“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”
L’intervento di Mario mi ha fatto ricordare il periodo di quando ero studente al Capranica di Roma. In bicicletta andavo a dir messa in una borgata vicino alla parrocchia di San Leone Magno.
Una grande baracca di legno, larga: c’era gente povera. Dire messa là era come essere a un crocicchio di strade, gente che entrava ed usciva. Una situazione che non si è più ripetuta per me, solo in contesti molto diversi da quelli italiani.
Allora c’erano i poveri in chiesa, in quella parrocchia c’era la gente povera; non erano tutti poveri, ma c’erano anche i poveri. Se passo da questa fotografia all’immagine della chiesa che frequento ora, mi sembra che di povera gente non c’è quasi più nessuno. Ci possono essere ancora delle vecchiette, degli uomini anziani che vivono da soli in una povertà dignitosa, che ancora rimangono collegati. Essi esternamente ancora tengono.
Il nostro è un contesto molto diverso da quando don Mazzolari ed altri preti nella prima guerra mondiale andarono al fronte perché ci andava la gente, per seguire i giovani dei paesi che si svuotavano per andare a morire da quelle parti. Sarebbe utile capire quello che avviene oggi, in vista anche della provocazione di Luisito Bianchi dove afferma che il patrimonio dei poveri è finito per diventare il patrimonio per mantenere gli ecclesiastici. Capire che oggi i poveri sono altri, da aiutare, da sostenere, da integrare nelle lotte, da condividere. È un altro mondo di poveri, almeno per noi che viviamo in Italia: un elemento da tener presente nella valutazione, per riuscire a capire.
Quello che dice Renzo, lo conosco al di là delle parole per averlo visto con gli occhi. Ma lì è una dimensione dove la chiesa e il quartiere si immettono dentro un contesto di esperienza umana.
La chiesa, il Vangelo: che prospettiva? Sono ancora come bagliori di un fuoco che ancora ardono perché ci sono dei testimoni che ancora lo portano nel cuore? È un qualcosa che va a finire inevitabilmente?
L’altro discorso riguarda quello che sto ora vivendo. Io biscareggio sul nulla, le cose del nulla, ecc. ma praticamente non ho più un incarico nella chiesa, nemmeno a piangere. A volte ti fanno fare qualcosa: a me, niente! Partecipo alle riunioni dei preti; d’altra parte, essendo in pensione non ho più manco un ruolo lavorativo, per cui la mia vita è proprio sbriciolata. Vivo questa situazione in modo molto tranquillo e sereno. Eppure, mi accade di parlare, di intrecciare. Non mi viene in mente di stimolare: non sono un leader e non lo sono mai stato.
Rimango dentro questo tessuto umano di relazioni: esco la mattina e non so mai a che ora ritorno. Mi fermano di qua, di là. Anche lì: che tessuto, che progetto, che chiesa?
Ieri sera alla riunione dei preti della zona dicevo che ho sempre curato il mio battesimo, Beppe lo sa bene perché anche lui è su questo filone. Il sacerdozio ha assorbito il battesimo o esso ne è una specificazione? In fondo questo mi ha permesso una certa dialettica col vescovo che di volta in volta voleva imporre una volontà. Per nutrire questo battesimo fin da giovane son sempre andato a messa nel tempo pasquale e natalizio. Mi vien da dire queste cose ai preti come un fedele qualsiasi, sembra strano ma è la realtà. Sono un fedele qualsiasi, anche il papa è un fedele qualsiasi.
L’esperienza del qualsiasi. Questo si verifica per me da un certo tempo e mi trovo nella situazione di uno che cammina male e quando gli appare davanti un filo d’erba gli sembra sempre una cosa insormontabile.
Quando devo parlare di chiesa mi vengono in mente solo poche cose, balbetto con le parole di Gesù dette con voce molto chiara: piccolo gregge, realtà invisibile anche nelle relazioni umane.