“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (4)
La malattia del parlare non mi è passata: anche stasera dirò qualcosa, anche se rispetto alle testimonianze ascoltate finora rischio la banalità. Ci chiediamo “cosa siamo” ora; tenterò di dare una mia risposta. Anzitutto sono un pensionato, ma… non sono un disoccupato. Già nei primi anni della mia vita operaia mi ero fatto un mio esame di coscienza: “ho lo stipendio di un padre di famiglia, ma la famiglia non c’è; ho l’età di un padre di famiglia e la famiglia non c’è”. Mi sono guardato attorno e ho scoperto una piccola comunità di accoglienza che stava per sciogliersi, perché i responsabili (religiosi maristi) stavano per prendere altre strade verso “terre di missione”. Subentrai a loro, e mi trovai coadiuvato da due obiettori di coscienza che, dopo sei mesi, terminarono il loro servizio. Volli avere anche una presenza femminile. Allora vennero ad abitare con me due volontari: una ragazza e un giovane ex seminarista. Dopo un periodo di circa due anni, la ragazza e l’ex seminarista e obiettore di coscienza scoprirono che… potevano far comunità tra loro meglio che con me e i ragazzi.
Insieme a un vecchio amico che avevo conosciuto giovanissimo trovai intanto una casa in cui coabitare: era un “veterano” di affidi e, oltre a una figlia sua, aveva pure adottato un figlio. I ragazzi che accolsi furono in tutto quattro, tra gli anni ‘80 e ‘90. Intanto il passare degli anni pose me e il mio amico di fronte a una nuova domanda: l’età del “padre di famiglia” la stavamo ormai superando… così decidemmo di “fare i nonni”: la casa in cui abitavamo aveva una “dépendance” che era stata appena lasciata libera da altri religiosi. La utilizzammo per iniziare una nuova accoglienza: mamme cacciate di casa, lasciate sole con i loro bambini, che giungevano spesso segnate anche fisicamente da certe “affettuosità” piuttosto rudi…
In quel tempo conobbi alcuni giovani che si stavano impegnando nella formazione di “cooperative sociali”. Ora vivo con loro, in un piccolo villaggio dove si assommano varie realtà: accoglienza a mamme sole con bimbi; piccola comunità terapeutica per tossicodipendenti minorenni, ippoterapia, uffici gestionali di alcune cooperative. Potemmo trasformare in “villaggio di accoglienza”, grazie ai fondi per il recupero di aree urbane degradate, che ci permisero di costruire su un terreno datoci in comodato gratuito dal Comune per 99 anni (per me più che sufficienti… i più giovani vedranno poi loro!). Le mamme rimangono per periodi variabili, fino a quando hanno raggiunto una possibilità di autonomia. I ragazzi della comunità tossico hanno un percorso triennale, fatto anche di lavoro: con i cavalli che servono per l’ippoterapia e in un piccolo orto che ci fornisce verdura fresca, mentre loro, con vanga e zappa fanno “ginnastica riabilitativa”.
Con loro vivo la mia vita di “pensionato non disoccupato”, occupandomi più direttamente delle diverse esigenze delle mamme (tra tutti sono quello che ha più “tempo libero”) e accompagnando i ragazzi nella “ginnastica riabilitativa” dell’orto. Vivo così la mia vita di “prete un po’ poco di chiesa”. Seguo intanto gruppi di preghiera e di “spiritualità” attiva. Uno dei più recenti, nato da poco più di un anno, ha anche un suo sito internet: www.chiccodisenape.wordpress.com, sul quale si possono seguire lavori e dibattiti e, volendo, si può anche intervenire. L’occasione prossima che ci indusse a dare vita a questo luogo di dibattito ci è stata fornita dall’invadenza ruiniana (e non solo sua) nel campo politico, togliendo spazio e legittima autonomia ai laici impegnati: la cronica incapacità di accettare un laicato adulto che renda conto anzitutto alla propria coscienza, senza necessariamente sottomettersi alle pressioni gerarchiche, cosciente che suo compito politico è lavorare per il mondo, non per le istituzioni ecclesiastiche. O per un “progetto culturale” che finora nessuno ha saputo spiegare in cosa consista.
L’inizio del “chicco di senape”: una lettera alla comunità ecclesiale di Torino, ai suoi preti e al suo pastore. La prima risposta fu piuttosto dura e, come il solito, di stampo puramente gerarchico: “quella lettera dovevate mandarla a me e io avrei dato la risposta”, ci disse il vescovo Poletto. Poi il gruppo dei firmatari riuscì ad avere un dialogo con lui, dopo lunghe insistenze. Ero tra quelli e quando entrai nella sala dell’incontro, mi sentii subito apostrofare: “tu qui sei fuori posto: l’incontro era per soli laici”. Risposi, un po’ sullo scherzoso, che sono nato laico e in seguito ho posto la mia laicità a servizio della comunità dei credenti e che, se si vuole fare distinzioni, non è tra due “stati sociali” (chierici e laici), ma tra servizi diversi che si prestano nella comunità, fondati non sulla divisione, ma sulla comunione (presbiteri a servizio del sacerdozio comune del “popolo di Dio”). Ricordai anche che il Concilio non promulgò un documento dal titolo “Clericorum Ordinis”, ma “Presbyterorum Ordinis”, per parlare della vita e del ministero del prete. Il confronto che ne seguì fu piuttosto robusto e non è del tutto concluso. È in vista un convegno diocesano promosso dal gruppo per il prossimo 8 novembre.
La convivenza con responsabili di Cooperative Sociali mi pone ancora di fronte ai problemi del lavoro oggi: di quel lavoro che riguarda soprattutto i più sprovveduti (condizione necessaria per essere considerati “cooperative sociali” è l’assunzione di almeno il 30% della manodopera tra disabili a diverso titolo). Non mancano le ambiguità e non di rado la domanda ritorna: siamo un rimedio alla precarietà o rischiamo di esserne compici?.
Purtroppo una delle cause di questa situazione sono gli appalti (e in particolare gli appalti degli enti pubblici) in cui si punta soltanto ed esclusivamente al “basso costo” (che si traduce in salari di miseria per coloro che lavorano) senza per altro porre attenzione alla qualità del servizio: “se non ci state voi, vi sono altre cooperative pronte”; la logica del “padrone delle ferriere” è sempre attuale. Sento che anche a me fa bene vivere e lottare in questa situazione di ambiguità, restare solidale con chi se la sente imporre ogni giorno.
Le domeniche e le feste le dedico al servizio liturgico in due parrocchie e anche qui… a chi mi chiede qualcosa su questo servizio son costretto a far notare che, se in fabbrica ho sempre rifiutato di sottostare al lavoro a cottimo, le domeniche invece diventano giornate di vero e proprio “cottimismo liturgico”. Oltre il resto (cosa graditissima ai parroci) la mia pensione mi permette di dare un servizio totalmente gratuito, lasciando ogni “offerta” alla parrocchia.
Così passa la mia vita, tra attività di accoglienza e partecipazione a gruppi di ricerca. Quando predico nella parrocchie so di avere davanti altra gente “in ricerca”: ma tutto purtroppo si riduce alla “imbeccata dall’alto” (omelia…) senza un vero confronto. Mentre son sempre più convinto che solo il confronto fa crescere anche chi ha come compito particolare la predicazione…