Editoriale


 

Sono 40 anni che si è concluso il Concilio Vaticano II. Si fanno commemorazioni. Le riviste teologiche tracciano dei bilanci. L’ultimo numero di Concilium ha per titolo: “Vaticano II: un futuro dimenticato?”. Naturalmente vi sono posizioni e celebrazioni che reclamizzano l’adempimento fedele degli orientamenti conciliari.
Noi abbiamo pensato di riferirci al Concilio per sottolineare un unico punto che, almeno in Italia e nel magistero romano, ci sembra assente. La lingua batte dove il dente duole. E proprio quel punto è stato per noi uno dei motivi decisivi per la scelta di vita come pretioperai.
Parliamo della “chiesa dei poveri”.
Conviene dare la parola a testimoni qualificati di quella stagione conciliare:
La Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la chiesa dei poveri. Donde viene questa frase, cento volte citata? L’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, fu diffusa per il mondo dalla Radio vaticana e dalle emittenti di diverse nazioni.
Alcuni poterono vedere alla televisione Giovanni XXIII mentre pronunciava quelle parole profetiche. Il suo volto era segnato dalla malattia, ma come sempre, sorridente e radioso. Egli si rivolgeva al mondo intero come avrebbe fatto, sei mesi più tardi, con la Pacem in terris. Accanto a papa Giovanni, la televisione mostrava, simbolo eloquente, un enorme mappamondo.Quel messaggio all’umanità resterà come uno dei migliori Atti della Santa Sede (Paul Gauthier, La Chiesa dei poveri e il Concilio, Firenze 1966. Questo libro ricco di documenti interessantissimi è stato commissionato a Paul Gautier da 15 padri conciliari ampiamente rappresentativi dell’episcopato mondiale. Le citazioni sono tratte da questo libro).

Due mesi dopo il cardinale Montini, arcivescovo di Milano, scriveva ai suoi diocesani (20 dicembre 1962):
“I popoli attendevano dal Concilio due cose molto semplici: innanzitutto l’unità dei cristiani e poi la solidarietà dei vescovi, e per mezzo di essi della Chiesa, con tutti i lavoratori e i sofferenti del mondo”.
Diventato Paolo VI nel giugno dell’anno dopo, Montini ebbe a dichiarare: “Bisogna che noi liberiamo la Chiesa dal manto regale che da secoli è stato gettato sulle sue spalle” e nel suo pellegrinaggio in Palestina, nel gennaio 1964, dopo aver percorso con fatica la Via Dolorosa, dinanzi alla pietra del Santo Sepolcro elevò una preghiera carica di umiltà nel riconoscere i peccati anche degli uomini di Chiesa:
“…Si riassumano in sincero dolore tutti i nostri peccati, si riassumano quelli dei nostri padri, quelli della storia che fu, si riassumano quelli del tempo nostro… Ecco, o Signore Gesù, noi siamo venuti come ritornano i rei al luogo e al corpo del loro delitto, noi siamo venuti come chi Ti ha seguito ma Ti ha anche tradito, fedeli infedeli tante volte siamo stati…”(L’Osservatore Romano, 6 gennaio 1964).
Jean Guitton a nome di altri laici credenti, così si esprimeva: “Uno dei fini di questo Concilio è di ritrovare il Cristo più che mai sotto la presenza dei poveri. Si sa che questo Concilio vuole ritrovare nella Chiesa il sacramento della povertà, la presenza del Cristo sotto le specie di quelli che soffrono. Se il Concilio facesse questo, riuscirebbe a prendere quota e spoglierebbe la Chiesa delle sue false ricchezze per servire Dio sotto la forma dei poveri”.
Dimenticare o oscurare quel grande movimento che si è sviluppato dentro e fuori le aule conciliari – che si può riassumere con le parole del card. Mercier: “la Chiesa non sarà la Chiesa dei poveri se non sarà essa stessa povera” – significa amputare tutto il messaggio del Vaticano II. Significa andare a cercare tra i suoi documenti la lettera, come facevano gli scribi che hanno indicato ai Magi d’oriente la strada per incontrare il Gesù povero di Betlemme, senza muoversi per andare effettivamente ad incontrare quel Gesù. Significa condannarsi alla sterilità evangelica.
Sicuramente non sarà la disponibilità di cospicue sostanze economiche, garantite anche da accorte compromissioni politiche nella nostra diletta Italia, che daranno alla Chiesa italiana un look che la avvicini al messaggio di Gesù di Nazareth. Nel quarantesimo anniversario della chiusura del Vaticano II il mensile della FACI (associazione federazioni del clero in Italia) che arriva in tutte le canoniche della penisola nella copertina del numero di novembre riportava questo titolo: “ gli enti ecclesiastici riconquistano l’esenzione Ici ” (anche per gli edifici adibiti ad attività commerciale). Naturalmente a spese di altri. Un linguaggio corporativo e lobbystico, lontano mille miglia da quello dei numerosi padri conciliari che invocavano la Chiesa dei poveri. Grande vittoria dunque per i bollettini ossequienti che ripetono la vulgata dell’attuale direzione della CEI! Ma per molti credenti è invece una sconfitta, non delle loro opinioni, ma di quell’ispirazione profondamente evangelica che si è sviluppata nel clima conciliare.
Giovanni XXIII nel suo testamento spirituale scrisse: “Nato povero, sono contento di morire povero… al servizio dei poveri”.
René Laurentin, esperto del Concilio, dopo la sua morte ebbe a dichiarare:
“(…) La Chiesa deve ridiventare su scala mondiale la Chiesa dei poveri. In questo quadro essa ritroverebbe pienamente la sua vera missione, che non è quella di realizzare delle imprese clericali nel mondo, ma di ispirare, di animare profeticamente la buona volontà delle masse che sono preoccupate dai problemi della miseria, della fame, dell’esplosione demografica”.
La leggenda ci narra di Gesù che incontra Pietro sulla via Appia e gli domanda: quo vadis ? Dove vai?
Immaginiamo che la stessa domanda venga oggi rivolta alla Chiesa italiana: quo vadis ?

In questo numero si propone un mini-dossier in due parti:

1. la chiesa dei poveri
2. voci da Chiese locali

Roberto Fiorini


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