondo nuovo


Cristo è anche la pietra scartata divenuta testata d’angolo. Un’affinità con tutte le pietre scartate del mondo latrici di una profezia che le avvicina a Lui e le rende partecipi di quel diventare testata d’angolo del nuovo edificio che è un mondo nuovo.

Non accogliamo perciò le persone escluse in una casa che è il vecchio mondo, ma costruiamo insieme a loro un mondo nuovo. Proprio gli esclusi, pietre scartate, diventano pietre angolari e diventano per noi, insieme a noi, un mondo nuovo.
Entriamo in questo mondo nuovo incapaci e inconsapevoli: non abbiamo risposte precostituite per le necessità di questi nuovi fratelli, non sappiamo quale casa, quale lavoro, non sappiamo in che modo metterci al loro fianco. Divisi da storie di guerra, differenze di religione, contrasti economici, cerchiamo fatti di pace ed esperienze di comunione e di solidarietà.
Il piccolo mondo dei rom è solo un esempio, uno schema, di quanto accade fuori. In questo mondo nuovo che ci apre nuove prospettive, nuove letture, cerchiamo di entrare a piccoli passi, chiediamo di essere accolti nel superamento delle nostre paure, cercando di vincere la separazione del vetro, la diffidenza di un modo di vita che ci è estraneo, di un’economia che per noi non ha logica, di un modo di amare che ha altre forme di espressione. Entriamo in questo mondo nuovo che gli altri hanno costruito per noi e a cui noi ci dobbiamo semplicemente adeguare, come in una scuola: riscopriamo bisogni sepolti, attitudini mai messe in pratica e ci troviamo tutti insieme al primo gradino, sulla soglia di questa nuova casa.

Pinuccia Scaramuzzetti


 

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