INCONTRO NAZIONALE 2006 PO E AMICI
“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”

 

La presentazione di Maria Grazia Galimberti


Come ci avete chiesto, anche Don Sirio è presente fra di noi attraverso le parole di un suo articolo che Luigi ha scelto e che risale al 1960, quando da poco faceva lo scaricatore del porto a giornata. Da alcuni mesi, infatti, aveva lasciato il cantiere navale dove era operaio, a causa del noto divieto imposto dal Vaticano. Il grande dolore di “non correre più in bicicletta quando era ancora buio e l’aria era tagliente e subito al di là del ponte girevole della Darsena mi ritrovavo fra amici che corrono verso la stessa fatica”, il severo vaglio che attraversa, lo muovono verso territori sempre più ampi. È uno sguardo assorto, il suo, una visione esistenziale a tutto tondo della povertà: siamo poveri perché legati allo scorrere del tempo che ci rende tutti uguali, nonostante le pretese differenze, i diritti accampati.
Mi fa particolare piacere leggere con voi queste pagine, perché il lento modellarci del tempo di cui parla è uno dei temi che scorgo emergere sempre più chiaramente fra di voi quando ci ritroviamo a questi appuntamenti annuali. È come se le differenze di impostazioni, di stile, di idee che vi hanno sempre contraddistinto lasciassero il posto a un unicum nel quale si intravede, come nel crogiuolo degli alchimisti, l’oro della somiglianza, quello dell’essere creature.
Fra le diverse riflessioni di questo scritto, una sembra collegarsi con più precisione a quanto accade sempre più di frequente in questa stagione della nostra vita: assaggiare la fragilità data dal cedere del nostro corpo o assumerci il fardello di assistere un nostro caro nella malattia. Si tratta di un altro filo conduttore legato al tempo, che ci affratella. Fra l’altro, proprio di questo si parlava in questi giorni con Luigi Consonni che mi dava notizie del caro Cesare Sommariva, uomo dalla vivida intelligenza, che tanto ha dato al movimento dei PO, Cesare patisce da alcuni anni un triste destino: quello del progressivo deteriorarsi della sua intelligenza e di una forte angoscia che lo accompagna nei momenti di consapevolezza. Luigi si augurava che imparasse ad accettare la sua sorte, abbandonandosi alla vita.
Sirio parla proprio dell’importanza di arrendersi alla debolezza e di farlo insieme a tutti, accogliendo il sommesso canto corale dell’essere. «C’è una sicurezza che deve essere scoperta: deriva dal riconoscere e accettare con serenità e libertà la propria insicurezza e quella di tutte le cose. Poi bisogna umilmente e fraternamente appoggiare questa nostra insicurezza alla insicurezza di tutti e permettere sorridendo che gli altri facciano altrettanto con noi».

 


 

