Convegno di Bergamo 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
INVITO ALLA RIFLESSIONE
In questi ultimi anni noi pretioperai ci siamo incontrati qui a Bergamo, invitando anche nostri amici a condividere testimonianze, domande e ricerche su temi per noi importanti ed attuali. Vi riporto i titoli dei nostri tre ultimi incontri: “A quarant’anni dal Concilio dov’è la chiesa dei poveri?”; “Operare giustizia in un mondo ingiusto”; “Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia” tradotto in positivo nel titolo del quaderno che raccoglie gli atti “La forza della leggerezza”.
Quest’anno abbiamo pensato di allargare l’invito a quanti sentono la necessità di riflettere sulla crisi nella quale siamo immersi, organizzando questo convegno all’interno del nostro ritrovo annuale. Il bisogno di comprendere è legato ad una antinomia di fondo che caratterizza la nostra epoca. Essa viene così espressa da Edgar Morin:
“Il XX secolo ha vissuto sotto il regno di una razionalità che ha preteso di essere la sola razionalità, ma che ha atrofizzato la comprensione, la visione a lungo termine. La sua insufficienza nell’affrontare i problemi più gravi ha costituito uno dei problemi più seri dell’umanità.
Da ciò deriva un paradosso: il XX secolo ha generato progressi giganteschi in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica, così come in tutti gli ambiti della tecnica. Nel contempo, ha prodotto una nuova cecità verso i problemi globali, fondamentali e complessi, e quella cecità ha prodotto innumerevoli errori e illusioni, innanzitutto negli scienziati, nei tecnici, negli specialisti.
La parcellizzazione e la compartimentazione dei saperi rendono incapaci di percepire ciò che è tessuto insieme” (E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina 2001, p.46).
Possiamo dire di avere sotto i nostri occhi un esempio lampante: la crisi economica nella quale il mondo è piombato e i ragionamenti che su di essa vengono imbastiti. È molto raro sentire un pensiero che vada oltre l’orizzonte della dinamica economica, prendendo sul serio le tragedie umane che ad essa sono sottese. Che ponga il problema a livello del senso e che sappia assumere i problemi dell’umanità e del suo futuro come interesse supremo e come orientamento di fondo per la ricerca. Insomma: manca un respiro ampio, l’unico che possa davvero aprire dei varchi per il domani che attende i nostri figli.
A questo proposito ancora Morin ci avverte della cecità nella quale naviga la scienza economica:
“L’economia, per esempio, ossia la scienza sociale matematicamente più avanzata è la scienza socialmente ed umanamente più arretrata, poiché si è astratta dalle condizioni sociali, storiche, politiche, psicologiche, ecologiche inseparabili dalle attività economiche. Per questo motivo i suoi esperti sono sempre più incapaci di interpretare le cause e le conseguenze delle perturbazioni monetarie e di Borsa, di prevedere e di predire andamenti economici, anche a breve termine. All’improvviso, l’errore economico diviene una conseguenza primaria della scienza economica” (Ivi, 42).
Dal settembre dello scorso anno abbiamo assistito ad una continua rincorsa di fallimenti e salvataggi di istituzioni finanziarie di calibro mondiale, a partire dai paesi più ricchi. La mano pubblica ha sborsato cifre astronomiche nel tentativo di turare le falle, mentre si ipotizzava un possibile fallimento dell’intero sistema finanziario. Si è parlato di conseguenze pesanti sull’economia reale. Generalmente però si tende ad occultare i disastri che si sono già consumati a seguito degli orientamenti impressi dai poteri finanziari:
“Ciò che in pochi hanno rilevato è che la cosiddetta economia reale da tempo conosceva fallimenti assai più gravi per i destini umani che non quelli del sistema finanziario, e che alla fonte di questi fallimenti si ritrovano precisamente gli sviluppi giudicati all’unanimità o quasi, negli ultimi vent’anni, come indubitabili successi del sistema stesso. Dopotutto lo scopo sostanziale dell’economia consiste nel provvedere alla sussistenza dell’uomo al più alto livello di civiltà storicamente possibile, usando assieme con gli altri mezzi a esso subordinati — il lavoro, la terra, la conoscenza — anche lo strumento finanziario, il denaro. Al contrario, per quasi una generazione si è affermata una credenza e una prassi per cui qualità e quantità della sussistenza, scalzata dalla sua posizione di scopo ultimo, potevano derivare soltanto dall’ascesa al potere della finanza” (L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi
2009, 5-6).
