Frammenti di vita
Il 24 ottobre scorso, su invito di Marco Vitali, ho partecipato alla sua prima messa: “Vieni, almeno un prete operaio sia presente quel giorno”.
E’ stata un’occasione per ripensare alle nostre storie, agli anni dei nostri inizi nel mondo del lavoro e le diverse peripezie incontrate con le nostre chiese locali e gerarchie. Credo che Marco sia uno dei pochi che abbia avuto l’ardire di dichiararsi prima della sua ordinazione e come tutti ha dovuto pagare un periodo di purgatorio, che è sempre meglio dell’inferno. Ma questo gli è servito per rafforzarsi e iniziare a lavorare in una officina meccanica. In fin dei conti non tutto il male vien per nuocere. Con la mia memoria sono ritornato al 1972, all’incontro con il vescovo della mia diocesi, qualche giorno prima della ordinazione. Mi chiese la mia destinazione, dove sarei andato a finire come prete. (Era una fortuna far parte della comunità del Paradiso di Bergamo, che aveva una sua autonomia formativa ed aveva iniziato da qualche anno l’esperienza dei preti operai). Gli risposi che sarei andato in una delle parrocchie della periferia di Milano. Non mi chiese altro ed io non gli dissi altro, ma sapevo che il parroco era un prete operaio e che anch’io dopo qualche settimana sarei andato in fabbrica. Piccoli sotterfugi: credo che il buon Dio mi perdonerà, sapendo com’erano bollenti quegli anni nel mondo politico, operaio, sociale ed ecclesiale. Dopo qualche mese tuttavia sono incappato nel veto del Cardinale Colombo di Milano che senza mezzi termini mi disse: “O smetti di andare in fabbrica, o te ne vai. Io non ho bisogno di operai perché a Milano ce ne sono molti, ma di preti”.
Lo stare in fabbrica allora faceva paura ai nostri fratelli vescovi e i preti giovani non potevano inquinarsi ed era meglio troncare subito l’esperienza: il contatto col mondo operaio era pericoloso. Uscito dalla fabbrica ho fatto con Antonio, un altro prete, l’imbianchino e nessuno ha detto nulla. Molti di noi hanno pagato duramente.
Tornando alla prima messa di Marco a Locate Triulzi, in quel di Milano: sì perché Marco è di Milano ed ha trovato il vescovo di Biella che lo ha accolto, posso dire che qualcosa di nuovo è emerso rispetto ai nostri tempi. Ero anche curioso perché oltre alla mia non avevo mai partecipato ad una prima messa. La festa era tipicamente paesana e in questo nulla è cambiato, però non c’erano manifesti appesi ai muri con le scritte: “Viva il sacerdote novello” oppure “Tu sei sacerdote in eterno”. E questo era un piccolo segnale. Simili scritte si vedono ancora oggi, non parliamo poi di immaginette ricordo e di pranzi faraonici con regali che farebbero rabbrividire il nostro Falegname di Nazareth. A Locate Triulzi, nulla di ciò. Questo paese mi è anche simpatico perché nel 1972, quando ero in fabbrica, dopo l’orario di lavoro prendevo la bicicletta e mi divertivo a scorazzare da quelle parti in mezzo alla campagna. Era duro lavorare alle presse stando sempre seduti.
Il luogo di partenza del corteo era l’oratorio. Uno striscione, portato dagli amici di Biella diceva: “Marco, prete operaio, mola mia, tegnn dür”. Questo non aveva nessun riferimento bossiano, ma al fatto di essere prete operaio. Tener duro oggi è troppo importante e un bell’augurio, vista la precarietà che respiriamo in ogni situazione e con un futuro preoccupante.
Davanti alla chiesa, il tradizionale saluto del sindaco che Marco con poche parole ricambia dicendo “Auguro che tra parrocchia e amministrazione ci sia collaborazione, sono finite le storie di don Camillo e Peppone“ (Beccati questo e porta a casa!). Dentro nulla è cambiato: la corale, tanta gente, gli applausi (ai nostri tempi non si potevano battere le mani in chiesa), gli interventi strappalacrime del vecchio parroco in pensione che aveva seguito Marco da ragazzino e della superiora dell’asilo. A proposito, il discorso del vecchio parroco ha suscitato tenerezza e rispetto: un uomo che credeva veramente in quello che diceva, con un fare molto rispettoso: molte volte conta il modo con cui il messaggio viene proposto perché esso possa colpire e giungere a segno.
