Ci scrivono
A più di quaranta anni dalla morte, il metodo pedagogico dell’autore di “Esperienze pastorali” e di “Lettera a una professoressa” conserva la sua piena validità.
In un periodo di accese discussioni nel mondo della scuola mi piace ricordare la figura di Don Milani.
Il 26 giugno del 1967 a Barbiana moriva all’età di 44 anni, stroncato da un male incurabile, Don Lorenzo Milani, prete di frontiera e assertore di una pedagogia rivoluzionaria che vuole la scuola orientata nelle sue finalità educative alla presa di coscienza civile e sociale. Ai tempi di don Milani, la cui esperienza formativa inizia nei primi anni cinquanta, la scuola era ancora classista, di fatto preclusa alle classi meno abbienti, e il gap a livello di opportunità era il rovello costante di questo giovane prete che proveniva dall’ambiente alto borghese di Firenze.
Don Milani riconosce grande importanza alla “parola”, che prima di essere un paradigma religioso è uno strumento di liberazione umana. “Ogni parola che non conosci — diceva sempre ai suoi ragazzi – è una pedata in più che avrai nella vita”.
Lontanissimo dalla retorica dell’amore universale che il più delle volte è solo una enunciazione priva di contenuti, incarnò il suo essere prete ed educatore nella pratica spicciola ma fortemente incisiva della scuola di Sant’Andrea a Barbiana, dove attuò la sua piccola grande rivoluzione pedagogica attraverso l’applicazione del metodo e scritti che hanno un valore permanente.
Nel libro Lettera ad una professoressa giunge a ribaltare completamente il ruolo dell’educatore denunciando la natura classista dell’istituzione scolastica e proponendo attraverso nuovi strumenti nuovi obiettivi idonei a venire incontro alle esigenze dei ceti meno privilegiati.
Una delle scelte più forti di don Milani fu quella di usare come unico mezzo di comunicazione le lettere, che erano indirizzate non solo ai conoscenti ma anche a riviste e giornali. Nel preparare testi come Lettera ad una professoressa fece la scelta di far scrivere direttamente i ragazzi per renderli più consapevoli dei percorsi formativi da essi praticati. Il motto I care (mi importa) riassume bene il senso di questa pedagogia.
Un capitolo controverso è quello dei rapporti tra don Milani e La Chiesa cattolica. Nel marzo del 1958 viene pubblicato Esperienze pastorali con l’imprimatur del cardinale arcivescovo della diocesi di Firenze Elia Dalla Costa. Il saggio suscita non poche polemiche. Il 15 dicembre dello stesso anno il Sant’Uffizio ordina il ritiro dell’opera e ne proibisce ristampa e traduzione perché il testo è giudicato “inopportuno”. Poco prima il convegno La settimana del clero e un articolo di Civiltà cattolica avevano fatto due stroncature senza appello del libro.
Don Milani ha rappresentato per la Chiesa un grave abbaglio storico. Pur nel clima di rinnovamento giovanneo, fu additato come rivoluzionario e ribelle. Ma egli in definitiva scelse come punto di riferimento la strada, come era accaduto un secolo prima a Don Bosco, e abbracciò la radicalità del vangelo.
Fu un testimone straordinario, capace di saldare cielo e terra, vangelo e giustizia sociale, pedagogia e non violenza. Non ebbe mai paura di “contaminarsi” con l’umanità più oppressa e fragile, nella doppia fedeltà a Dio e all’uomo, da realizzare possibilmente su questa terra.
Pippo La Barba