Sguardi dalla stiva (2)


 

Intervista di Ezio Rossi a Gianni Tamino

 
Sono quasi un miliardo (963 milioni, per l’esattezza) le persone che soffrono la fame, 40 milioni in più dell’anno scorso. È stato l’ultimo Rapporto Fao, pubblicato qualche giorno prima di Natale, a lanciare l’allarme. “Nei paesi in via di sviluppo riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente per poter condurre una vita attiva e sana è ancora un sogno lontano” ha dichiarato Hafez Ghanem, vicedirettore generale della Fao e curatore del rapporto. Eppure “sradicare la povertà estrema e la fame” era il primo degli otto “obiettivi del Millennio”, sottoscritti nel 2000 da tutti i 191 stati membri dell’Onu. Nel 2015 la popolazione che soffre la fame dovrà ridursi della metà rispetto al 1990, era stato solennemente dichiarato in quel settembre di otto anni fa. E oggi, a oltre metà del percorso stabilito, veniamo a sapere che coloro che soffrono la fame non sono diminuiti di una sola unità, ma sono addirittura aumentati. Com’è potuto accadere?
Ne abbiamo parlato con Gianni Tamino, docente di biologia all’Università di Padova e da sempre in prima linea nella battaglia per la difesa dei diritti dei più poveri.

“La fame dipende essenzialmente dal fatto che quel miliardo di persone non ha accesso agli alimenti, e non dalla mancanza di cibo. Sono ormai più di 60 anni, dagli accordi di Bretton Woods quando furono istituiti il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale e poi il Gatt (Accordo generale sulle tariffe e il commercio) e infine l’Organizzazione mondiale del commercio, che le grandi istituzioni internazionali operano in funzione di una globalizzazione dei mercati”.

Ma che rapporto c’è tra la globalizzazione dei mercati e la fame nel mondo?

La globalizzazione dei mercati agricoli, giustificata con la scusa di combattere la fame, ha avviato il primo processo di industrializzazione dell’agricoltura con l’uso pesante di prodotti chimici e di sistemi meccanizzati. Questa operazione ha prodotto la cosiddetta rivoluzione verde, che avrebbe dovuto risolvere i problemi dei paesi più poveri del mondo, mentre in realtà li ha aggravati. In molte parti del pianeta, infatti, l’agricoltura di sussistenza, certamente da superare ma che garantiva comunque la sopravvivenza della popolazione, è stata sostituita da un’agricoltura che produce cibo e beni materiali per i paesi ricchi. E mentre i costi per ottenere quei prodotti continuano a crescere, i loro prezzi sul mercato internazionale rimangono invariati o addirittura scendono. Così molte persone del sud del mondo si sono trovate nell’impossibilità di produrre cibo per se stesse e contemporaneamente prive dei soldi necessari a comprarselo”. L’aumento del costo delle sementi e di quello dei fertilizzanti sono, secondo la Fao, la causa principale del notevole incremento di coloro che soffrono la fame.

Lei concorda con questa analisi?

Questi sono solo i fattori contingenti. L’aumento del prezzo del petrolio ha fatto salire il costo delle sementi, il cui valore è determinato da una logica di futures, cioè da un acquisto oggi di un qualcosa che mi verrà consegnato domani nella speranza che il suo valore cresca, secondo una logica puramente speculativa e finanziaria. E questo sistema ha aumentato le difficoltà di accesso al cibo.

E qual è allora la causa principale della fame di un miliardo di persone?

Il motivo di fondo è costituito dal fatto che il cibo è globalizzato. Una produzione di alimenti locali per le popolazioni del posto sfuggirebbe infatti a questo ciclo perverso. Per fortuna oggi quasi metà della popolazione mondiale vive ancora dell’agricoltura di sussistenza. Se venisse eliminata, come si sta cercando fare con la logica degli aiuti, con la politica del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale e con quella dei brevetti sui prodotti chimici e sugli Ogm, si creerebbe in ogni parte del mondo un mercato in cui si produce e si vende in funzione di chi offre di più. E, secondo questa impostazione, è ovvio che i paesi più poveri finiscano per produrre alimenti per chi è in grado di pagare i prezzi più alti. E poi non dobbiamo dimenticare che molti agricoltori ricevono ogni giorno uno stipendio inferiore agli aiuti che i paesi ricchi stanziano per le mucche. Soia e mais coltivati nel sud del mondo servono a produrre mangimi con i quali si alimenteranno gli animali che poi andranno a costituire quel cibo di lusso per i paesi ricchi. E con quei mangimi, laddove mangerà carne e latticini un solo uomo, avremmo potuto sfamare 8-10 persone.

Di fronte a questo meccanismo perverso le proposte di soluzione del problema appaiono soltanto dei pannicelli caldi…

È vero. Alla Fao si sono finalmente resi conto che non si possono produrre carburanti dall’agricoltura. E non solo perché così facendo si consuma più energia di quanta se ne produce, ma perché si sottrae cibo ai più poveri oltre che far aumentare il valore delle sementi. Ma non hanno invece capito che se continueremo ad alimentare una filiera che produce alimenti per un decimo della popolazione mondiale, creeremo inevitabilmente un aumento di persone che non hanno accesso al cibo.

Cosa dovremmo fare allora?

