Il vangelo nel tempo
Seconda parte di una meditazione sulla pace
di Giordano Remondi, monaco di Camaldoli
Il titolo di questa seconda meditazione sulla pace riprende quello della prima, pubblicata sul n. 65 del febbraio 2005: «ll contenuto dell’attesa messianica: shalom». Pur essendo urgente una inedita cultura di pace, ispirata dalla Bibbia ma non elaborata usando solo categorie religiose, tuttavia noi cristiani abbiamo il compito di rendere ragione di Cristo nostro shalom pasquale, nel quale convergono i tre nomi della pace individuati sulla base, della Bibbia intera.
In tale convergenza vedremo come Cristo porti a compimento l’attesa profonda di una vita piena, radicata nella fede in un Dio che «dà a sufficienza», di volta in volta, una pace/prosperità o una pace/armonia o una pace/salvezza. Tuttavia c’è uno spostamento se diciamo che Cristo è nostro shalom: infatti, grazie ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini (2, 11-19), che nella Bibbia possiamo riconoscere come un unicum, Cristo da promessa divina di un dono diventa già il dono stesso della pace da vivere. In sintesi, è Lui stesso la pace nel suo corpo di crocifisso: mentre dona la vita, compie una tale opera di comunione tra popoli diversi da togliere qualsiasi motivo alla logica della inimicizia.
Ora, desta meraviglia il grave oblìo subito dall’espressione «Cristo è la nostra pace», che fu ripresa dal beato papa Giovanni nelle righe finali della Pacem in terris (1963). Dopo più di quarant’anni il recupero ad ogni livello è stato enorme, come già scrivevo:
«Il passo di Ef 2, 11-19, se allungato fino al v. 22, è stato considerato la pietra miliare di una Chiesa che si riconosce dimora dello Spirito Santo, del quale però non è l’esclusiva depositaria. È quindi un passo che, illuminando il legame profondo tra Cristo crocifisso e la Chiesa (è lo scopo del resto di tutta la lettera), ci consente di disporre sullo stesso piano la ricerca ecumenica, il dialogo interreligioso o interculturale e l’impegno per la pace».
Il brano di Ef 2, 11-19 è assai complesso e presenta delicati problemi di traduzione, come si vede da alcuni accorgimenti grafici:
[2, 11] Ricordatevi che una volta voi, pagani (fin) nella carne, qualificati come «prepuzio» da chi si definisce circonciso nella carne per mano di uomo,
[12] eravate senza Messia, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei alle disposizioni della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo.
[13] Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini con il sangue di Cristo (tr. R. Penna).
[14] Egli infatti è la nostra pace, colui che
– ha fatto di ambedue una cosa sola (oppure: un’unità che nasce dai due, secondo la nuova traduzione CEI del 1997, e non già «dei due un popolo solo» secondo l’attuale versione CEI liturgica),
– ha abbattuto il tramezzo del muro divisorio,
– [15] ha annullato l’inimicizia nella sua carne, la legge fatta di comandamenti in (forma di) decreti,
* per creare in lui dei due un solo uomo nuovo, facendo (la) pace,
* [16] e per riconciliare entrambi con Dio in un solo corpo mediante la croce, uccidendo l’inimicizia.
[17] Ed è venuto a proclamare pace a voi lontani e pace ai vicini,
[11] poiché mediante lui abbiamo ambedue accesso al Padre in un solo Spirito.
[19] Perciò non siete più stranieri né forestieri (ospiti), ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio (tr. G. Barbaglio).
Il tema di fondo può essere così riassunto:
(a) Cristo è la nostra pace/armonia nel suo corpo crocifisso, inedita unità tra diversi…
(b) …che rende visibile un cambiamento profondo di mentalità umana e religiosa (pace / riconciliazione),
(c) che la Chiesa è chiamata a testimoniare sia nei rapporti dei popoli tra loro, sia nel modo di concepire l’accesso a Dio (vangelo di pace/bene-essere universale).
