I vent’anni della rivista
Vent’anni fa, la rivista. E qui il corso dei pensieri si divarica. Quelli “celebrativi” rincorrono quanto avvenuto per evidenziare i risultati, il valore dell’offerta… Gli altri fanno il controcanto (il verso, per la precisione!).
Per una volta tanto, proverò a seguire questi ultimi.
Come abbiamo fatto a pensare una rivista del genere in pieni anni ‘80, laddove il riflusso aveva spazzato via ogni traccia del precedente flusso; e, per stare al campo specifico della nostra piccola pubblicazione, si moltiplicavano gli annunci di decesso della classe operaia; gli stessi PO al lavoro erano ridotti all’osso; per non parlare del clima ecclesiale: lasciata alle spalle la stagione conciliare, imperava un woytjlismo rampante e veniva giusto in quegli anni presa di mira la teologia della liberazione…?!
Se fosse nata nel ‘67 sarebbe risultata credibile, in linea con la produzione di pensiero dell’epoca: militante, engagée. Non sarebbe apparsa stonata neppure se avesse visto la luce nel ‘77: forse gli “indiani metropolitani” l’avrebbero giudicata troppo seria, non del tutto all’altezza di quell’esplosione di gioia e creatività, non proprio allineata con quella “risata” destinata a seppellire i tristi detentori del potere. Ma, a parte il genere letterario, i contenuti potevano ancora essere apprezzati. Ma nell’87, quando si moltiplicavano gli incentivi per la rottamazione…! Un’evidente sfasatura!
Il lettore – che per una rivista simile non può non essere anche un simpatizzante (chi altri la leggerebbe?!) – strizza l’occhio al tono ironico e si aspetta il rovesciamento. Il lettore religioso, poi, sa che certe descrizioni storiche risultano penose perché svolte dal punto di vista umano (troppo umano!), mentre se le si leggesse dal punto di vista divino, tutto cambierebbe: i perdenti vengono esaltati, i potenti vengono rovesciati… Ma il capovolgimento di cui parla la Scrittura è escatologico, ovvero: nelle mani di Dio e riservato agli ultimi tempi. Nel “penultimo”, nessuna scappatoia (nessun deus ex machina, neppure per i PO!). Pur non ricorrendo a corti d’appello divine e rimanendo sulla difficile scena di questo mondo senza scappatoie di nessun tipo, si potrebbe celebrare la fecondità di una posizione critica, in controtendenza. Come recitava la campagna pubblicitaria di un noto (sic!) quotidiano: “vent’anni dalla parte del torto”! Eppure un autore spesso comparso nelle pagine di questa rivista – Bonhoeffer – non esita a mettere in guardia dal limitarsi a “prendere le parti degli eterni insoddisfatti”, ponendosi invece la dolorosa domanda sull’efficacia delle proprie azioni. Come dire: storicamente non bastano un giusto “vedere” e “stare”; occorre anche (e soprattutto) l’efficace “agire”. Su questo – lo sappiamo – saremo giudicati! Lì ci giochiamo ciò che è decisivo! Sulla vita giusta si appunterà la vista divina. La rivista è solo una “prova tecnica” di quell’appuntamento decisivo. È un giocare in anticipo ad accendere uno sguardo esigente sulla storia, così da passarla “al contropelo” (W. Benjamin). Appunto, una storia ri-vista!
Ecco, lasciando cadere senza alcun rimpianto i toni enfatici e celebrativi (che nel nostro caso risulterebbero subito ridicoli!), il nostro dibattere su queste pagine di lavoro, fede e giustizia può forse ambire ad essere un luogo di confronto che prova a smarcarsi dal chiacchiericcio effimero dei talk-show, che osa rischiare una “lettura evangelica” del presente, sempre nella consapevolezza di non essere all’altezza dell’operazione.
Per concludere, una necessaria precisazione, che si ricollega al genere letterario di queste poche righe: si può fare ironia in un mondo tremendamente serio, tragicamente ingiusto? Il bollettino di guerra delle morti sul lavoro basterebbe a richiamare l’urgenza su una condizione operaia drammatica, che spinge ad urlare più che a sorridere. Nella postmodernità liquida “ironia” è divenuta sinonimo di “disimpegno”, scelta di irridere tutto e tutti, sarcasmo su ogni presunto punto fermo, sulle passioni per la verità e la giustizia. Ma questa è la deriva, l’uso strumentale di un genere letterario sorto, in realtà, come denuncia, come abilità nello smascherare la presunzione degli oppressori nonché l’ingiustizia che abita anche colui che alza la voce e mette il dito nella piaga (appunto, l’autoironia). Alla scuola delle Scritture vale la pena recuperare tutto il potenziale critico dell’ironia.
E allora, che gli anni che ci rimangono da vivere (e da scrivere!) ci trovino nella veste di “yrenisti” combattivi, con la forza di una passione resistente alla barbarie di un presente ingiusto, nonostante tutto, e la leggerezza di un sorriso di chi è solo il dito, non certo la luna!
Auguri!
Angelo Reginato