“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (7)
Ancora una volta, inizio la mia comunicazione riportando un pensiero di colui che in questi ultimi anni è diventato compagno di tante mie letture, cioè don Primo Mazzolari:
“Ogni generazione, anche la nostra, ha le sue strade di perdimento e di salvezza, una sua maniera di cercare. La ricerca può anche degenerare e il pericolo è tutt’altro che ipotetico. Sotto i nostri occhi si svolgono avvenimenti così spaventosi che la ragione ne è sconvolta al pari del cuore. Ora, se lungo questa strada non incontreremo nessuno che faccia da testimonio a Cristo, lo smarrimento sarà anche maggiore. Testimoniare non vuoi dire predicare il ritorno sulle strade di una volta. La strada della salvezza dev’essere davanti e continuare. Una strada, che ha servito un tempo, è rispettabile: ma se adesso non conduce più, ci dev’essere qualche cosa che non va bene, almeno per noi.
Finora abbiamo dimostrato al nostro mondo più sollecitudine che fiducia, più tono di tutela che di salvezza. La tutela non è mai amabile e pochi sono disposti a sopportarla. Il nostro mondo sopporta piuttosto la servitù, qualora la giustifichi un sogno di potenza e di grandezza. La cristianità di ieri ebbe epoche meravigliose, che fermano ancora la nostra ammirazione: ma se ci adoperassimo a ripristinarle oggi, il pugno di lievito diventerebbe un cippo funerario”.
Così scriveva don Primo nel 1943 in Impegno con Cristo.
Come icona evangelica del nostro incontro mi piace suggerirvi quella dei due discepoli di Emmaus, che, mentre ritornano al loro paese la sera del Giorno dopo il sabato, accettano la compagnia di quello sconosciuto così interessato alla loro vicenda.
Quanto è successo ha sconvolto radicalmente la loro vita. I loro sogni sono svaniti, quindi non hanno più interesse per il futuro. Non attendono più nulla. Il loro vivere non ha più orientamento, non sanno più dove andare, se non tornare indietro, a casa, al già conosciuto, al già vissuto, al già fatto.
Cominciano però a rialzare la testa, a reagire a quella pesantezza che li opprime, nel momento in cui accettano che “l’altro” entri nella coniugazione del loro racconto: e il carico della situazione, ridistribuendosi, acquista leggerezza, pur mantenendo il suo peso.
Tenendo presente questo sfondo, vi racconto brevemente la storia che sto scrivendo, ora, a Canicossa, come operaio in pensione e da quattro anni prete con incarico pastorale in tre piccole comunità del mantovano.
Vivo cercando di mantenermi ‘libero’, cioè non organizzando troppo la mia vita né quella della gente (è già fin troppo organizzata!): cerco di offrire spazi e tempi in cui potersi incontrare, raccontare, ascoltare narrandosi con calma e serenità le vicende della vita. Cerco di annunziare buone notizie, senza lasciarmi travolgere, inasprire, incattivire dalla denuncia: anche se a volte si fa molta fatica, perché il peso che la Chiesa ha posto sulle spalle dei credenti è molto grande.
Scopro, si può dire quotidianamente, quanto sia enorme l’indebitamento prodotto nelle coscienze della gente, nel corso dei secoli, da parte della Chiesa col suo sistema ‘usuraio’ di gestire il religioso.
La parrocchia, come gestione del sacro, non è strutturata in vista di conversioni, ma di esecuzioni di comportamenti; infatti la funzione della parrocchia è stata concepita in un ambiente religioso e sociale molto diverso dall’attuale: era a servizio di una cristianità già formata ed esistente. Da qui penso derivi la sua naturale inclinazione a conservare, più che ad innovare.
Ecco perché il compito di parroco che ho assunto spesso mi inquieta, perché non vorrei essere complice del tentativo sempre presente all’interno della Chiesa di ricucire lo strappo del velo del tempio.
E proprio per questo tengo sempre presente la lezione impartita da Gesù nella parabola dell’amministratore disonesto: cerco, cioè, di star vicino ai ‘debitori’ costruiti dalla Chiesa per dire loro: “Siediti e scrivi cinquanta”; magari mi farò degli amici che mi accoglieranno nella loro casa.