INCONTRO NAZIONALE 2006 PO E AMICI
“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”



C’era una volta… la chiesa dei poveri . Che è mai questo, si dissero gli ebrei nel deserto (Es 16, 15) quando, la mattina dopo le grandi mormorazioni contro Mosè e Aronne, videro, vaporata la rugiada, “qualcosa di fine, granuloso, minuto come la brina della terra”. Avevano fame, rimpiangevano le pentole di Egitto. Ma quello strato mai visto che cos’era? Dicono che nel loro linguaggio l’interrogarsi reciproco su un oggetto sconosciuto s’esprimesse così: man-hu?
Dovessimo anche noi usare lo stesso linguaggio degli ebrei del deserto, svegliandoci e trovandoci immersi, per incantamento, in una chiesa detta chiesa dei poveri (un deserto?), chissà se ci interrogheremmo anche noi così: man-hu?
L’interrogativo campeggia sulla copertina dell’ultimo numero 2005 della rivista Pretioperai, a indicare che sarà questo il tema del loro convegno nazionale di fine aprile, il loro modo di celebrare il XL anniversario del Vaticano II e l’occasione per interrogarsi sul senso della loro scelta di pretioperai che dicono profondamente legata a questa visione nata negli ambienti conciliari e subito diventata quasi una definizione della stessa chiesa Popolo di Dio, sacramento si salvezza.
Penso sia opportuno farvi una riflessione giacché, quando si parla di chiesa e di poveri, è impensabile non sentirsene coinvolti, per l’uno o per l’altro termine; nel mio caso poi può essere doveroso, giacché per qualche anno indossai la tuta antiacido dell’operaio chimico turnista. I miei giovani confratelli che, a differenza di me, hanno risolto il problema del trattino fra prete e operaio annullandolo addirittura, parlano di chiesa dei poveri legata alle speranze conciliari e alla loro decisione come preti di assumere la condizione del povero, di cui l’operaio era una riconosciuta icona. Per me fu un po’ diverso, ed è una ricchezza potersi integrare in un’unica conclusione.
Veleggiavo allora nel mezzo del cammin di nostra vita: il Concilio s’apriva infatti nell’ottobre del 1962 e io in maggio avevo compiuto i 35 anni. Mi arrotondai anch’io la bocca con l’espressione “la chiesa dei poveri”; in francese, soprattutto, era più musicale a udirselo di dentro: église des pauvres , sentite che carezza? E che dolcezza parare tutte le accuse in “ismo”, dato che a quei tempi quando c’entravano i poveri, era normale dalle mie parti dove il partito comunista era considerato, dalla quasi totalità dei salariati agricoli e da altra piccola gente il partito dei poveri, che un prete parlandone, se proprio non votava comunista, era (taglio corto) almeno un utile idiota . Don Mazzolari, che era della mia diocesi, ne racconterebbe di gustose.
Ne parlò Giovanni XXIII nel suo messaggio a un mese dall’apertura del Concilio: “La chiesa si presenta qual è, e vuole essere, come la chiesa di tutti e particolarmente la chiesa dei poveri”. Ricordo che c’era già stata la Mater et Magistra a spalancare porte e finestre in un cenacolo da troppo tempo chiuso per paura; durante la prima sessione del Concilio veniva promulgata la Pacem in terris , la Pace dei poveri. Anni pieni di speranza, certo, che lasciavano intravedere nella chiesa una nuova stagione di fioriture primaverili. Credo che non ci fosse prete che, almeno una volta, non si sia vantato in predica, in occasione di qualche festa del lavoro, della sua chiesa dei poveri.
Eppure non fu una novità, anche se poteva mostrarne le parvenze. Basti pensare a come i beni della chiesa venivano definiti (e il portafogli è il banco di prova infallibile per dichiarare la credibilità d’una affermazione): patrimonio dei poveri, addirittura. E non da pochi secoli, da sempre. Non è che io inventi qualcosa o tenti di abbellire o anche solo di legittimare le mie scelte gratificandole in tempi di carestia, ma è proprio così. Anche se l’espressione non era entrata nel linguaggio, era molto presente e urgeva la tensione a che la chiesa apparisse e fosse il più possibile il luogo dove i poveri si fossero sentiti a casa loro. Era possibile, come capitò a me, scrivere sull’immaginetta-ricordo della prima messa, il versetto del salmo XI: “per la sofferenza degli umili e il gemito dei poveri”. L’avevo scritto in latino, penso per la vergogna di apparire ridicolmente presuntuoso. Voglio far notare che la preposizione per poteva avere valore tanto causale che finale. Come dire che diventavo prete perché c’erano dei poveri che potevano dare senso alla mia scelta, perché, nonostante tutto, la chiesa era dei poveri. Se non avessi avuto questa certezza difficilmente avrei fatto il passo avanti del suddiaconato, significante l’accettazione del celibato come condizione per l’ordinazione sacerdotale.
