Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive
Terza icona
È VIVA!
“nonostante la persecuzione implacabile e perfettamente pianificata”
Un convegno su “Operare giustizia in un mondo ingiusto “, specie se promosso da e rivolto a cristiani, non credo possa ignorare quanto sta avvenendo nell’ambito della teologia (e, meglio, “delle teologie”) della liberazione, che ha senza dubbio rappresentato il più organico tentativo di rileggere il messaggio cristiano “dal punto di vista dei poveri/oppressi come soggetti storici”.
Naturalmente ciò implica, prima di tutto, confutare l’idea, oggi luogo comune, che la “teologia della liberazione è morta” o, quantomeno, “esaurita nella capacità di novità”. Molti fatti, a mio parere, smentiscono questa visione e avallano la percezione soggettiva che mi è stata espressa da due suoi protagonisti (p. Agenor Brighenti, direttore dell’Istituto nazionale di pastorale della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, e p. Erminio Canova, missionario italiano e membro del Coordinamento nazionale della Commissione pastorale della terra brasiliana), sorprendentemente con parole identiche: “Il momento peggiore è passato”, dove il riferimento era alla forte delegittimazione, al disorientamento e alla stagnazione della riflessione vissuti da questa corrente teologica nella seconda metà dello scorso decennio. Ho raccolto questi commenti a Nairobi, al II Forum mondiale di teologia e liberazione, svoltosi, come nel 2005 a Porto Alegre, in concomitanza con i Forum sociali mondiali, due appuntamenti che hanno reso visibile questo punto di svolta.
Ma dove trova radici questa convinzione?
Prima di tutto è parere unanime dei latinoamericanisti che nel continente gli ultimi 10 anni si sono caratterizzati per un rinnovato protagonismo dei movimenti sociali, i quali, per dirla con uno degli analisti più acuti, l’uruguayano Raul Zibechi, “li distinguono tanto dal vecchio movimento sindacale come dai nuovi movimenti dei paesi del centro. Cominciano a costruire un mondo nuovo nelle fessure che hanno aperto nel modello di dominazione. Allo stesso tempo sono la risposta al terremoto sociale provocata dall’ondata neoliberista, la quale ha sconvolto le forme di vita dei settori popolari cancellando e disgregando le forme di produzione e riproduzione, territoriali e simboliche, che ne configuravano l’ambiente e la vita quotidiana. Tre grandi correnti sociopolitiche nate in questa regione formano l’armatura etica e culturale dei grandi movimenti: le comunità ecclesiali di base legate alla teologia della liberazione, l’insurrezione indigena portatrice di una cosmovisione diversa da quella occidentale e il guevarismo ispiratore della militanza rivoluzionaria. Queste correnti di pensiero e azione convergono dando luogo a un arricchente ‘meticciato’, che è una delle caratteristiche tipiche dei movimenti latinoamericani”.
Dopo un decennio in cui hanno accumulato forza e dimostrato la propria capacità di “interdire” la stabilità di esecutivi neoliberisti, provocando la caduta di molti capi di Stato, dal 2001 questi movimenti sociali si stanno misurando, con alterne fortune, con la “sfida del governo” e col tentativo di realizzare politiche popolari. Ora, tra i nuovi presidenti della Repubblica, quello brasiliano, Luis Iñacio “Lula” da Silva, viene dalle comunità ecclesiali di base, quello ecuadoregno, Rafael Correa, è un economista che ha studiato all’Università cattolica di Lovanio e si definisce “un cattolico di sinistra”, il venezuelano Hugo Chavez, nella costante polemica coi vertici della Conferenza episcopale, ha invitato i cristiani “a prendere la strada della teologia della liberazione”, mentre ad Amerindia (l’associazione che riunisce i teologi della liberazione latinoamericani) appartiene mons. Fernando Lugo, vescovo che si candiderà nel 2008 alla presidenza del Paraguay, con buone possibilità di mettere fine a oltre mezzo secolo di governo del Partido Colorado.
Questi sono elementi che confermano visibilmente l’influenza politica della teologia della liberazione, almeno in America latina. Quanto a quella ecclesiale, si possono presentare due prove. Una in positivo: ad Aparecida, dove in maggio si è tenuta la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, i teologi di Amerindia (anche grazie all’impegno del presidente del Consiglio episcopale latinoamericano, card. Francisco Errazuriz, a non escludere nessuno) hanno avuto una presenza esterna, ma ufficialmente riconosciuta (non accadeva dai tempi di Puebla, nel 1979, quando avevano partecipato in forma “clandestina” attraverso rapporti personali con singoli vescovi) e assai rilevante nei predisporre proposte, testi, emendamenti, che hanno garantito al documento finale di collocarsi all’interno della tradizione latinoamericana inaugurata a Medellìn nel 1968, nonostante il card. Alfonso Lopez Trujillo avesse annunciato che “prima di Aparecida la teologia della liberazione sarà liquidata”. L’altra, in negativo, .è la Notificazione sulle opere di p. Jon Sobrino, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della Fede in marzo. Difficile, in proposito, non condividere il commento di un altro esponente di spicco della teologia della liberazione, p. Pablo Richard:
