Il vangelo nel tempo
Questo intervento è stato pubblicato dalla rivista “Filosofia e Teologia” sul numero monografico dedicato a Bonhöffer, nel sessantesimo del suo martirio. Da parte della redazione, attraverso Armido Rizzi, mi è stata richiesta una testimonianza e la domanda alla quale mi sono attenuto era così formulata: “Il tuo incontro con Bonhöeffer”.
L’incontro con Bonhöeffer ha lasciato tracce profonde nella mia vita. È avvenuto in un periodo di effervescenza. Ero giovane prete: il ministero nelle ACLI mi aveva messo a contatto diretto con il mondo del lavoro e la dinamica post-conciliare aveva destato in me la necessità di andare oltre la formazione del seminario. La ricerca non avveniva solo sul piano intellettuale, ma era orientata verso una forma di vita più aderente al Vangelo. Emergeva una domanda di fondo: “che fare della mia vita?”.
Nel 1972 decisi di condividere la vita dei lavoratori: questo consentiva di mettermi in pari con quel mondo che avevo appena conosciuto e di vivere ministero ed annuncio del Vangelo in piena gratuità. Una svolta che segnerà tutta l’esistenza: una rottura e il cammino verso una nuova strutturazione della mia identità di uomo e di credente.
Sequela e Vita Comune erano tra le letture di quegli anni. Di Bonhöffer mi avvinceva la profonda unione tra pensiero e vita, tra assunzione di responsabilità e riflessione teologica. Il desiderio di conoscerlo mi portò ad accostare gli scritti dal carcere raccolti in Resistenza e Resa, i capitoli di Etica e la grande biografia scritta dall’amico destinatario delle lettere, pubblicata nel 30° del suo martirio.
Qualche decennio più tardi ho potuto approfondire le sue opere in maniera più sistematica chiudendo il curriculum della licenza in teologia ecumenica con la tesi: Theologia crucis in Dietrich Bonhöffer.
Nei 30 anni trascorsi al lavoro come operatore sanitario, immerso in una situazione assolutamente laica, Bonhöffer è stato compagno di viaggio, una figura di riferimento, un amico, di cui sentivo la forza e la presenza. Alcune sue immagini e parole, quasi stelle per il mio cammino, mi hanno aiutato a dare un nome a quanto stavo vivendo…
“Vorrei imparare a credere”
Questa illuminazione di Bonhöffer, incontrata agli inizi degli anni ’70, mi ha colpito nel profondo, perché dava espressione a quanto già stava avvenendo in me. La troviamo nella lettera del 21 luglio ’44, il giorno dopo il fallito attentato ad Hitler. Bonhöffer ricorda un colloquio avuto con un giovane pastore francese 13 anni prima, durante la sua prima permanenza negli USA:
“C’eravamo posti… la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo… la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contrastai, e risposi… io vorrei imparare a credere. Per molto tempo non ho capito la profondità di questa contrapposizione”.
Dalla cella del carcere, nel momento in cui si profila imminente l’esposizione alla vendetta hitleriana, consapevole che era giunto a questo punto per le decisioni responsabilmente assunte afferma: “Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato”.
Imboccare la strada. È proprio così. Ricordo la solitudine, una solitudine amica, quando sentivo premere in me la scelta del lavoro, ma anche la certezza interiore che trovo testimoniata in un mio scritto: “arrivai a percepire con chiarezza che era arrivato il momento. E quando il momento viene o si decide, oppure il rimandare può significare l’abbandono del progetto. Di questo ne ebbi coscienza lucida”.
Con il presentimento che la vita cambiava e cambiava per sempre. Avvenuta la decisione si fa largo una nuova comprensione della realtà ed anche della fede. Entrando in modo nuovo nel mondo, in territori sconosciuti, esposto ai contraccolpi e privo di protezioni, ti accorgi che devi imparare a credere e questo fa tutt’uno con il diventare uomo. Un lungo cammino…
“Lo sguardo dal basso”
Ho trascorso i primi 10 anni di lavoro nell’ospedale psichiatrico di Mantova. Ho partecipato alla lotta politica e sindacale contro l’istituzione manicomiale che prevedeva la concentrazione e il contenimento di centinaia di persone.
In quegli anni scrivevo: “La visione quotidiana di una massa di persone ridotte ad oggetti, senza la possibilità di esprimere una loro residua soggettività unita alla percezione che la quasi totalità non avrebbe mai conosciuto una diversa qualità della vita (oltre che un oscuro senso di impotenza) determinava in me quesiti che toccavano il cuore del mio credere: che senso hanno queste esistenze, molte delle quali sono segnate per sempre dalla impossibilità del cambiamento? Chi restituirà la vita a quegli infelici? Da allora per me la fede ha preso il volto di una giustizia che deve compiersi, che assolutamente non può mancare”.
Dal manicomio, dove la svalutazione degli esseri umani appariva quasi allo stato puro, guardavo al mondo e più chiaramente cominciava a svelarsi la violenza diffusa, l’ingiustizia sistematica.
