Frammenti di vita


 
C’era una volta… un ragazzo timido e riservato. Così inizia il racconto della mia vita, rivolto a un gruppo di giovanissimi amici, seduti intorno sull’erba di un poggio esposto al tramonto del sole pronto ad immergersi nel mare, lungo la linea dell’orizzonte. Appoggiato ad un muretto della vecchia chiesa di Tramonte, con lo zaino accanto e gli scarponi ai piedi, percorsi in un attimo – più veloce della luce! – 50 anni di vita. Mi ritrovai disteso, faccia in su, a cercare nel cielo azzurro una via di fuga da tutta una rete di regole e di obblighi che facevano della mia vita di giovane studente una fatica improba, sempre più difficile da sopportare. Non mi andava giù il dover ripetere a scuola quello che i prof dicevano: quello e solo quello. Non mi andava giù che il mondo se ne fregasse di me e volesse solo impormi quello che fare per avere successo nella vita, per essere riconosciuto dagli altri. Non ero un ribelle. Tutt’altro. Fin troppo pieno di mille paure, ma con un solo coraggio: quello di cercare il mio spazio vitale! E capivo, sempre più chiaramente, che la terra mi stava stretta.
Cercavo spazi nuovi, esperienze al limite (relativamente alle mie reali possibilità!). Mi attiravano le montagne, i sentieri meno battuti, il “fuori strada” sempre e comunque. Con le cartine al 25.000 dell’Istituto Geografico Militare sotto il naso, tracciavo itinerari “impossibili” per realizzarli poi con gli equipaggiamenti pesanti e ingombranti rintracciati come tesori nei magazzini del mercatino americano a Livorno (allora una vera e propria miniera a prezzi abbordabili anche da noi ragazzi). L’esplorazione di grotte sconosciute, le traversate invernali dormendo sotto la tenda piantata nella neve, il più delle volte persi nella nebbia, i bagni in mare e nel fiume sempre più nel cuore dell’inverno, erano un modo avventuroso, spericolato (e in verità il più delle volte scriteriato…) di urlare il bisogno di sperimentare la frontiera di un mondo troppo portato a soffocare la voglia di novità, di superamento delle regole e degli usi imperanti che anche una gioventù ordinaria e per niente ambiziosa, come la mia, portava con sé.
Mi aiutava sicuramente una fervida fantasia. Leggevo libri di esplorazioni e avventure nelle parti più sperdute del mondo e immaginavo di vivere in luoghi sconosciuti. Tutto diventava per me oggetto di curiosità e di scoperta, fosse anche solo il piccolo stagno formatosi nel cratere di una bomba dietro casa di mio nonno. Avevo l’abitudine di sdraiarmi sull’erba e di guardare in alto cercando di rintracciare nei contorni delle nuvole profili di personaggi e di animali. E costruivo le loro storie (non c’era TV, computer…) in un mondo senza confini, barriere, leggi e dove la parola impossibile non si trovava sul vocabolario. Ancora di più nella notte sotto il cielo stellato, splendido anche sulle piccole città appena illuminate da fioche lampadine stradali. E mi sentivo accolto dalla volta celeste, compreso nel desiderio che la vita diventasse anche la mia. Il cielo (ancora la luna era fuori portata di ogni tentativo umano di raggiungerla) era come una grande pagina bianca su cui potevo tracciare quello che nasceva dentro di me.
Tutto precipitò con l’università. Nonostante le mie fantasticherie tenevo i piedi bene per terra. Mi iscrissi a ingegneria a Pisa convinto di uscire dalla scuola dove si veniva considerati ancora dei bambini per entrare in una scuola dove si era grandi con i grandi. Fu una delusione cocente dalla quale non mi ripresi più. Di nuovo lezioni dalla cattedra ed esami in una condizione anonima in cui – mi resi conto rapidamente – ero solo un libretto e una matricola. Tirai le somme dei miei primi vent’anni di vita e mi venne dentro una rabbia impotente. Avevo amicizie, considerazione, affetto. Mi sentivo a mio agio con i miei coetanei. Ma non sopportavo di vivere una gioventù tipica degli studenti che avevan solo da studiare e divertirsi. C’era un mondo da esplorare e, soprattutto, una liberazione da conquistare. Liberazione da tutto ciò che era già deciso, determinato, sentiero obbligato, spazio recintato, incanalato, ovvio e scontato. Ruppi. Ruppi di brutto. Mi sentii soffocare e, come quando ti viene a mancare il respiro, istintivamente annaspai verso il cielo.
