Don Borghi e don Milani (2)


 

All’inizio del 1966 il cardinale Ottaviani fece uscire un documento in dieci punti in cui cercava, in pratica, di far rientrare dalla finestra quei principi autoritari che il Concilio aveva cacciato dalla porta. Poi, in piena campagna elettorale, sia pure annacquando i suoi toni accesi del passato, affermò che nulla era cambiato dal decreto del Sant’Uffizio del 1949. E l’Enciclica di Giovanni XXIII allora? E il Concilio? Perfino il S. Uffizio era finito in soffitta sostituito dalla «Congregazione per la dottrina cristiana»! Il Vaticano cercò di salvare capra e cavoli con un atteggiamento che, in sostanza, lasciava libertà di voto ai cattolici.

Ma a Firenze, c’era Florit. La morte di Nicola Pistelli nel 1964 aveva fatto riprendere fiato alle correnti più conservatrici della DC fiorentina. Per le elezioni amministrative del giugno 1966, il cardinale cercò con tutti i mezzi, tramite i Comitati civici, di indurre i cattolici a votare DC in nome dei valori del Vangelo. Pareva di nuovo d’esser tornati ai tempi di Pio XII. Borghi allora si oppose apertamente al cardinale incitando laici e sacerdoti a votare secondo la loro coscienza. E partecipò alla stesura della lettera di un gruppo di cattolici dissidenti con la DC, che invitavano a non votare i candidati della democrazia cristiana. Florit, indignato, gli dette un aut aut: poteva scegliere tra l’abbandono della diocesi e la sospensione a divinis.

Fu l’operaio Giorgio Falossi, (allora della sinistra cattolica), a portare la notizia a don Milani su a Barbiana. «Era domenica», racconta. «Come sempre nella bella stagione c’era un mucchio di gente. Feci una cosa proibita a Barbiana: mi avvicinai a don Lorenzo e gli dissi all’orecchio quello che stava capitando a Borghi. Sapevo quanto fosse importante per lui la notizia. “Silenzio!”, ordinò. E a me: “Dillo ad alta voce”. Lo dissi. Poi cominciò a parlare, prendendo perfino in mano un libro sul Savonarola. Parlò per cinque ore e mezzo. Spiegò quale fosse per lui la posizione del prete nella Chiesa. Parlò della situazione della curia fiorentina e, soprattutto, di Borghi. E quando parlava del Borghi, i ragionamenti si snodavano che era una bellezza ».
Ma don Milani non si limitò a ricavare dall’episodio una lezione per la sua scuola.
«Difese l’amico a spada tratta», racconta don Auro Giubbolini. «Scrisse alla Segreteria di Stato del Vaticano che la sua penna era a disposizione di Borghi. È ovvio che non si trattava di parole, che la sua penna era a disposizione davvero. E la sua penna contava. Bisogna ricordare che c’era già stato il processo per la sua presa di posizione a favore degli obiettori di coscienza. In quei giorni mi trovavo a Roma con monsignor Bartoletti, che era molto preoccupato per la faccenda: ne parlò con monsignor Franco Costa, assistente centrale dell’Azione cattolica, e dunque una vera potenza, perché rimediasse la situazione andando dal papa. Ci furono poi pressioni da parte di un gruppo di cattolici fiorentini che inviarono un loro documento a Paolo VI tramite lo scolopio padre Balducci. Alla fine, Paolo VI intervenne di persona. Mandò a Firenze monsignor Costa che prese alloggio in una pensione anziché all’arcivescovado. Florit fu costretto a ritrattare le sue sanzioni. E don Borghi fu punito… con un mese di esercizi spirituali. Andò a riposarsi a Montenero vicino a Livorno. La penna di don Milani rimase nel calamaio».

Neera Fallaci

(Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo MilaniMilano libri Edizioni 1974, 309-310)


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