“L’azione contro Jon Sobrino dimostra che la Teologia della liberazione esiste; se fosse morta, come dicono, non sarebbe necessario nessun genere di azione contro di essa; se lo fanno è perché sanno che esiste davvero e, più importante, ne hanno paura. La stampa internazionale ha dato una copertura impressionante al ‘caso Sobrino’, perché sa che per il Vaticano la Teologia della liberazione è importante;la stampa non informa in questo modo su qualcosa di insignificante. La Teologia della liberazione ha più importanza fuori dalla Chiesa che dentro di essa; è oggi un simbolo, un riferimento, con cui si identificano coloro ai quali la Chiesa e i suoi discorsi non interessano; si identificano con essa i cristiani che non hanno una pratica religiosa nelle Chiese; oggi la Teologia della liberazione è ascoltata nelle Università, nel Forum sociale mondiale e nei movimenti sociali. La Teologia della liberazione ispira vari presidenti, come in Brasile, Ecuador, Bolivia; anche in Venezuela e a Cuba la Teologia della liberazione è un riferimento quando si parla della Chiesa come contrappunto della Chiesa ufficiale; Lula in Brasile e Correa in Ecuador vengono dalle comunità di base e dalla Teologia della liberazione; molti leader dei movimenti sociali definiscono la loro fede ‘alla maniera della Teologia della liberazione’; tutti i ‘premi’ ricevuti da teologi della liberazione sono stati assegnati da organismi totalmente laici. La Chiesa è cosciente che 1’epoca delle ‘sinistre marxiste’ è praticamente finita; l’ideologia più pericolosa per la fede oggi non è l’ateismo, ma il neoliberismo che giustifica tutto il sistema di libero mercato; la Chiesa, che ha avuto tanta paura del marxismo e lo ha ferocemente combattuto, non ha ancora preso coscienza dei pericoli dell’ideologia neoliberale; la critica al neoliberismo non viene tanto dalla Chiesa istituzionale quanto dalla Teologia della liberazione e dai movimenti che a essa si ispirano; il mondo oggi non è diviso tra atei e credenti, ma tra neoliberali e movimenti che lottano per la vita di tutte e tutti; la Teologia della liberazione si colloca tra questi movimenti e ne è una fonte d’ispirazione; i settori sociali che oggi affermano che un altro mondo è possibile, che è possibile costruire una società in cui ci sia posto per tutte e tutti in armonia con la natura, tutti coloro che lottano per la pace, la giustizia e la vita della terra, tutti identificano le proprie motivazioni spirituali facendo riferimento alla Teologia della liberazione”.
Ma naturalmente la vitalità della teologia della liberazione è principalmente testimoniata dalla sua diffusione (anche in Africa e Asia esistono consistenti correnti e gruppi che in essa si riconoscono) e dai progressi della sua elaborazione, soprattutto legati, a conferma del suo essere “riflessione critica sulla prassi dei cristiani impegnati nelle lotte di liberazione”, all’emergere di nuovi momenti che affrontano nuove (e vecchissime) oppressioni: quindi teologia india, afroamericana, femminista, queer, ecc.), legata ai movimenti delle comunità autoctone, dei neri, delle donne, di gay, lesbiche e transgender, ecc., in una “complessificazione” di quel volto dei poveri che, oltre alla dimensione economica, vede e assume, per esempio, la “discriminazione morale”, l’appartenenza religiosa (in una reciproca fecondazione tra teologia della liberazione e teologia del pluralismo religioso, ritenuta indispensabile in “un mondo in cui ci sono molti poveri e molte religioni”, pena il limitarsi al dialogo accademico tra istituzioni religiose o il rinunciare a misurarsi con un tratto costitutivo dell’essere umano quale la religiosità) e “il grido della natura”, su cui insiste Leonardo Boff.
Tutto ciò è ben sintetizzato nella Lettera da Caracas resa nota in gennaio da alcuni organismi legati alla teologia della liberazione, tra cui il Centro di studi biblici del Brasile:
“Dopo un periodo di relativa invisibilizzazione, nell’ultimo lustro si è risvegliato un rinnovato interesse per la teologia della liberazione. Nonostante la persecuzione implacabile e perfettamente pianificata, la produzione teorica non si è fermata, ma ha anzi sperimentato una diversificazione, dal punto di vista dei temi, ma soprattutto per la nascita di nuovi soggetti produttori di teologia a partire dai loro volti specifici (donne, indigeni, contadini, giovani, afrolatinoamericani, ecc.). Quest’ultimo comporta una novità significativa poiché buona parte di questi soggetti sono laici e laiche, alcune/i con solida formazione teologica accademica e quasi tutte/i con profonda esperienza nel lavoro popolare. D’altro canto l’ultimo decennio è stato caratterizzato in misura notevole dalle lotte di diversi movimenti sociali, alcuni dei quali sono riusciti a rompere il funesto progetto neoliberale e persino iniziare processi sociali, economici e politici di nuovo tipo; è l’epoca della politica nelle strade. Risulta significativo che in alcune di queste esperienze si siano ripresi pubblicamente elementi della tradizione del cristianesimo della liberazione. Se negli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo la teologia della liberazione ha contato su un significativo tessuto sociale, espresso e organizzato in forme varie e dinamiche, molti di questi luoghi hanno perso la loro capacità di mobilitazione o sono semplicemente scomparsi come spazio di accoglienza e formazione per il campo popolare. Oggi sono altre le articolazioni e altri i modi e gli ambiti di organizzazione; non pochi movimenti sociali marciano oggi con le Chiese o nonostante esse. È abbastanza chiaro che la teologia della liberazione non è una tra le tante correnti teologiche e ha avuto la capacità di sistematizzare ed esprimere le radici e le direttrici liberatrici del cristianesimo. Possiamo quindi affermare che in America latina c’è un prima e un dopo nel modo di fare teologia. La teologia della liberazione ha avuto il coraggio di invitare i popoli a superare l’idea di un cristianesimo concepito come un compendio di devozioni, tradizioni e dogmi più o meno sublimi, e di invitarli a riscoprire la centralità della figura di Gesù e in particolare le sue preferenze e la sua prassi. L’invito resta valido”.
Mauro Castagnaro