Come in musica, il pregio del tema – una pace che cambia l’immagine di Dio e dei rapporti religiosi tra gli uomini – dipende dalle «variazioni» e dallo «sviluppo»: le prime sono sempre riconoscibili, mentre per il secondo ci vuole molto orecchio per seguire il tema nelle sue profonde rielaborazioni. Allora siamo obbligati a procedere in modo rigoroso.
a) La prima questione è stabilire donde trae origine l’inedita, singolarissima, unità in Cristo, che è già «nostra pace» nel suo corpo crocifisso, al punto da «creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo» (v. 15: si ricordi che il termine «nuovo» nelle Scritture cristiane, quando c’è il termine greco kainòs, va sempre inteso come «inedito», cioè qualcosa che non è mai esistito prima, senza per questo implicare alcuna sostituzione del «vecchio»).
La questione è legata ai destinatari della lettera. La comunità ecclesiale di Efeso, fiorente e colta città di mare sulla sponda orientale del mar Egeo (oggi Turchia occidentale), era costituita, con ogni probabilità, da una maggioranza proveniente dal paganesimo e da una minoranza (qualificata, sembra) proveniente dal giudaismo. Ora, quel «voi» all’inizio del brano è riferito chiaramente agli expagani, appunto i lontani, ma visti nel loro rapporto con i vicini, gli ex-giudei. Paolo parla ai primi ma la lettera si rivolge a tutta la comunità, perché mediti su quello che ha già detto e sta per dire.
L’identificazione dei lontani e dei vicini è affidata al segno dell’appartenenza, la circoncisione, piuttosto che ad altri aspetti a cui noi oggi saremmo più sensibili… Perché questo? Perché di fatto i popoli non andavano tanto per il sottile: la questione religiosa è stata, prima di tutto, una questione di legame culturale tra i membri di una società, per formare una solida mentalità collettiva. Se regge questa scommessa di lettura che proviene dall’interno del testo, allora ci si può rivolgere ad altri brani per trovare la spiegazione dei cattivi rapporti tra pagani e giudei. Nella diaspora c’era molta conflittualità, perché al disprezzo dei giudei che si sentivano superiori ai pagani (intesi come dei «cani»; v. anche Mc 7, 27 e Mt 15, 26), rispondevano questi ultimi con calunnie, ma anche con giudizi che sottolineavano l’ostilità subita. In pratica, uno scontro bipolare basato sull’ideologia del «dentro-fuori», circoncisi e incirconcisi, vicini e lontani.
E ad Efeso, che cosa succedeva? I due gruppi non avrebbero dovuto cambiare mentalità diventando cristiani? Dal quadro complessivo si deve dedurre che lo spirito di contrapposizione non si era ancora spento, anche se non dovrebbero esserci state violenze da parte della maggioranza pagano-cristiana sulla minoranza giudeo-cristiana. Tuttavia, se fosse rimasta la divisione rigida in «correnti», Paolo intravedeva il grave pericolo di arrivare ad una frattura disgregatrice, con la conseguenza di un anatema reciproco. Proprio all’inizio del cap. 2 ammonisce i pagano-cristiani poiché rischiano di inseguire degli idoli, mentre teme che i giudeo-cristiani siano dei ribelli alla volontà divina di comunione universale.
Come essere allora conviviali nella stessa Chiesa, per testimoniare la novità di Cristo? Questa dovrebbe essere stata la domanda che circolava in quel tempo. Paolo, per rispondere, doveva trovare un argomento che non si ponesse soltanto a livello etico. La reciproca diffidenza doveva essere superata per l’inedito legame «in Cristo». Ecco la prima intuizione del passo, veramente straordinaria nello stesso Nuovo Testamento: il corpo del crocifisso è un corpo di pace, luogo paradossale di un incontro che «crea» l’unità per tutti, al punto tale da essere anche il simbolo della nuova umanità.
Senza cadere nell’equivoco indotto dall’attuale traduzione CEI usata ancora nella liturgia: l’unità in Cristo non fa nascere un «terzo» popolo, una terza «etnia» che si aggiunge a quella pagana e a quella ebraica. Non si forma un popolo solo dei due, ma l’essere «in Cristo» implica l’unità dei diversi fra loro, e ciò vale soprattutto per quanti sono diventati cristiani, affinché non siano più schiavi delle rispettive provenienze. Ma si può altrettanto dire che l’unità in Cristo riguarda il genere umano, per cui non ha più senso nemmeno la contrappo-sizione (o inimicizia) verso coloro che restano pagani o ebrei.