Chi ha avuto esperienza diretta di quegli anni sa attraverso quale temperie un giovane dovette passare per approdare al sacerdozio nel 1950. Ricorderò solo una data troppo spesso rimossa per la lacerazione che si produsse nell’unico tessuto socio-ecclesiale: il 18 aprile 1948, elezioni del grande scontro fra i due blocchi (toh, sembra una fatalità questo mese di aprile, che contiene pure, a luminosa speranza, il 25!).
Paradosso per paradosso, voglio dire ai miei giovani confratelli pretioperai che, mentre loro cercano le ragioni per cui è scomparsa nelle commemorazioni del XL del Concilio la definizione chiesa dei poveri , non si sono accorti che da 20 anni gliela avevano già sfilata via sotto gli occhi. Guardate pure tutto attorno, ma cercherete invano; non c’è più chiesa dei poveri non essendoci più un patrimonio dei poveri, diventato, per incantamento di poteri concordatari che sanno perfino cambiare il DNA della storia (dite che non ci fu un mutamento simile anche con il falso della Donazione di Costantino?), il patrimonio del clero. L’argomento è sottile, non immediatamente coglibile, ma non specioso. Ed eccolo. Se i beni ecclesiastici erano detti patrimonio dei poveri e la chiesa amministratrice di essi, una volta che la chiesa è passata dall’amministrazione alla proprietà con l’istituto per il sostentamento del clero ciò significa che c’è stata l’eliminazione dei beneficiari dei beni, i poveri. Una volta, anche solo per una minima sottrazione di tali beni, la chiesa scomunicava e definiva “necator pauperum”, assassino dei poveri, chi avesse osato. Che avrebbe detto la chiesa di allora (chiamiamola pure, en passant , quella delle radici cristiane!) di fronte a tale mutamento genetico del patrimonio di cui si dichiarava solo amministratrice?
Il fattaccio capitò pressappoco nel mezzo del cammin del quarantesimo e, cosa stranissima ma non tanto, per la sua entrata in opera si scelse un 25 gennaio, festa, come ben si sa fra preti, della Conversione di san Paolo. Chi poi avrà fatto coincidere questo capolavoro di metamorfosi con la festa avrà pensato che anche la conversione è una metamorfosi, per cui i due avvenimenti si sostenevano reciprocamente nel nuovo cammino che si intraprendeva? Senonché la conversione del patrimonium pauperum significò la garanzia economica di chi annuncia il Dio gratuito verso il quale fu attratto irresistibilmente e per pura Gratuità e per sempre Paolo sulla via di Damasco. Fu in seguito a quella luce abbagliante di Gratuità, infatti, che Paolo, quando iniziò la sua missione di annunciatore dell’evangelo, rifiutò radicalmente tutto quanto potesse risultare un contraccambio per tale missione.
Volevate, dunque, sapere dove è finita la chiesa dei poveri che v’aveva pure spinto nella vostra scelta di pretioperai? Ecco, da quel 25 gennaio 1987 non c’è più bisogno di cercarla: facendo proprio il patrimonio dei poveri, la chiesa, questa nostra chiesa, s’è dichiarata un tutt’uno coi poveri. Dite che non è questa la chiesa dei poveri cui facevate e fate ancora riferimento? Nemmeno per me, quando scelsi, gioiosamente e liberamente, di compiere il passo in avanti, molti anni prima del Concilio. E adesso? Nemmeno adesso che molta, infinita acqua, pulita, limacciosa, placida, agitata è passata sotto il ponte di ferro della mia città, lungo 1700 metri, dalla cui passerella per pedoni, proprio a metà ponte, mi sporgevo incantato fin da ragazzo (placido Po, maestoso, discolo, tenerissimo come il primo verde dei tuoi pioppi e ontani che ti scortavano, padre Po, padre di buongusto alla maniera d’una incisione del Campi per Cremona fedelissima, si capisce, che unifica in sé tutte le acque).
