Frammenti di vita


Vorrei cercare di comunicare qualcosa del percorso di questi mesi così tanto faticosi per me eppure così immersi nel “nulla” come mai prima d’ora mi era accaduto.
Dallo scorso mese di gennaio non sono più parroco dei Sette Santi, la piccola parrocchia del porto. Ed ormai è “ufficiale” che alla fine dell’anno chiuderò il rapporto di più di vent’anni di lavoro con la cooperativa sociale C.RE.A., anche se manterrò – per pochi mesi – un esile incarico lavorativo prima del pensionamento nel prossimo luglio. Sono quindi agli sgoccioli del mio “fare”! Sto quasi per non fare più nulla… se non le funzioni indispensabili per sopravvivere… eppure: quanta fatica!
Soprattutto nei miei confronti. Nel convincermi attraverso continue “rassicurazioni” a lasciarmi andare, a non opporre resistenza, a non far rientrare dalla finestra ciò che riuscivo a far uscire dalla porta. È proprio vero che cambiare il mondo può avvenire a patto che si cominci da noi stessi, dalla piccola grande zolla della nostra esistenza. Anche un piccolo infinitesimale “spostamento” del proprio io permette di vedere il mondo da un diverso punto di vista in una relazione tutta da scoprire.
Sono a questo punto. E avverto tutta la fragilità della condizione di chi deve di nuovo cercare di succhiare il latte della conoscenza dal seno della terra e ricevere l’annuncio dai cieli che si affacciano su questa vita.
Per mia buona sorte c’è la Chiesetta, piccola zattera ancorata in questo stupendo angolo del porto di Viareggio. Luogo abitato da Sirio, vissuto insieme con Beppe, ancora sognato insieme a Maria Grazia. Di un sogno che non cessa di stupire pur nella nostra differente rispettiva condizione di vita.
È dalla Chiesetta che voglio “ripartire”, assumendo questo “luogo” in tutta la sua interezza di simbolo e di storia vissuta. Di ricerca continua. Sono più di trent’anni che vivo qui, eppure solo ora mi confronto con questo spazio decidendo di abitarlo. Strani giochi di prospettiva per cui si possono passare anni e anni in un luogo, in un ruolo, in un lavoro, il tutto segnato da una precarietà indiscutibile come in una eterna anticamera, “in attesa di…” quello che faremo “da grandi”. Ho deciso di “fermarmi”, di essere quello che sono: perché solo se fermo posso veramente partire, solo se sono posso divenire. E mi viene da sorridere di me e del paradosso che incarno se, solo ora che invecchio, accetto di avere bisogno di essere amato e protetto come un bambino. Fino ad avere, del bambino, la stessa ingenua fiducia che porta ad allargare le braccia a tutto ciò che viene incontro.
Quando ho lasciato l’incarico di parroco, a chi mi chiedeva come potermi incontrare di nuovo, rispondevo che avrei acceso una piccola luce alla finestrina che dà sulla facciata, come segnale di presenza in casa e disponibilità all’incontro. Ho preparato una lucernetta e accenderla – anche se nessuno la nota – mi fa palpitare il cuore perché è come se non mi nascondessi più e rivelassi la mia presenza rinunciando ad ogni ragionevole prudenza: ecco ci sono, sono qui, sono io. Niente; eppure sono io. La Chiesetta non è più la mia tana, dove rifugiarmi a leccare le ferite, a cercare una tregua, una distanza dall’usura del lavoro, della relazione, della vita stessa. È tornata ad essere il luogo di un incontro possibile. Anche se nessuno ne varcasse la soglia.
Avverto con forza che la realtà attuale richiede di

“ritrovare, ri-suscitare il vangelo, riportarlo all’origine. Non ai suoi inizi! Perché la diversità di situazione mostra che una tale ricostituzione delle condizioni iniziali non può che essere fittizia… A situazione inedita risposta inedita.
Il ritorno all’origine… non è quindi affatto un ritorno. È la scoperta, è l’invenzione oggi (con tutti i rischi dell’invenzione) di ciò che è apparso con il Cristo e non può risorgere se non mediante le sue relazioni costitutive, nella situazione attuale.
Dunque: sgombrare il terreno; sgombrarlo dalle problematiche in cui troppo spesso si rinchiudono i cristiani e che sono relative a una situazione morta. Sgombrare e ripulire da tutte quelle preoccupazioni, abitudini, conflitti che impediscono di raggiungere il luogo critico, che è il luogo della nascita.
… Da un lato, accettazione, riconoscimento, adesione.
… Ma al tempo stesso critica, e critica senza riserve, da ogni lato.
… È, questo, un aspetto decisivo, io credo: il cristianesimo del futuro non ha più paura della critica: in esso la forza della fede fa tutt’uno con una ricerca incondizionata della verità. Mai più dei “ma” restrittivi, frasi come “fino a questo punto sì, ma non oltre”! E se questa ricerca porta con sé gli interrogativi più severi – quelli che il credente in affanno chiama dubbi – non si ha più paura di affrontarli. La fede può pensare.”
(M. Bellet, La quarta ipotesi, ed. Servitium pp. 29-30).

Paura? Io ora ho paura; eppure non riesco a distogliere la mente da questo percorso o meglio da questo “movimento” che ci suggerisce Annick de Souzenelle nel libro-intervista di Jean Mouttapa dal titolo “Nel cuore del corpo la parola” ed. Servitium:

“La nostra grande difficoltà consiste nella paura che abbiamo di questa distruzione interiore, che sentiamo bene che sarà il preliminare necessario a ogni vera costruzione. Ecco perché molte persone giungono alle spiagge della fede solo quando avvenimenti terribili – morte, incidenti, malattia, separazione – vengono a distruggere il castello di carta della loro vita sociale e affettiva. Per quelli, la verità del loro essere profondo appare improvvisamente – e spesso brutalmente – come evidente ed essi se ne accorgono, come Giobbe, che non c’è niente da dire su Dio, ma soltanto essere l’“Io sono” al quale già partecipavano senza saperlo.
Ma perché attendere che delle lacerazioni venute dall’esterno ci insegnino un giorno chi siamo? Perché attendere grandi sciagure per imparare a lasciare colui o colei che non siamo, colui o colei che sembriamo essere?
La Bibbia, come la vita, ci insegna la necessità interiore di quel verbo che ritorna così spesso nelle scritture: “lasciare”. Tutto comincia là e noi dobbiamo fare silenzio per ascoltare, all’interno di noi, nel cuore della nostra carne, nell’intimo del nostro essere, la parola che sentì Abramo: “Lascia la tua terra… e va’ verso di te” (pag. 274).

 

Luigi Sonnenfeld

lottacomeamore@libero.it


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