L’unità nel sangue di Cristo è un’armonia che si manifesta nelle relazioni di concordia anche tra chi può avere motivi ragionevole di conflitto. Inedita unità a caro prezzo, ottenuta con due azioni riportate nei vv. 14-15: la prima abbatte ciò che fa da ostacolo, mentre la seconda sradica l’inimicizia che ne sta alla base, ovvero l’idea stessa di concepire i rapporti secondo lo schema «amico-nemico». Era proprio questa la barriera metaforica. che separava ancora i giudeo-cristiani dai pagano-cristiani nella comunità di Efeso.
b) Per cogliere meglio la prospettiva del cambiamento di mentalità offerta dall’inedita unità in Cristo, è illuminante il parallelo con la lettera ai Colossesi. Qui Paolo collega in modo strettissimo pace e riconciliazione, termine quest’ultimo che nell’originale greco mette in evidenza proprio la svolta di chi è «nuova creatura» in Cristo. Tuttavia, lo scopo è specificato in modo un po’ diverso rispetto a Ef 2,11ss. Ai Colossesi occorre mostrare il primato di un evento che tende Cristo «capo» in un modo alternativo alle potenze mondane: «Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui ricomporre tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1, 19-20; c’è la stessa questione delle potenze in Ef 3, 10 e 6, 12).
Perché il sangue del crocifisso rappacifica? Perché, nel trinitario disegno di ricomposizione (o ricapitolazione) di tutto, è sanata qualsiasi frattura tra cielo e terra. Gesù Cristo con l’offerta di sé opera l’accordatura radicale tra due mondi di solito contrapposti secondo lo schema «alto-basso». Mentre invece proprio in questa visione cosmica dualista erano imprigionati i destinatari della lettera, perché si erano lasciati influenzare dall’idea di intermediari potenti del divino, necessari per colmare una distanza tra cielo e terra giudicata abissale.
Allora Paolo invita i Colossesi a cambiare mentalità, a non rifugiarsi in tali ideologie, diremmo oggi, che danno sicurezza e vantaggi ma svuotano l’abbassamento del Figlio di Dio fino alla morte di croce. La kenosis – la chiave di volta della teologia paolina – è il contrario di un mondo concepito dall’alto al basso. Dio infatti non si è collocato su un piedistallo per donarci la riconciliazione profonda dei rapporti, ma nel Figlio compie per sempre la scelta preferenziale di guardare la storia dal punto di vista delle vittime.
Una scelta, questa, da parte di un Dio che abolisce qualsiasi forma di predominio (sulle coscienze, sui cittadini, sugli altri credenti). Non era sufficiente la nascita di Gesù fuori dei palazzi del potere per fare la pace tra cielo e terra. Bisognava che Gesù Cristo snidasse la logica dell’arroganza, della hybris, cioè del peccato d’orgoglio che opera sempre una separazione diabolica. Mentre proprio l’unità pacificante sta al centro di Ef 2, 16, dove viene espressa la finalità dell’azione positiva del crocifisso nel suo corpo: entrambi, pagani ed ebrei, sono riconciliati con Dio Padre così da formare in Cristo un solo corpo.
I due aspetti di «Cristo pace che fa opera di pace» potremmo allora tentare di rielaborarli nel modo seguente: quell’unica comunità concreta di Efeso è il simbolo dell’umanità nuova, unificata dal sangue di Cristo, che è nostra pace sulla croce perché fosse tolto il pesante giogo di ogni appartenenza rigida. Affinché diventassero un solo corpo, i singoli membri dell’umanità nuova sono stati riconciliati con Dio Padre, cioè sono stati chiamati ad un radicale cambiamento di mentalità: perdere l’orgogliosa autosufficienza, che è una forma d’idolatria nella misura in cui rivendica, dapprima accanitamente e poi bellicosamente, il predominio della propria identità contro quella altrui.
c) Il testo, nei versettì 17-19, si rivolge direttamente a coloro che fanno parte della comunità di Efeso, perché riconoscano che sono stati coinvolti da Cristo nell’essere «vangelo di pace».
