Nella crisi della Galileo (4)


 

A) Anna Cipriani

 

Articolo pubblicato sul settimanale “Lavoro” della CGIL, n°11, 1961.
La studentessa universitaria Anna Cipriani, a nome di un gruppo di studenti ed operai che hanno assistito al processo per la vicenda della “Galileo”, ci ha inviato questo articolo che volentieri pubblichiamo per esprimere le loro impressioni sugli aspetti giuridici e sociali che sono emersi dal dibattito processuale.

 

 Due anni fa il gruppo monopolistico S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità), che praticamente controlla la «Galileo» di Firenze, decise la parziale smobilitazione delle Officine «Galileo» con un primo riordinamento del personale (980 licenziamenti).
La S.A.D.E. adduceva il pretesto che erano venute a mancare alcune commesse di lavoro, ma in realtà essa preferiva indirizzare gli investimenti verso altre attività (industria alberghiera, produzione e vendita di elettricità nel Veneto) industriali e commerciali che, pur essendo utili all’economia nazionale e decisive per il benessere di una intera città, non le assicuravano profitti altrettanto alti e sicuri.
La S.A.D.E. infatti nel luglio del 1958 non solo riduceva il capitale da due a un miliardo, ma negava i capitali necessari per il normale funzionamento dell’azienda stessa, capitali del resto guadagnati dall’attività lavorativa delle Officine «Galileo» nel lungo periodo produttivo.
Per evitare i 980 licenziamenti il Governo, sotto la pressione dei lavoratori, assicurò commesse di lavoro; la S.A.D.E. però decise di mantenere 530 licenziamenti. Il Ministro del Lavoro promise che questi licenziati sarebbero stati assorbiti in qualche maniera presso altre industrie a contributo statale o in altri lavori (Autostrada del Sole), ma a parte il fatto che per altre industrie c’erano disoccupati che aspettavano da anni e che avevano perciò il diritto di precedenza e che sarebbero stati gli unici a sopportare le conseguenze delle brillanti operazioni finanziarie della S.A.D.E., non era nemmeno lecito disperdere in lavori generici una mano d’opera altamente specializzata come quella della «Galileo».
Il giorno 9 gennaio 1959 dovevano essere prese in esame, durante una riunione presso il Ministero del Lavoro, le proposte dei lavoratori per evitare i licenziamenti e trovare una via d’uscita alla situazione attraverso u1teriori riduzioni; ma gli industriali non si presentarono all’appuntamento. Intanto a Firenze gli operai attendevano in assemblea i risultati delle trattative e quando seppero che gli industriali non erano venuti decisero di rimanere nei locali della mensa. Rimasero nella fabbrica per 18 giorni ed ebbero la solidarietà di tutta Firenze. Anche la Chiesa fiorentina prese una posizione molto chiara scegliendo decisamente la parte degli operai. Il cardinale Elia Della Costa dichiarò: «Chiunque non è pronto a condizionare in giusto grado al benessere comune l’uso dei beni, impedisce l’affermarsi dei fondamentali valori umani e cristiani».
Dopo 18 giorni gli operai furono mandati via dalla polizia e denunciati dalla Direzione all’autorità giudiziaria.
Con l’offerta delle «dimissioni volontarie» e con 64 licenziamenti la Direzione riuscì ad ottenere ugualmente lo scopo che si era prefisso.
In questi giorni si è svolto il processo ai 152 operai che erano stati trovati nella fabbrica e a un prete, Don Bruno Borghi, che aveva chiarito in una lettera la legittimità morale dell’azione degli operai. Il primo giorno parlarono gli imputati. Andavano là uno per uno e a ciascuno venivano rivolte due sole domande:
Ha partecipato all’occupazione? E tutti rispondevano di sì. E stato licenziato? E quelli che rispondevano di no cercavano di giustificarsi ritenendo che il loro reato fosse più grave tanto che il giudice fu più volte costretto a rassicurarli.

 