Ci illudiamo coscientemente quando giudichiamo la nostra vita come un blocco unito e compatto. La sentiamo così e ad ogni momento crediamo di possederla tutta insieme, compresa quella parte di esi­stenza che ancora ci rimane, e forse penseremo così anche quando ci rimarrà un giorno solo di vita. Non avvertiamo il suo sbriciolarsi quotidiano e il pericolo che tutto in un colpo si sgretoli per spaccature improvvise.
L’istinto ci difende da un terrore che ci farebbe impazzire e l’incoscienza ci sistema nell’impressione strana che il finire sia rimandato sempre più indietro, sempre più indietro.
Forse ci aiuta in questa strana impressione il senso di doveri da compiere, le cose importanti da fare, l’ideale da raggiungere, il sogno, da realizzare… E chiudiamo il finestrino aperto sul paesaggio per non vedere che alberi, case e montagne fuggono via perché il treno corre e non si ferma mai.
Vogliamo sentirci sicuri ed è pietoso questo impazzimento generale, mentre è condizione umana fondamentale non poter essere sicuri di niente. E spesso forse nemmeno sicuri del proprio esistere o no: siamo sicuri soltanto di non poter essere sicuri di nulla.
Pessimismo, visione nera della vita, tentativo di demolire i valori umani, angoscia senza speranza…? può darsi. Oppure è la sofferenza di un mistero che ci schiaccia, di un’esistenza che somiglia troppo alle onde spinte una dall’altra a perdersi sulla spiaggia, senza lasciare nemmeno il più piccolo segno?
Il tempo costringe ad essere a fianco con tutti, lungo il grande viaggio. E il cammino è a piedi. Senza scarpe e senza valigia e si mangia come il bove che lavora nel campo strappando un ciuffo d’erba dal ciglio della fossa. Tutto si fa camminando, in questo grande viaggio, come spinti da una fuga interminabile e senza riposi. La fatica non può essere sollevata da nulla e da nessuno: ognuno cammina da sé e necessariamente smarrito dentro una moltitudine sterminata. E porta da solo il peso che cresce ad ogni passo. Tutti uguali e qui tutti poveri, cioè soli con se stessi. L’unica luce negli occhi di tutti è una strana, disperata speranza senza però sapere esattamente di che cosa. Tutto il resto viene abbandonato a poco a poco perché cammin facendo ci si accorge che non serve più.
Su questo lastrico consunto e levigato da secoli e millenni di cammino di una folla infinita, cos’è che potrebbe dividere? Cos’è che può creare differenza e quindi dolore? Riesce soltanto l’istinto terribile dell’illusione. E la più tragica illusione è ogni tentativo di fermare il tempo: è di qui che comincia il mio e il tuo e l’avanzare spietato di diritti e pretese. È il mettere le radici che rovina, il circondare di siepi il campo, e di mura le città, e di confini la terra. E di egoismo il cuore e di interessi unicamente personali il proprio dovere di vita. Tutto in lotta disperata di resistenza abbarbicata a un sasso, a una zolla di terra, contro l’essere strappati via dal tempo e portati chissà dove, come una foglia dal vento d’autunno.
È inutile, non serve. È roba da matti… Ma è così e ricominciamo decisi ogni mattina.
C’è una sicurezza invece che deve essere scoperta. La sicurezza che deriva dal riconoscere e accettare con serenità e libertà la propria insicurezza e quella di tutte le cose. Poi bisogna umilmente e fraternamente appoggiare questa nostra insicurezza alla insicurezza di tutti e permettere sorridendo che gli altri facciano altrettanto con noi.
Di qui forse non ne verrà una forza, ma la gioia dei poveri che non hanno nulla e che fraternamente si dividono il pezzo di pane, questo sì. Ed è soltanto così che nasce l’Amore. Sembra strano, ma l’Amore nasce e fiorisce soltanto nella insicurezza, in questa misteriosa povertà del cuore umano serenamente accettata e dolcemente offerta. Per questo, forse, Dio ci ha creati nel tempo che passa, cioè nella condizione in cui tutto oggi è, e domani non è, perché l’Amore ha bisogno di libertà. E forse liberi sono soltanto i poveri.
Il tempo che passa… E pensare che è questo tempo che passa che può renderci veri amici, cioè ricchezza gli uni degli altri, in pieno dono scambievole. Il suo passare dovrebbe portarci via le incrostazioni di egoismo, la vergogna di ripiegarci sempre sopra di noi, lo sporco di tanto individualismo e la peste di un rancore sordo e implacabile, lavandoci nell’onda chiara del suo fluire calmo e continuo.
Se noi glielo permettessimo il tempo ci trasformerebbe a poco per volta, proprio come è nella sua natura. Potrebbe cambiare i nostri pensieri e rovesciare tante situazioni incresciose. Ammorbidire ed attenuare ogni durezza. Addolcire tanti dolori. Aprire e allargare tanti orizzonti. Perché il tempo piega tutto e prima o poi libera da illusioni e falsità e cattivi propositi. Alza lentamente il velo di mistero e aiuta, senza nemmeno che sembri, a scoprire la verità. Ci spoglia di qualcosa ogni giorno e di qualcosa ogni giorno ci arricchisce. Tende a riportarci all’essenziale scavandoci dentro, come una goccia la pietra, profonde e misteriose esigenze. E conclude in ciascuno valori comuni a tutti: quei valori per cui l’uomo è uomo.
Ogni differenza o ingiustizia è colpa delle apparenze, ma quando il tempo le ha pazientemente tolte ad una ad una, scopre rassomiglianze perfette. Non possiamo rassomigliarci per quello che abbiamo, ma perfetta identità è in quello che tutti sicuramente non abbiamo e di cui tutti andiamo in cerca con ansia terribile: l’assoluto, l’immutabile, l’eterno.
Questa dolce, adorabile povertà, immenso abisso scavato dal tempo che passa, perché l’eternità lo ricolmi e lo sovrabbondi di infinito.

 

Sirio Politi


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