Se questo fosse accaduto oggi, sarei diventato un… astronauta! Avrei comunque avuto tante possibilità di scelta. Molte di più di quelle che mi si presentarono allora. L’unico mondo a portata di mano che avesse un aria di mistero e lasciasse intendere dì essere antagonista con il mondo che mi diceva ormai poco o niente, era – a quel tempo – il mondo religioso. Intendiamoci, non il mondo delle parrocchie, i catechismi, le “funzioni”, le processioni, le usanze, le tradizioni… insomma, tutto quello che appare oggi a prima vista. Ho passato i sacramenti, ma al mio tempo tutto avveniva molto più rapidamente e poi era così per tutti, come andare a scuola, la domenica alla chiesa. Quello che attirava la mia attenzione era il mondo che allora – molto molto molto di più di ora! – viveva separato da alte mura. Fisiche spesso, ma anche psicologiche. Sacrali, quasi “magiche”. Quel poco che filtrava sapeva di leggerezza, di libertà dello spirito capace di affermarsi anche in condizioni di assoluta essenzialità. Non era esattamente quello che andavo cercando. Ma non vedevo alternative. Di fronte al mondo che mi soffocava, decisi di andare di là dal muro. E a 21 anni, dopo il biennio di ingegneria e vinta la resistenza di mia madre che s’era messa di traverso accusandomi di fuggire per una presunta crisi sentimentale (si era già scelta una nuora a lei congeniale…), il 2 ottobre 1961 (quasi 50 anni fa…) varcai la soglia del seminario a Tre Cancelli vicino Lucca, sul sellino posteriore di una vecchia moto e con in braccio una valigia di cartone con dentro quel poco che mi poteva servire.
Mi ritrovai a far parte di una convivenza di 120 seminaristi. Da ragazzini della prima media a studenti della quarta teologia in procinto di diventare preti. Divisi per classi (medie, ginnasio, liceo classico, teologia) in altrettante “camerate” (con il loro camerone per dormire, la loro aula per i compiti a “casa”) ognuna contraddistinta dal nome di un santo, diretta da un “prefetto” e un “viceprefetto” e cioè da due studenti degli ultimi anni di teologia. Nel refettorio tutti insieme (ma ogni “camerata” il suo lunghissimo tavolo) a colazione, pranzo e cena. A scuola per classe, naturalmente, sempre nello stesso edificio, al primo piano. Tutta la giornata, la settimana, i mesi, gli anni dentro l’enorme edificio circondato da un parco recintato. Un’ora di libera uscita (ogni camerata tutti insieme, con l’uniforme o la veste da prete, cappello compreso) tutti i giorni, domenica esclusa. Dieci giorni di “vacanza” a casa d’estate con l’obbligo di presentarsi tutti i giorni al proprio parroco per la messa e non solo.
L’avevo voluta la bicicletta…
Una vita tutta diversa da quella libera vissuta fino ad allora. Un che di mezzo tra la vita in un collegio, in una caserma o addirittura in carcere. E ben presto dovetti concludere amaramente che la vita al di qua di quel muro che delimitava il confine del seminario, non era affatto diversa da quella al di là del muro che avevo abbandonato con tante speranze. Gli stessi meccanismi che mi soffocavano nella vita di prima, si ripresentarono puntualmente in seminario. Con l’aggravante che i meccanismi autoritari e “educativi” del seminario venivano impaludati di sacra necessità e la volontà di Dio incombeva su tutto e su tutti come quella di un monarca assoluto.
Ero caduto, insomma, dalla padella nella proverbiale brace…
Oh, me tapino!
Mi resi amaramente conto che la carta vincente che credevo di avere in mano, valeva quanto quella che avevo scartato. Il “cielo” era del tutto uguale alla terra… Stesse regole, stessi principi, stessi confini, stessa soffocante ostilità nei confronti di ogni autonomia.
Non sono mai stato un “eroe”, ma nemmeno un vigliacco. Sentivo che non potevo semplicemente tornare a casa dicendo che mi ero sbagliato. Da casa ero uscito e non potevo tornare indietro. Questa sì che non me la sarei più perdonata. Rimasi in seminario; sentivo il bisogno di ricostruire un progetto dentro di me. Mi aiutarono soprattutto due esperienze.
La prima fu quella di trovarmi a studiare teologia in un momento di frattura tra l’insegnamento tradizionale e la novità costituita da un profondo ripensamento dell’intera materia a seguito di una lettura più libera e autentica delle Sacre Scritture. Alcuni prof erano della vecchia scuola, altri più giovani, portavano il vento del cambiamento a volte davvero radicale. Imparai – non solo per lo studio della teologia, ma per tutta la vita – a non dare per scontato niente e a verificare di persona le affermazioni che mi succede di ascoltare. Imparai, un poco per volta, a non fidarmi di nessun “pensiero unico”, ma a sentire il respiro forte e aperto del confronto.
La seconda esperienza forte di quel periodo fu la scoperta del Gesù di Nazaret.