Ci troviamo di fronte ad un’economia svuotata del suo scopo ultimo e in più con una portata mondiale, per l’interdipendenza delle economie nazionali; infatti si parla di un unico sistema economico, di un’economia mondo. Con un paradosso che pare assumere i caratteri di una pulsione verso la dissoluzione:
“Il sistema finanziario mondiale ha subito una trasformazione da strumento dell’economia reale a suo padrone, e in luogo di sostenere la prima, il risparmio risulta da ultimo impiegato contro di essa” (Ivi, 17-18).
In proposito l’autore cita una dichiarazione di Warren Buffet, uno dei maggiori finanzieri del mondo, che “ebbe a definire già nel 2003 i derivati «gli equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa”.
In qualche modo tutti noi, inevitabilmente, soffriamo di questo stato di cose che ci sovrasta, anche perché la dimensione economica è correlata in maniera permanente con tutte le altre dimensioni del vivere e, inoltre, l’economia porta in sé bisogni, desideri, passioni umane che oltrepassano i semplici interessi economici.
Ecco: in questa situazione noi riteniamo importante riflettere e pensare, pensare insieme, cercando di sfuggire ai limiti del pensiero unico a cui abbiamo accennato. Certamente l’argomento è estremamente complesso. Però questa giornata ci può aiutare ad approfondire, con l’aiuto dei relatori che si sono resi disponibili, e con i contributi e le competenze che possono venire anche dalle nostre testimonianze.
UN TITOLO STRANO?
Ci si potrebbe domandare: perché un titolo del genere? Qualcuno potrebbe rispondere che si è proposto un titolo curioso per fare incuriosire. Non è questa la regola di giornali, riviste, programmi TV ecc.?
La risposta vera la ritrovo nel titolo del capitolo conclusivo di un libro di Ricoeur (Finitudine e colpa): “il simbolo dà a pensare”. Ecco: abbiamo adottato un linguaggio simbolico perché riteniamo che sia il più adatto a sforare la cappa formata dal linguaggio addomesticato, ripetitivo, monocorde. Esso introduce alla realtà multidimensionale che è propria del mondo umano.
Il nostro titolo ha un carattere dirompente perché alla parola capitalismo, che dopo il 1989 rappresenta l’unico orizzonte economico a livello mondiale, vengono accostati tre termini che rispettivamente fanno riferimento al mondo biblico, ad una fiaba di Andersen e alla mitologia greco-latina.
Capitalismo
Mi limito a segnalare una precisazione di Enrico Chiavacci, teologo moralista cattolico, che troviamo in questa annotazione:
“Bisognerebbe farla finita con la distinzione tanto cara in ambienti cattolici, e perfino vaticani, tra liberalismo, che sarebbe una cosa buona, e capitalismo selvaggio, da deprecare. Il capitalismo non può fare a meno di essere selvaggio perché tende alla massimizzazione del profitto” (E. Chiavacci, Quando l’etica è distratta, in AA.VV. Economia come teologia, L’altra pagina 2000, 72-73).
Le dimensioni e la violenza della crisi attuale e le conseguenze in termini di sofferenza umana che non riusciamo neppure ad immaginare dimostrano ad abundantiam la verità disumana di una economia che ha smarrito la sua finalità sostanziale, per riprendere le parole di Gallino, che è il suo essere in funzione della vita dell’umanità, di tutta l’umanità che abita la terra.
Idolo
Per la Bibbia l’idolo è una costruzione umana che viene sopravvalutata fino ad occupare lo spazio del divino. Essendo un prodotto umano assume forme molteplici nel corso della storia il cui esito comune è comunque quello di disumanizzare l’uomo. Calvino, il riformatore protestante, diceva che il cuore umano è una fucina di idoli, mentre uno degli ultimi scritti del N.T. si concludeva con un appello: “figlioli, guardatevi dagli idoli” (1Gv 5,21).