Dopo la comunione Marco prende la parola: “Vorrei dire anch’io due parole. Quel che avete detto sul sacerdozio va bene, ma questo è solo il 50%. Ora io vorrei aggiungere il resto, che ritengo essenziale per la mia vita”. Così dicendo, va’ a prendere il calice e la patena poste su un tavolo laterale e li mostra alla gente: “Cari amici, vedete questo calice? Un mio amico, compagno di lavoro quest’estate ha fatto le ferie in officina per tornire questo calice. Non è un lavoro da poco, essendo di acciaio. Lui è il mio migliore amico, a lui devo molto perché mi ha fatto crescere e maturare sul posto di lavoro. Vi dico queste cose perché io sono un preteoperaio e non voglio tradire la mia storia e quella della mia famiglia. Mio padre, morto a quarant’anni, era un operaio, anch’io sono su questa linea, soprattutto oggi in cui la testimonianza e l’essere dentro assumono un’importanza vitale. Come preti operai siamo ridotti ai minimi termini, molti, o meglio la maggioranza sono in pensione. Ma oggi c’è bisogno di queste persone”.
Poche parole ma che cadevano sugli ascoltatori come macigni. Negli interventi precedenti si parlava al massimo di rispetto delle sue scelte, ma mai in termini propositivi. Molti sono stati colpiti e questo l’ho potuto constatare durante il rinfresco della serata, dove la maggior parte delle persone, quasi nessuno aveva sentito parlare di preti operai. Molti mi hanno chiesto alcune informazioni. Per loro era un mondo sconosciuto.
Ne è passata di acqua sotto i ponti in questi decenni. La serata è stata un’occasione per pensare a quello che anch’io avevo detto nella mia prima messa: parlavo di evangelizzare i poveri. Era una pretesa, peccati di gioventù, perché i poveri non hanno bisogno di essere evangelizzati. Sono loro che portano il lieto annuncio ed anch’io mi sento evangelizzato da loro. Ormai mi sento parte di questa categoria, non esiste più l’io e il loro, ma il noi. Poiché siamo in clima di messa, ricordo le mie nella borgata Gregna, celebrate insieme alla gente: là ho rinunciato a predicare dall’alto sedendomi accanto a loro. Si discuteva e si rifletteva sul Vangelo in un dialogo continuo. Anche le vecchiette abituate ad assorbire per anni le prediche incominciavano a commentare le scritture partendo dalla loro storia. Ne uscivano dei pezzi veramente eccezionali. Mi capita raramente ora di celebrare in qualche chiesa e dico il fastidio che provo a trovarmi là in alto, davanti a un leggio o dietro un altare innalzato al di sopra delle persone. Mi sembra un palcoscenico. Non è questo lo stile del Falegname di Nazareth. Nella cappella dell’eremo il tavolo sta al centro, fatto con un tronco di olivo e gli amici si siedono attorno riuniti in cerchio: ci guardiamo negli occhi e vediamo i nostri volti. Ci sono momenti di silenzio, di ascolto reciproco e la preghiera nasce spontanea.
Mi ha fatto piacere sentire le parole di Marco che richiamavano alla storia della sua famiglia. Sono le stesse che mio padre nel 1957, accompagnandomi al seminario, mi disse: “Mario, se vuoi fare il prete onesto, giusto, fa come me: guadagna il tuo pane attraverso il lavoro manuale”. In questi mesi ho letto il libro di Roberto Sardelli, che molti di noi conoscono e che faceva parte del gruppo dei preti operai di Roma. Verso la fine del romanzo parla di una messa celebrata alle baracche dell’Acquedotto Felice. Il “Padre nostro mi sembra interessante ed esprime molto bene le nostre idee, ed è il contesto nel quale molti di noi si sono trovati e si trovano tutt’ora:
Padre, scendi dal cielo, se ci sei scendi.
Si muore di fame e sul marciapiede,
si muore nei tuguri e tra gli stracci.
Non sappiamo a cosa serve l’essere nati.
Troppe mani e troppi piedi gonfi,
troppi ventri vuoti, troppi seni asciutti.
Guarda come siamo ridotti!
Troppi i perseguitati,
troppe speranze spezzate.
Guarda come siamo ridotti.
Troppe solitudini, troppe angosce,
troppi privilegi di pochi, troppe miserie di molti.
Guarda come siamo ridotti!
Padre, scendi dal cielo, se ci sei, scendi.
Tocca la nostra carne.
Guarda dentro il cuore nostro.
Non abbiamo rubato e ci dicono ladri.
Non abbiamo lavoro e ci dicono fannulloni.
Non abbiamo ammazzato e ci dicono criminali.
Sì, te lo diciamo, Padre,
proprio non comprendiamo.
Se ci sei scendi dal cielo.
Dacci una mano, sporcati con noi i piedi,
cammina nel nostro fango.
Noi grideremo,
fino a farci scoppiare le vene in gola.
Il fischio del treno ti dirà dove stiamo.
Non ne possiamo più.
Abbiamo un cuore, siamo uomini.
Scendi a vedere cosa hanno fatto
delle tue creature.
(L’orecchio di Dionisio pp. 239 -240)
Anche Sirio Politi nel suo libro “Antico sogno nuovo” parla di una messa celebrata nella notte, all’aperto, dove i partecipanti sono tutti celebranti, non semplici spettatori.
L’ordinazione di Marco è un’ eccezione? Si sa che una rondine non fa primavera, ma per fare primavera ci vogliono anche le rondini. Chissà? Ai posteri l’ardua sentenza.