Di un uomo libero, vissuto in un fazzoletto di terra, preso in lacci e laccioli fino a farne un capro espiatorio, eppure mai vinto. Autorevole sempre nelle parole e nei gesti. E il suo messaggio era quello di seminare il cuore di fiducia e di vita. Nessuna regola, nessuna prescrizione del mangiare, del bere, del vestire, del comportamento. Cose queste dettate da sfiducia umana degli uomini di chiesa, da sete di potere, da schemi culturali asserviti al dominio dell’uomo sull’uomo. Lui, così trasparente di orizzonti nuovi, così Dio.
Queste due esperienze mi aiutarono a smettere di cercare una soluzione dei miei problemi in un luogo piuttosto che in un altro, ma prima di tutto nel nutrire me stesso di sete di libertà e ricerca di vera umanità.
Passarono così tre anni e, dal momento che si avvicinava il tempo delle scelte definitive, cominciai a guardarmi intorno per uscire dal seminario e “rientrare” nel mondo.
Fu nell’estate del 1964 che qualcosa cambiò dentro di me. Passai quasi tutti i miei dieci giorni di vacanza dando una mano a far da mangiare ad un campeggio in una scuola di un paesino vicino Lucca. Lì incontrai Rolando, che mi fece conoscere Sirio, proprio alla Chiesetta del Porto dove ora abito (allora non l’avrei neanche potuto immaginare). Incontrare due preti così diversi dagli altri, così immersi in una vita quotidiana del tutto simile a quella di tanta gente, mi aprì una finestra nuova. Allora – dissi a me stesso – è possibile! È possibile essere se stessi ed insieme così “normali”, senza uniforme, senza rivestire ruoli specifici, senza “dover essere” imposto dall’esterno, dalle convenienze, dalle opportunità. Non contare, non imporre se stessi, ma camminare per la strada come uno tra tanti ed essere nello stesso tempo, vivi, accoglienti, partecipi, innamorati, fiduciosi… Dopo tanta pioggia, sapevo che c’era il sole sopra le nuvole. Non mi interessava più che tanto se ancora avrei dovuto bagnarmi fino al midollo. Prima o poi il sole caldo della sincerità di vita sarebbe uscito anche per me dall’oscurità del compromesso. Pagai i miei “debiti” verso la famiglia che mi aveva fino ad allora mantenuto. Finii gli studi a Roma come il mio vescovo voleva. Poi mi immersi in un mondo che avevo scoperto. Non su nel cielo angelico della spiritualità, ma “sotto terra” nella materia sudicia e pesante eppure così infinitamente più trasparente, libera e vera. Dopo 25 anni passati a scuola, andai a lavorare come bracciante agricolo, poi manovale in cantiere e quindi fabbro. Il lavoro manuale mi asciugò il cervello, ma mi allargò il cuore. Mille e mille volte ho creduto di non farcela, ma mai ho avuto cedimenti e desiderio di ritornare indietro. La ricerca, iniziata da ragazzo, di un autentico spazio di libertà, mi ha portato dalla “terra” al “cielo” per indirizzarmi poi “sotto terra”. È tra quelli che non contano niente, sfruttati e presi in giro, sporchi e sfatti, che ho trovato me stesso. La mia dignità, la mia autostima nasce e cresce nel “letame” della storia. Non mi vergogno di essere “niente” ora che sono vecchio. Di dipendere dalla bontà altrui, di mendicare una parola, un po’ d’amicizia, un po’ di affetto. Esser prete non mi dà alcun diritto; soprattutto nei confronti delle persone, di chiunque. Non ho mai “salvato” nessuno, non ho mai portato in chiesa nessuno. Offro quello che porto dentro, anche se non interessa a nessuno. Ho imparato dalle piccole polle di montagna che continuano a mescere acqua anche quando nessuno è lì per bere. È quello che mi importa: tenere aperta la porta del cuore anche se nessuno si avvicina. Magari temendo un giudizio religioso, una predica, una morale… O forse solo i miei limiti: quel mio atteggiamento riservato e scostante, la parola complicata, involuta e lenta, l’orso che sembra sempre pronto a tirar fuori gli artigli o solo l’estraneità di un prete… che non fa il prete!
Ora basta.
Questa – cari ragazzi, che avete avuto la pazienza di ascoltarmi – per sommi tratti l’avventura di un poveruomo. L’ho raccontata soprattutto per me stesso. E mentre parlavo mi venivano in mente tante cose di questi lunghi anni. Tanti volti! Quante cose, quanta gente. Che fiume che è la vita! Porta tutto con sé nella corrente. Ora che sono arrivato quasi al mare, lo capisco bene e ne sono contento. Anche se con tante lacrime.
Chissà se qualcuno mi ha seguito in questo svolgere per strappi il filo della mia vita? Cosa potrà pensare di questo essere stranito? Qualcuno dice che sono un po’ (assai…) matto. Sarà vero. Ma non me ne importa.

Luigi Sonnenfeld


 

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