“Non esiste l’idolo senza uno sguardo umano che lo renda tale e senza un cuore che si senta fatalmente attratto dalla sua avvincente vacuità… L’idolatria… consiste nello scambiare i mezzi con il fine, la parte per il tutto, nell’assolutizzare il presente chiudendolo al futuro” (Enzo Bianchi).
Riferendoci precisamente al nostro tema è illuminante una parola molto concreta di Arturo Paoli:
“Dobbiamo pensare il mercato alla stessa stregua delle grandi ideologie che hanno dominato la storia del XX secolo. Oggi possiamo dire di essere sotto la dittatura di un’altra grande ideologia: il liberismo del mercato globalizzato, che non ha niente a che fare con l’essere liberali, come ben aveva capito Benedetto Croce. Il mercato, con i suoi dogmi, assomiglia a un sistema di pensiero che assume, progressivamente, la fisionomia di un idolo, al quale siamo spinti ad aderire; né più né meno di come il sistema comunista diventò idolatria per Stalin o il nazismo per Hitler. L’oppressione nasce dalla presenza di un’entità astratta, senza volto né nome, l’idolo appunto, al quale ci rivolgiamo nelle cose di tutti i giorni” (A. Paoli, G.L. De Gennaro, Il dio denaro, L’altra pagina, 2009, 17).
Più avanti aggiunge:
“La nostra società è prettamente atea e pagana, perché il mercato è l’espressione più esatta dell’ateismo… È questo l’aspetto sul quale i cristiani si sarebbero dovuti concentrare. Smascherare l’unico vero idolo del nostro secolo: il mercato. È chiaro che il mercato è un idolo, perché non tiene conto nella maniera più assoluta dei sacrifici e della distruzione umana. La cosa drammatica è che noi, che viviamo in questa parte dell’Occidente cristiano, non abbiamo la benché minima percezione di tale idolatria dilagante e pervasiva” (Ivi, 25-26).
Nudo
L’idolo è nudo. Ma lo è davvero? Come possiamo dirlo?
Dipende dallo sguardo. L’idolo ha bisogno dello sguardo, uno sguardo da ammaliare, da fermare su di sé, da avvincere, da assorbire in maniera totalitaria, immediata. Lo sguardo deve farsi complice in un processo di falsificazione, come in un incantesimo.
Ci viene in aiuto la favola di Andersen “I vestiti dell’imperatore”. La fiaba parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Alcuni imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni.
I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché; come i suoi cortigiani prima di lui, anch’egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori.
Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida: “ma non ha niente addosso!”.
Il re è nudo. Non basta che lo sia. Occorre vederlo com’è davvero. Occorre uno sguardo libero, che sappia osservare quello che succede, che non ci stia nella complicità del trucco. Il bambino della fiaba possiede questa capacità perché abita una distanza che lo rende immune dalla grande seduzione. Per questo nei suoi occhi brilla una luce che rivela, operando lo smascheramento.
Per associazione mi viene in mente una riflessione di Bonhoeffer dopo dieci anni di nazismo, esemplare figura dell’idolatria:
“la grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante; ma per il cristiano che vive della Bibbia, è appunto la conferma della abissalità del male” (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, lettere dal carcere, ed. Paoline 1988, 60).
Attenzione, il pastore luterano parla del “cristiano che vive della Bibbia”, cioè in posizione di distanza rispetto alla grande mascherata. È la possibilità di vivere la distanza pur essendoci dentro. Senza questa distanza critica si diventa preda di quella che Bonhoeffer chiama la stupidità:
“Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’instupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che sì tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri… Sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano” (Ivi, 65).
Così troppo spesso avviene che ci accorga solo dopo, quando le condizioni storiche sono cambiate, delle avvenute perversioni idolatriche. Saggezza vorrebbe che ogni generazione facesse tesoro e imparasse da quelle che l’hanno preceduta, per non ricadere nei medesimi errori.
