Letture


 

Giuseppe Callegari, L’amore si sporca le mani, TerrEmerse

 

Il lavoro di Giuseppe Callegari — che risiede a Mantova, ma è nato nell’Oltrepò Pavese e non poche volte ha soggiornato presso “sa terra nostra” dando il meglio di sé — si compone di vere e proprie sceneggiature e si caratterizza, oltre che per l’originalità dei testi, per l’innata sintesi della forma. Non v’è fronzolo, aggettivazione superflua nella sua narrazione, ma solo l’andare al sodo dell’oggetto in questione, sondando drammaticamente il quotidiano e i suoi soggetti, in un’alternanza evocativa ora lirica ora ironica.
Nella drammaturgia della sconfitta messa in scena in queste storie, i perdenti che calcano il palcoscenico del teatro di Callegari non alimentano un’idea pessimistica fine a sé stessa; bensì alimentano quel “pessimismo della ragione” che a sua volta nutre “l’ottimismo della volontà” necessaria a rendere pratica l’idea di possibilità esistenziali nuove, ove la diversità-differenza dell’altro/a sia arricchente per tutti.
Nessuna concessione, quindi, ai dettami della società dello spettacolo; al contrario, queste storie, questi pensieri, lavorano al disvelammento dell’impianto emotivo e significante del potere e dell’individuo, affermando la volontà mai estinta di un’opposizione praticabile e alternativa, senza per questo utilizzare i “tromboni della rivoluzione” in ambito di piazze tumultuose.
È lo spirito critico, la critica come forma di analisi e non l’amarezza della capitolazione a farsi largo tra queste righe. E il “fare” quotidiano nel bene e nel male, consci anche delle nostre vigliaccherie e dei nostri sogni, a tessere attraverso la conoscenza e i rapporti con l’altro/a, comunque sempre al fianco degli ultimi, i diseredati, quelli sempre a sud di ogni altro sud che è importante privilegiare per scelta e non per ideologia, ad affermare la possibilità esistenziale di vivere e scoprire un’umanità che anche in tempi di appiattimento dei sentimenti e delle idee valga la pena di essere vissuta.

Michele Licheri – poeta sardo


 