Depongono Bartolini e don Borghi


Le due deposizioni più lunghe furono quelle di Bartolini della CCdL che faceva parte della Commissione Interna e di Don Bruno Borghi.
Bartolini, con parole molto semplici e chiare, raccontò i fatti mettendo in luce la volontà degli operai di salvare il loro lavoro e la fabbrica che essi avevano difeso nei momenti più pericolosi durante e dopo la guerra, dormendoci perfino a turno per lunghi periodi e che avevano aiutato a ricostruire con le loro stesse mani senza pretendere alcun compenso straordinario e senza badare al sacrificio di tempo e di forze. La volontà della S.A.D.E. invece era quella di distruggere la fabbrica per misteriosi calcoli finanziari e politici. La S.A.D.E. ha sfruttato la «Galileo» fino a che la produzione bellica le garantiva profitti esorbitanti; quando poi si è trattato di convertire la produzione bellica in produzione civile, ci si doveva dare da fare per cercare le ordinazioni, sostenere le spese per rinnovare via via i macchinari; modernizzare l’azienda, questi «sacrifici» la S.A.D.E. non li ha voluti fare e ha detto: eliminiamo la «Galileo» di Firenze. Che la S.A.D.E. volesse eliminare la «Galileo» — ha detto Bartolini — lo dimostra il fatto che gran parte del lavoro che il Governo le ha affidato per evitare i licenziamenti è stato dirottato verso altre aziende, alcune del Nord, altre perfino all’estero, in Argentina.
Dopo gli altri imputati ha parlato Don Borghi che ha chiarito la sua posizione ricordando che, facendo il prete operaio alla «Pignone» ha imparato dagli operai cosa significhi essere operaio, essere in balia delle operazioni finanziarie dei padroni, perdere il lavoro, senza potersi assolutamente difendere. Con la sua lettera egli non ha voluto spingere gli operai alla lotta perché – e questo lo ha detto molto chiaramente – gli operai la loro lotta la devono condurre avanti da sé, senza elemosinare niente da nessuno, maturandosi a poco a poco, pagando di persona. Egli non ha voluto far altro che chiarire che l’ingiuria che essi avrebbero fatto occupando la fabbrica era niente di fronte a quella che essi subivano perdendo il lavoro.
Dopo gli imputati parlò il Pubblico Ministero: «Fa impressione vedere un battaglione di facce oneste sul banco degli imputati, non si può non riconoscere gli altissimi motivi per cui hanno agito; ma la legge è dura, ma è legge. Essi hanno violato l’art. 633 invadendo la proprietà altrui, commettendo perciò un delitto contro il patrimonio. Chiedo perciò la condanna a 15 giorni di prigione».
Poi parlarono gli avvocati. Sul piano strettamente giuridico sostennero che non era stato violato l’art. 633, ma semmai il 614, cioè la violazione di domicilio e che, quindi, non essendoci querela da parte della Direzione, gli operai dovevano essere assolti. Ma soprattutto svilupparono il problema della difesa del diritto al lavoro, rifacendosi alla Costituzione, che è costata troppo sangue e troppe sofferenze perché si possa oggi violarla nel suo principale fondamento che è quello del diritto al lavoro. Hanno anche sostenuto che l’articolo 633 era stato pensato in funzione delle norme corporative che durante il fascismo regolavano i rapporti di lavoro; ma ora che con la Costituzione si è ammesso il diritto di difesa del lavoro da parte dei lavoratori non è detto che questo diritto si limiti allo sciopero come unica forma possibile, anzi, può darsi che se ne rivelino più valide altre, come l’occupazione di fabbrica.
Il Tribunale ha deciso che era stato violato l’art. 614 e poiché non c’era querela gli operai erano assolti.
Questa sentenza è davvero una vittoria, come potrebbe sembrare a prima vista? Certo i giudici hanno dimostrato di accogliere gran parte delle tesi sostenute dagli avvocati e, quel che conta di più, hanno dimostrato di capire la validità dell’azione degli operai sul piano morale; però sta di fatto che, così come è stata formulata la sentenza, se gli operai di un’altra fabbrica che si trovassero nelle medesime condizioni decidessero di occupare la fabbrica per difendersi, sarebbero necessariamente condannati se la Direzione facesse querela.

 

Miliardi e miseria


Ho sentito la moglie di uno degli operai imputati che diceva, parlando della lettera di licenziamento: «Hanno voglia di fare, ma a chi l’è arrivata l’è arrivata». E so di qualcuno che per poter trovare un posto nuovo ha dovuto consegnarsi legato mani e piedi al padrone. «La politica qui bisogna lasciarla fuori – gli è stato detto – qui siamo tutti una famiglia e si va tutti d’accordo, perciò niente scherzi». E quelli che hanno dovuto chinare il capo e accettare, sono uomini perduti per sempre al movimento sindacale.
Questo succede perché non viene portato in Tribunale chi toglie il lavoro ma chi lo difende, anche se lo fa con la dignità e la compostezza degli operai della «Galileo»; e nelle fabbriche cresce la paura.
Sono necessarie delle leggi che mettano sotto accusa gli azionisti che licenziano gli operai perché fa loro fatica occuparsi della fabbrica e vogliono guadagnare di più, di più, di più e non avere grane sindacali fra i piedi.
C’è troppa sproporzione fra i miliardi di utili della S.A.D.E. e la miseria degli operai licenziati, perché ci si mette anche la legge a difendere le ragioni dei miliardi contro le ragioni della miseria.