Questa esperienza si arricchiva anche delle narrazioni dei miei compagni preti operai alle prese con il lavoro nelle fabbriche e nei cantieri.
Si sviluppava così un abitus che mi portava a guardare le cose dal basso, dalla stiva della nave. Lascio immaginare quanto siano penetrate in me quelle parole che troviamo a conclusione di “Dieci anni dopo, un bilancio sul limitare del ’43″, riflessioni donate da Bonhöffer ad alcuni amici pochi mesi prima della sua carcerazione:
“Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato alla fine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti”.
Polifonia
È una metafora che ho imparato da Bonhöffer con la quale egli descrive la consistenza, il valore della vita umana, nelle varie espressioni, pensata nel suo rapporto con Dio. Le voci multiple della polifonia sono immagini dello svilupparsi pieno e creativo delle autonomie umane (nelle lettere del 20 e 21 maggio ‘44 si riferiva rispettivamente all’amore tra uomo e donna, ed alla compresenza di gioia e dolore), fuori da tutele mortificanti, ma senza separatezza da quella di Dio che rimane costante sul fondo (cantus firmus).
“Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può svilupparsi col massimo vigore. Per dirlo con il Calcedonese l’uno e l’altro sono ‘indivisi eppure distinti’, come lo sono la natura umana e divina di Cristo. La polifonia in musica non ci sarà magari così vicina e importante per il fatto di costituire il modello musicale di questo fatto cristologico e dunque anche della nostra ‘vita cristiana’?”
I diversi livelli della vita debbono possedere una loro consistenza piena. Non nella repressione di questo o di quello, o nella sopravvalutazione di un aspetto su tutti gli altri, avviene la polifonia. La metafora consente di affermare musicalmente che la vita è buona ed è un bene. E Colui che solo è buono non si pone in concorrenza o in alternativa con il bene della vita umana, anzi è Lui stesso a sostenerla e richiederla, così come il cantus firmus si correla sostenendo le voci del contrappunto.
Questa visione musicale mi ha aiutato a superare la scissione tra ‘ciò che riguarda Dio’ e ‘le cose umane’, tra la dimensione cultuale e quella dell’azione responsabile. Il cantus firmus è presente nell’eucarestia che celebro, ed anche nel lavoro professionale; nell’impegno ecumenico come nell’assistenza quotidiana a mio padre ammalato. Non so più attribuire maggiore importanza alle cose che riguardano la chiesa rispetto a quelle che accadono nella storia concreta e che concernono la qualità della vita delle persone.
Credo che il superamento della scissione abbia significato per me la fine del clericalismo, che di essa si nutre, e quindi una maggiore unità interiore e l’apertura ad una nuova universalità.
Ovunque e in ogni vita, al di là di ogni confine, può avvenire il contrappunto di voci che in qualche modo fanno riferimento al cantus firmus. Come ovunque, anche nei luoghi più sacri può insinuarsi la perversione e la distruzione della relazione polifonica.
Disciplina dell’arcano
Nel mio lungo itinerario credo di aver scoperto ed appreso la disciplina dell’arcano, “quella che protegge i misteri cristiani dalla profanazione” (lettera del 5 maggio ’44). Di mia iniziativa non ho mai sfruttato le occasioni per orientare il discorso sulle cose religiose. Così scrivevo nel 1985: “Andare dove non ci sono segni religiosi, non tanto con l’intenzione di farli nascere, ma per vivere e comunicare con queste realtà umane… Ecco: essere presente. Mi propongo di vivere una presenza solidale tra la gente che conosco e posso incontrare nella condizione di lavoro, nei momenti sindacali, cercando di operare la giustizia, senza attendermi chissà quali realizzazioni; scoprendo e dilatando la gratuità dei rapporti. Condurre una vita nelle medesime condizioni degli altri… Nella semplicità laica, pur conosciuto da tutti come prete… Finisce che qualcuno si domanda: ‘ma questo perché fa così?’… Essere punto di domanda che rimetta in questione l’ovvietà di una fede separata dalla vita…”.
Vi è un silenzio che non è reticenza, ma l’affidare tutto alla forza della vita vissuta, alla comunicazione che avviene nel cammino comune. È spazio lasciato all’altro, all’interrogazione e quindi a possibilità imprevedibili.
Il silenzio è parte essenziale della disciplina dell’arcano, è quello da cui può sbocciare la parola disvelante.
È sempre rimasto impresso in me quello che Bonhöffer scriveva al nipote Dietrich Bethge per il giorno del battesimo:
“Le parole d’un tempo devono perdere la loro forza e ammutolire, e il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell’operare la giustizia tra gli uomini. Il pensare, il parlare, l’organizzare, per ciò che riguarda la realtà del cristianesimo, devono nascere da questo pregare e da questo operare” (maggio ’44).
Chiudo questi brevi flash, richiamando ancora la lettera del 21 luglio dove Bonhöffer, quasi in un testamento, manifesta la certezza a cui è pervenuto:
“Più tardi ho appreso e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere – aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle mani di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getzemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani”.