Ef 2, 17-18 riprende alcuni concetti precedenti, ma con un’aggiunta assai significativa: ambedue i gruppi che formano la nuova umanità in Cristo crocifisso accedono direttamente a Dio Padre, per questo Cristo diventa «vangelo di pace per voi lontani e per voi vicini». Parafrasando: nel Figlio c’è un’unità inedita che diventa la stessa buona notizia della pace da testimoniare: se è sradicata qualsiasi logica di superiorità, allora non ci sono nemmeno corsie privilegiate per incontrare Dio e essere in comunione gli uni gli altri.
Con il «perciò» del v. 19 si delinea la conseguenza per la Chiesa unita dalla pace in Cristo: non ci sono più stranieri, cioè senza diritti, né forestieri-ospiti, cioè senza uguaglianza, dal momento che tutti sono concittadini di santi, hanno, cioè, pari dignità fraterna e sono familiari di Dio, vivono cioè, accomunati dallo stesso destino.
Le due coppie positive costituite dalla pari dignità fraterna e dal comune destino di fronte a Dio, dischiudono molte conseguenze alle quali oggi siamo sensibili a vario titolo per elaborare una inedita cultura di pace.
Per una appassionata cultura di pace non ideologica
Il testo di Ef 2,11-19 ridisegna lo shalom biblico, senza distaccarsi da esso. C’è uno spostamento dell’immagine di Dio, del compito dei cristiani nel mondo e della missione della Chiesa, che tento di ricapitolare.
In primo luogo, l’immagine di Dio Padre nel Cristo nostra pace rende inconcepibile una pace dei cuore che non sia disposta a vivere relazioni di coesione e di unità in tutto le situazioni che lo richiedono:
«L’accento è posto sul carattere sociale dell’Opera di Dio, che si porrebbe in contrasto con l’individualismo di un ipotetico Paolo esistenzialista. Secondo Efesini, invece di salvare solo le anime, Dio stabilisce la sua regalità sul cielo e sulla terra, tra Israele e le nazioni, nella Chiesa e contro i poteri dei mondo» (A. Ruberti).
In secondo luogo, i cristiani sono chiamati a testimoniare la pace come il diritto/dovere inerente alla convivenza stessa su ogni scala:
«L’affetto radicale letteralmente “inerente” alla vita di una comunità è la passione della pace. Espressione che raccoglie in sé queste disposizioni: sentire in essa la propria vocazione; avere a cuore qualsiasi passo utile a prepararne le condizioni; confidare nella cura quotidiana della qualità delle relazioni comunitarie; sviluppare una sana allergia per tutto quello che è dominativo, violento, distruttivo, innaturale rispetto alla dignità creaturale umana; vivere con gratitudine l’ospitalità; mantenersi pronti a consolare – nell’illuminante e irrinunciabile accezione di questo verbo – le vittime della mancanza di pace; nutrire la fiducia nel progresso possibile e lasciare che l’arco del desiderio personale e collettivo sia tenuto testo dalla speranza di una comunione universale» (R. Mancini, L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004) .
In terzo luogo, la missione della Chiesa prende una luce diversa, visto che l’unità di Cristo pace sulla croce è quella con il genere umano. La Chiesa è chiamata a farsi dono pacificante e riconciliante dove sembrano prevalere la logica della contrapposizione violenta, E lo fa insieme con tutti coloro che si sono appassionati alla pace, senza degradarla ad ideologia:
«I primi a far parte di queste categorie dovrebbero essere gli ebrei e i cristiani, ispirati anche da motivi religiosi. Lo sostiene, in un recente libro, Moni Ovadia, l’ebreo di origini bulgare cresciuto in Italia (Vai a te stesso, Einaudi, Torino 2002), La Bibbia, in effetti, ha consegnato all’umanità un grande dono: il monoteismo e l’idea di creazione dell’universo. Queste verità comportano il riconoscimento assoluto della dignità di ogni essere umano. Se a YHWH tutto va ricondotto come all’unica origine, vengono a cadere le ragioni di separazione e di conflitto, che qualcuno si ostina a dedurre dai concetti di etnia e di nazione. I termini stessi di “straniero” e di “nemico” perdono senso. E chiunque tenta di riesumarli, sia esso ebreo o cristiano, tradisce la propria fede, bestemmia Dio, ricade nell’idolatria» (F. Pasetto, Pacifismo profetico e pacifismo politico, EDB 2003).