I movimenti dei campesinos e quelli che si battono per migliorare l’agricoltura del sud del mondo ci invitano a consumare alimenti che produciamo in sede locale. In questo modo i produttori dei paesi poveri non avrebbero più convenienza a esportare e potrebbero cominciare a produrre cibo per le popolazioni locali. Insomma, se privilegiamo la filiera corta e i mercati a chilometri zero, inevitabilmente indurremo il mercato mondiale a non andare a prendere cibo nel sud del mondo.

L’evidente crisi di questo modello di sviluppo si intreccia con il problema della limitatezza delle risorse e con quello di una più equa redistribuzione della ricchezza, nel senso che ciascuno non può prescindere dagli altri…

La Fao ha separatamente affrontato tutti questi problemi, ma non riesce a metterli assieme e a trarne le conseguenze perché è politicamente bloccata. Il cibo prodotto nel pianeta è in grado di sfamare una volta e mezzo o forse due l’intera popolazione mondiale. Il problema allora, come ho già accennato, non è di quantità ma di accesso agli alimenti. C’è poi una questione di sprechi enormi causati dalla globalizzazione: circa la metà dei prodotti venduti in un qualsiasi supermercato proviene da diverse parti del pianeta e un quantitativo non secondario si perde nel trasporto e nelle varie fasi di lavorazione. Un’analisi dei rifiuti italiani e inglesi ha dimostrato che un terzo di quello che noi comperiamo al supermercato finisce direttamente nella pattumiera. E non bisogna infine dimenticare che Europa e Nord America consumano più alimenti del necessario. Insomma, a fronte di un miliardo di persone che non hanno cibo a sufficienza, ne abbiamo altrettante che ne consumano troppo e hanno problemi di obesità.

È necessaria, insomma, una rivoluzione culturale nel rapporto dei paesi ricchi con il cibo.

Sì. In Italia, per esempio, molte persone stanno abbandonando la dieta mediterranea per avvicinarsi a quella nord americana molto più basata sullo spreco. Eppure la miglior alimentazione, anche dal punto di vista della salute individuale, è quella mediterranea, che prevede non più di 20-25 chili all’anno di prodotti di origine animale, contro gli 80-90 degli italiani e i 120-140 dei nord americani. Rendersi conto, allora, che ritornare alle tradizioni della cucina mediterranea, alle produzioni locali e alla filiera corta è anche un modo per ridurre lo spreco, sarebbe un grosso passo in avanti. Così, come ha denunciato Vandana Shiva, anche i commercianti indiani non troverebbero più conveniente far marcire i loro prodotti in attesa di venderli al nord del mondo, piuttosto che darli a un prezzo accessibile agli indiani che muoiono di fame.

Di fronte a questi problemi, il “consumiamo di più” proposto dal nostro presidente del consiglio appare risibile e del tutto fuori luogo.

Sì, è ridicolo spingere a consumare di più. Ma anche rilanciare gli Ogm, come ha fatto qualche mese fa Berlusconi, non ha alcun senso. In realtà gli Ogm sono falliti, perché 3 o 4 piante con due soli geni inseriti in 10 anni dimostrano che questa innovazione non ha portato alcun vantaggio. E poi da quando sono sul mercato, cioè da 10-12 anni, gli Ogm non hanno risolto il problema della fame nel mondo, ma l’hanno aggravato. Sono aumentati infatti i costi per gli agricoltori poveri, i prodotti sono stati brevettati e le multinazionali, che controllano tutto, hanno obbligato i coltivatori a usare prodotti chimici e diserbanti. Ma se i 6,5 miliardi di persone che abitano il nostro pianeta volessero mangiare la metà dei prodotti di origine animale che consumano gli statunitensi, ci vorrebbero circa tre pianeti terra per garantire a tutti la carne necessaria. Se si usa l’agricoltura intensiva anziché il pascolo forse ne bastano due, ma in questo caso il pianeta si distruggerebbe molto più rapidamente. Allora, di fronte a una situazione simile, spingere i cittadini a consumare di più significa invitare ad aumentare lo spreco di cui parlavo prima.

Se questa è la situazione, non è allora così assurdo parlare di decrescita…

Il termine decrescita può essere inteso in due modi: uno, come conseguenza degli errori del mercato e della economia globale. In questo momento, per esempio, rispetto a una logica di crescita del Pil ci troviamo di fronte a una fase di decrescita, che si subisce e che ha conseguenze negative in termini sociali. La decrescita come obiettivo, invece, è tutt’altra cosa. Significa non pensare più a un’economia basata sul Pil, ma su indici di benessere collettivo in cui non conta quanto si consuma ma quanto si riesce a soddisfare in termini di convivenza, socialità e convivialità. E vuol dire anche mangiare quanto serve, magari in maniera più lenta e conviviale, non accettare la logica da supermercato, utilizzare auto che consumano meno… insomma, vivere meglio.

Come mai questo discorso in politica non passa, nemmeno a sinistra?

Perché tutta l’impostazione politica, di destra e di sinistra, è economicista, cioè basata sulla falsariga della crescita: un modello che non ha riscontro in natura. Quest’ultima infatti non procede per crescita ma per equilibrio e sostenibilità.

 

(da L’altra pagina on line mensile)


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