E qui m’allineo anch’io con voi, anche se la mia scelta non fu tanto quella della condizione operaia (e voi ne sapete la ragione, oltretutto contenuta in pagine che poterono suscitare qualche incomprensione), quanto di esercitare un lavoro per mantenermi e non fare più dipendere il mio sostentamento dal fatto di essere prete. Ma che importa? Il movente fu sempre uno solo, il Povero, la chiesa dei poveri, o prima, o durante, o dopo il Concilio, e una sola la condizione operaia in cui ci trovammo e che amammo. Come uno solo il nostro sentirci chiesa giacché, indipendentemente dalla nostra personale posizione in essa e di fronte ad essa, una cosa è certa: con il lavoro per il nostro sostentamento rifiutammo ogni rapporto fra il denaro e il nostro essere preti. È come se dicessi che noi, ciascuno per vie proprie che costituiscono la sua storia, unica e irripetibile, possiamo concorrere a sciogliere il blocco di sale che ha fatto un tutt’uno fra chiesa e patrimonio dei poveri, e restituire ai poveri l’usurpato patrimonio, riprendendo l’antichissima tradizione che, partendo dal comando di Cristo (Mt 8, 10: Avete ricevuto gratuitamente, gratuitamente date ), san Paolo ha incarnato nel suo andare ai gentili, indicando nel lavoro manuale ‘notte e giorno’ la salvaguardia della gratuità dell’Annuncio e anche un modo per aiutare i poveri.
Ho avuto la grazia, e non è la minore venutami dalla fabbrica, di studiare il percorso di questa gratuità nella storia della chiesa e posso garantire che è un filone continuo, a volte alla maniera di un fiume carsico, altre alla maniera d’una impetuosa immissione di nuove acque. Senza girarci troppo attorno, penso che lo stipendio che ogni prete in ministero è obbligato a ricevere ogni mese rappresenti una pietra tombale della gratuità paolina, che la chiesa aveva raccolto fin dall’inizio e aveva reso sempre presente e tramandato almeno come tensione.
Non sarebbe allora un nostro dovere ecclesiale vedere la nostra grande avventura di pretioperai come un richiamo, una straordinaria opportunità storica di far rivivere la scelta del lavoro manuale in san Paolo come condizione di credibilità dell’Annuncio?
La radicalità in san Paolo è totale: piuttosto morire che accettare in cambio dell’evangelizzazione qualche cosa, perché non si pongano ostacoli alla credibilità dell’Annuncio. So che è una prospettiva dura per essere condivisa. Lo so per esperienza quasi da quarantesimo. Nello stesso tempo ne vedo tutta la semplicità e ovvietà: non è possibile annunciare il Gratuito dietro compenso, come non si può fare campagna anti-fumo con la sigaretta in bocca. Ma sarebbe straordinario, da segnare con sassolino bianco, il giorno in cui preti, pretioperai in primis , spesso emarginati per la loro passione alla chiesa dei poveri dovessero trovarsi, proprio in grazie ad essa, al suo centro come continuatori, col lavoro delle proprie mani, della gratuità dell’Annuncio e, quindi, della sua credibilità. Perché non potrebbe essere questo il senso ultimo di quanto accadde in Francia dapprima, e poi con fatica, con sofferenza, con battute d’arresto e di accelerazione, percorse tutta la chiesa, segnandola per sempre?
Ora che la grande stagione sembra finita, non dovremmo impedire che tutto si riduca ad esperienza storica datata, buona per essere studiata come altri fenomeni storici, ed affermare esplicitamente e con forza che è un patrimonio di chiesa e, come tale, deve essere accolto? Un dono dei pretioperai che, a loro volta, l’avevano ricevuto e che apparteneva fin dall’inizio al tesoro della chiesa da trasmettere da una generazione all’altra attraverso avvenimenti particolari: ultimo, questo dell’esistenza dei pretioperai.
“E dàlli” qualcuno che mi conosce da tempo potrebbe dire, “ritorna sempre lì. Ma è proprio un’idea fissa”. Sì, è proprio fissa. D’altra parte come si fa ad averne altre se quel “propter” del ricordino di prima messa ha fissato per sempre la propria vita? La mia conclusione comunque è certamente condivisa da tutti i miei confratelli pretioperai: ne valeva, ne vale la pena, vero amici? E perché non auspicare che possa essere anche la conclusione del congresso, per il bene di tutta la chiesa?

 

Luisito Bianchi


 

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