Vi riporto un esempio limpido. Lo leggiamo nell’appello di convocazione del Congresso Eucaristico celebrato a Tripoli nel 1937:
“Italiani della Libia, il congresso eucaristico che per la prima volta si tiene in terra d’Africa, è così solenne avvenimento da unire e innalzare tutti i cuori cattolici in una altissima espressione di fede. Fede religiosa, che siamo fieri di proclamare anche in questa terra… Fede politica, perché nel fascismo i cattolici italiani hanno trovato la dottrina valorizzatrice di ogni viva forza spirituale e nel duce il realizzatore della grande conciliazione che ha dissipato come nebbia al sole quel dissidio tra chiesa e stato che agli uomini di poca fede sembrava dovesse perdurare insanabile. Fede patriottica, in quanto il congresso eucaristico di Tripoli assumerà pure il significato di un fervido ringraziamento all’Onnipotente che ha sorretto l’Italia nell’epica impresa africana conclusa con la fondazione dell’impero” (G. Rocco, I Congressi eucaristici nazionali in Italia, pp.70-71).
Ora non è difficile cogliere la perversione in quel miscuglio di fedi evocate. È la distanza imposta dal tempo trascorso che favorisce uno sguardo diverso. Per noi il problema è abitare oggi quella distanza che ci consenta di essere svegli, come il bambino della fiaba.
Metamorfosi
Vuol dire trasformazione. Ha un significato amplissimo che affonda le sue radici negli antichi miti raccontati da Ovidio sino al racconto più noto di Kafka. In questa sede noi lo applichiamo al capitalismo.
Sicuramente nel corso della sua storia ha subito diversi cambiamenti che è importante avere presenti. Ma ora sembra che ci troviamo di fronte a qualcosa di assolutamente nuovo. È proprio così?
– Il capitalismo si basa sul mito della crescita continua. In questa crisi ha ricevuto un duro colpo proprio a partire dagli USA e da lì si è diffuso, come l’onda dello tsunami, in occidente e nelle altre parti del mondo. Si può immaginare una ripresa della crescita — quello che i governi e i loro ripetitori proclamano con messaggi informati al pensare positivo — come se quello che sta accadendo fosse una parentesi transitoria? Visto lo stato del mondo — vedi ad esempio la crisi energetica e l’affacciarsi sullo scenario internazionale di grandi paesi come Cina ed India, i problemi della sostenibilità del nostro modello di sviluppo a fronte dei limiti sempre più evidenti del sistema mondo — come può sognare l’occidente di continuare a crescere?
– La de-regulation folle dei movimenti di capitale, partita nel 1974 negli USA e adottata anche dai paesi europei negli anni ‘80 ha portato ad astronomiche quantità di denaro vaganti e incontrollabili.
“Una massa enorme di risparmio, equivalente all’incirca al PIL del mondo, viene gestito senza alcun controllo di merito né… alcuna valutazione di responsabilità nei confronti di qualunque soggetto, che non sia compreso tra i loro sottoscrittori, e talora nemmeno nei confronti di questi… da enti finanziari… che di mestiere investono quotidianamente denari altrui, detti investitori istituzionali” (Gallino, 17).
È possibile un governo dell’economia — quello che si sta tentando di imbastire a livello internazionale — con mine vaganti di questo calibro?
– Ho trovato una bella immagine in uno scritto di R. Petrella. Paragona l’attuale economia finanziaria a una mongolfiera. L’economia reale corrisponde alla navicella, mentre l’economia finanziaria al pallone. La logica della finanziarizzazione dell’economia fa sì che sia essa a stabilire quello che deve stare dentro il cesto. E che succede quando il pallone si sgonfia o addirittura si buca?
“Nella crisi del sud-est asiatico è accaduto che le pareti, per eccesso di gas, non hanno resistito, la mongolfiera si è bucata e allora la navicella ha cominciato a sbandare: sono stati scaricati 20 milioni di indonesiani, 10 milioni di coreani della forza-lavoro attiva, 30 milioni di poveri in Brasile, 30-40 milioni delle fasce più deboli della popolazione in Russia. Una volta scaricata la zavorra, si ricomincia” (R. Petrella, La teologia del mercato, in Economia come teologia, 90-91).
Anche negli USA e in Europa si è cominciato a buttare “zavorra” e non si sa quanta ancora ne verrà buttata, ma basterà per riprendere a volare come prima?
Oppure una fase della storia umana sta chiudendosi?
È possibile ancora immaginare un’economia che riscopra la sua finalità sostanziale ponendo al centro gli enormi bisogni umani disseminati su tutta la terra? Perché non è possibile inventare uno strumento di navigazione più ospitale della mongolfiera?
ROBERTO FIORINI