 

B) NELLA LOTTA OPERAIA
di Marcello Gori Savellini

Parlare di don Bruno Borghi vuol dire per me tornare molto indietro nel tempo e precisamente all’immediato dopoguerra, quando lui ricopriva l’incarico di Assistente Ecclesiastico delle ACLI fiorentine. Le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani) in quel tempo si definivano per statuto: “Espressione della corrente cristiana in seno alla CGIL”, che era allora il sindacato unitario di tutti i lavoratori italiani e del quale facevo parte.
Ma per capire i motivi che mi portarono ad incontrare il Borghi, bisogna andare ancora indietro nel tempo quando, appena sedicenne in piena guerra, fui assunto come apprendista alle Officine Galileo di Firenze.
Ero allora un ragazzo che, nato e cresciuto in periodo fascista, aveva, anche se temperata da una passabile formazione religiosa, una visione della vita imbevuta dagli ideali inculcati dalla scuola di regime che il Fascismo usava senza. remore per indottrinare la gioventù. Ma il duro impatto con la fabbrica, concreta espressione del mondo del lavoro, con le sue asprezze ma anche i suoi valori, mise in crisi il bagaglio di certezze fino’ allora posseduto e causò l’inizio di un percorso alla ricerca di nuovi orizzonti.
Questo percorso segnato da una graduale presa di coscienza dei segni distintivi della condizione operaia, caduto il fascismo e terminata la guerra, mi portò a aderire alle ACLI e fu lì che incontrai Don Bruno.
Questo giovane sacerdote, che aveva solo qualche anno più di me, si rivelò persona di grandi capacità educative e portatrice di una nuova visione della Chiesa (ancora considerata società gerarchicamente perfetta), vista come popolo in cammino, composta di due branche con specifiche funzioni: la funzione sacerdotale e la funzione laica con i rispettivi compiti e responsabilità. Questa visione apriva al laicato cristiano nuove prospettive di azione responsabile, lo liberava da una permanente subordinazione al Sacerdozio, rendendolo più autonomo nell’esercizio della sua funzione, pronto anche al rischio dell’errore pur di superare colpevoli inerzie, senza per questo rinunciare all’indispensabile senso della comunità.
Se si pensa che aperture di questo tipo si sono avute solo col Concilio Vaticano II°, celebrato dopo più di dieci anni, si può comprendere l’importanza che per la mia formazione ha avuto l’incontro col Borghi e come mi abbia aperto spazi di libertà nella Chiesa che mi hanno permesso di conciliare i miei principi cristiani con una coscienza di classe progressivamente maturata nelle lotte operaie dentro e fuori la fabbrica e nel lungo impegno svolto negli organi rappresentativi dei lavoratori all’interno della fabbrica stessa.
Tutto ciò mi ha portato a considerare come, nel periodo da me vissuto nel mondo del lavoro, la lotta di classe sia stata lo strumento più efficace per la promozione della classe operaia e nello stesso tempo, almeno per me, il mezzo migliore per amare il prossimo secondo il dettato evangelico.
È ovvio che l’insegnamento del Borghi non ha influito solo sul mio modo di essere ecclesiale e sociale, ma ha investito tutti gli aspetti della vita ed ha contribuito a sviluppare quelle caratteristiche personali, fondate su forti valori etici, che mi hanno accompagnato fino ad oggi e che hanno contrassegnato in particolare il mio comportamento in fabbrica durante la mia più che quarantennale vita lavorativa e nel tempo hanno causato coerenti scelte politiche e sindacali.
Per quanto riguarda l’aspetto del Borghi preteoperaio, io non ho esperienze dirette perché la sua prima esperienza in fabbrica non avvenne alla Galileo ma alla Pignone. Posso dire, però, che ebbe breve durata e provocò il suo allontanamento dall’incarico nelle ACLI. Vane furono le accorate pressioni della direzione provinciale per ottenere il reintegro del Borghi nelle sue funzioni, ma la Curia fiorentina fu irremovibile e il Borghi fu destinato ad altro incarico con grande sconcerto di tutta l’Associazione e del settore giovanile in particolare.
Il contatto più importante e più significativo con la Galileo il Borghi lo ebbe nel 1959, quando a fronte di una richiesta esorbitante di licenziamenti da parte della SAAF, proprietaria dello stabilimento, inviò una bellissima lettera d’appoggio ai lavoratori che poi occuparono la fabbrica dando luogo ad uno degli episodi più drammatici della lotta operaia fiorentina. Quella lotta, da me vissuta direttamente, ebbe una vastissima eco e così pure la lettera inviata dal Borghi, che per essa fu poi denunciato assieme ai lavoratori occupanti.
Vedo che per testimoniare l’importanza che ebbe per me l’incontro con Don Bruno Borghi ho parlato molto di me e me ne scuso, ma non vedo in quale altro modo avrei potuto farlo perché solo così mi è riuscito. Credo comunque che la conoscenza degli aspetti della sua personalità di educatore possa servire per la rappresentazione d’insieme della figura del Borghi, la cui dimensione ed importanza sarà sicuramente manifestata da tante altre testimonianze dei suoi molteplici impegni svolti senza risparmio nei vari momenti della sua esemplare esistenza.


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