Confessioni di un sicario dell’economia


Il banchiere John Perkins rivela: sono stato arruolato dal governo degli Stati Uniti allo scopo di risucchiare le ricchezze di paesi poveri. Che un banchiere intitoli le sue memorie “Confessioni di un sicario dell’economia” è già clamoroso. Ma ciò che il banchiere John Perkins rivela nel suo libro, “Confessions of an economic hit man” (“Hit man” è il sicario prezzolato, il bastonature assoldato dalla mafia e dalle ditte americane per picchiare gli scioperanti) è spaventoso: racconta di essere stato arruolato dal governo Usa allo scopo di risucchiare a favore degli Stati Uniti le ricchezze di paesi poveri, e ciò “attraverso manipolazioni economiche, tradimenti, frodi, attentati e guerre”.
Le rivelazioni di Perkins gettano una luce del tutto nuova anche sulle motivazioni dell’invasione dell’Irak. John Perkins dice di essere stato reclutato quando era ancora studente, negli anni ’60, dalla National Security Agency (NSA), l’entità più segreta degli Stati Uniti, e poi inserito dalla stessa NSA in una ditta finanziaria privata. Lo scopo: “Per non coinvolgere il governo nel caso venissimo colti sul fatto”. Quale fatto?
Abbastanza semplice. Come capo economista della ditta privata Chas.T. Main di Boston con 2 mila impiegati, Perkins decideva la concessione di prestiti ad altri paesi. Prestiti che dovevano essere “molto più grossi di quel che quei paesi potessero mai ripianare: per esempio un miliardo di dollari a stati come l’Indonesia e l’Ecuador”. La condizione connessa con il prestito era che in massima parte venisse usato per contratti con grandi imprese americane di costruzioni e infrastrutture, come la Halliburton e la Bechtel (strutture petrolifere). Queste ditte costruivano dunque reti elettriche, porti e strade nel paese indebitato; il denaro prestato tornava dunque in Usa, e finiva nelle tasche delle classi privilegiate locali, che partecipavano all’impresa. Al paese, e ai suoi poveri, restava lo schiacciante servizio del debito, il ripagamento delle quote di capitale più gli interessi.
L’Ecuador, dice Perkins, è oggi costretto a destinare oltre metà del suo prodotto lordo — cioè di tutta la ricchezza che produce — per il servizio dei debiti contratti con gli Usa. Ma questo è solo il primo passo. Gli Usa, indebitando quei paesi, vogliono in realtà “renderli loro schiavi”, dice Perkins. All’Ecuador, non più in grado di ripagare, Washington chiede di cedere parti della foresta amazzonica ecuadoriana per farla sfruttare da imprese americane.
È questa la logica imperiale. Tra i massimi successi dei “sicari economici”, Perkins rievoca l’accordo riservato fra gli Usa e la monarchia saudita ai tempi della prima crisi petrolifera negli anni ’70. Per gli Stati Uniti, era necessario tramutare il rincaro del greggio da sciagura a opportunità. La famiglia dei Saud, del resto, affogava nei petrodollari: le fu proposto di investirli in titoli Usa e in grandi opere.
La Bechtel (chi scrive fu in Arabia all’epoca e può testimoniarlo) ricoprì il reame desertico di nuove città e di impianti di raffinazione per lo più inutili; la famiglia Saud accettò di mantenere il greggio entro limiti di prezzo desiderabili per gli Usa, in cambio dell’assicurazione americana che Washington avrebbe sostenuto il loro potere per sempre. “È questo il motivo primo della prima guerra all’Irak”, dice Perkins, e dell’intreccio privilegiato di affari e finanza tra i sauditi e i Bush.
Secondo Perkins, gli Usa cercarono di ripetere l’accordo con Saddam Hussein, “ma lui non c’è stato”. Da qui la sua rovina.
Perché, dice Perkins, “quando noi sicari economici falliamo il bersaglio, entrano in gioco gli sciacalli. Sono gli uomini della Cia, che cercano di fomentare un golpe; se nemmeno questo funziona, ricorrono all’assassinio. Ma nel caso dell’Irak, gli sciacalli non sono riusciti ad arrivare a Saddam: lui aveva delle controfigure, la sua guardia era troppo attenta. Perciò si è decisa la terza soluzione: la guerra”.
Perkins ha conosciuto personalmente Omar Torrijos, il generale e dittatore di Panama degli anni ’70, morto in un incidente aereo nel ’78. Torrijos fu ucciso, spiega Perkins, perché aveva stilato un accordo coi giapponesi per la costruzione di un secondo canale di Panama, ed aveva ottenuto dall’Onu nel 1973 una risoluzione che obbligava gli Usa a restituire alla sovranità panamense il vecchio Canale. Le multinazionali americane “erano estremamente arrabbiate con Torrijos”. Per questo scopo, quando Reagan divenne presidente, gli furono fatti scegliere come ministri due alti funzionari della Bechtel, Caspar Weinberger alla Difesa e George Schultz — il che rivela molto sul ripugnante potere degli affari nella politica Usa — per costringere Torrijos con le minacce a rompere i negoziati coi giapponesi (che stavano soffiando alla Bechtel l’affare del secolo) e di rinnovare il trattato del Canale di Panama, riconsegnandolo agli americani.
Torrijos rimase sulle sue posizioni: furono mandati in azione gli “sciacalli”. L’aereo di Torrijos, dice Perkins, cadde per un magnetofono che era stato riempito di esplosivo. La stessa fine di Enrico Mattei. Conclude Perkins: “il denaro che gli Usa adoperano per indebitare i paesi poveri non è neppure denaro americano. Sono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario a fornirlo”. A fornire ai poveri la corda per impiccarsi.


 

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