Convegno di Bergamo 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
Relazione sull’economia (seconda parte)
Completiamo la documentazione relativa al convegno del 1° maggio scorso pubblicata nel numero precedente (82-83), riportando il dialogo che si è sviluppato tra Daniele Checchi e i presenti. Le domande formulate e le puntualizzazioni del relatore conservano la loro attualità e lasciano trasparire il buon livello di comunicazione che si è sviluppato in una materia tutt’altro che facile.
Domanda dal pubblico:
Quali politiche metterà in campo il nuovo presidente degli Stati Uniti Barak Obama? E quali ripercussioni avrà sullo scenario italiano?
Due cose mi sembrano degne di nota nelle scelte fatte da Obama.
La prima è che ha rimosso l’idea che i governi si debbano astenere dal fare politica economica. Pensiamo al trattato di Maastricht, che è una specie di camicia di ferro messa sui governi con l’idea che, qualunque sia il colore politico, i governi democraticamente eletti non debbano essere indotti a spendere denaro pubblico. Tant’è che il trattato ribadisce che il disavanzo pubblico, ovvero la differenza tra entrate e uscite, non debba superare il 2,5% del prodotto interno lordo. Negli Stati Uniti in tre mesi hanno speso il 7,5% del PIL: tre volte tanto quello che il trattato di Maastricht permetterebbe a ciascuno stato europeo.
La crisi economica ha riportato al centro del dibattito il ruolo dei governi e l’importanza del loro intervento nella determinazione dei livelli di produzione e occupazione. Ma quando si riattribuisce un ruolo allo stato nel fare politiche economiche, si va direttamente in controtendenza rispetto all’ideologia liberista che predica l’astensione da qualunque intervento: ricordiamoci che la regola d’oro dei monetaristi era l’astensione dei governi dal fare politica monetaria.
La seconda novità che intravedo è l’aumentata coscienza del fatto che i movimenti speculativi sono stati facilitati dai cosiddetti “paradisi fiscali”, ovvero quei paesi in cui tutto è lecito. È infatti partito un coordinamento tra paesi capitalistici sviluppati per riportare sotto controllo i movimenti finanziari speculativi. Paesi tradizionalmente amici degli speculatori (come Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein) sono stati costretti a rompere il tradizionale segreto bancario sotto la pressione dei paesi europei. Se dal coordinamento delle banche centrali venisse una tassa che rallenti le speculazioni (come la Tobin tax), o anche più semplicemente una riduzione della libertà di movimento dei capitali, questo farebbe bene alle economie nazionali, perché i capitali dovrebbero trovare occasioni di investimento nel finanziare il sistema produttivo interno. Oggi sui mercati finanziari i fondi sovrani hanno a disposizione molte risorse, in alcuni casi eccedenti la produzione nazionale dei paesi, alla ricerca di occasioni di investimento. Queste ingenti quantità di capitali agiscono come destabilizzatori politici, perché possono far saltare l’equilibrio politico, comprando gli attori rilevanti. Se si riduce la libertà di movimento e si riconducono questi fondi ai risparmi nazionali da cui sono originariamente partiti, dal punto di vista della crisi si esce in una direzione se non progressiva, quantomeno non ulteriormente devastante.
Vi è poi una dimensione più squisitamente ideologica di cui tener conto. L’ondata thatcheriana e reaganiana ha creato negli anni 90 del secolo scorso un clima politico nei paesi sviluppati, per cui le tasse sono un male da ridurre e l’intervento pubblico è da minimizzare. Nessuno si è stupito se dalle riduzioni delle tasse hanno guadagnato più i ricchi dei poveri, e il principio di ridistribuzione dai ricchi ai poveri è stato progressivamente messo in soffitta. Anche in Italia questo messaggio è arrivato con il berlusconismo, ma anche i governi di centrosinistra non ne sono stati esenti. Basta ricordare che è stato il governo di centrosinistra ad abolire l’imposta sulle successioni. Anche Reagan fece lo stesso, suscitando la protesta sui giornali dei ricchi progressisti (come Bill Gates), che sostenevano l’equità di redistribuire collettivamente la ricchezza alla fine della vita di una persona. Per questo la riforma della sanità pubblica americana ci riguarda direttamente. Chiaramente i sistemi europei sono più progressisti di quello che uscirà dal congresso americano. Ma per l’impatto culturale di quella mossa diventerà più difficile ai governi europei fare dei passi verso la privatizzazione.
Ci sarà una riforma delle grandi istituzioni finanziarie internazionali? E cosa dire della finanza islamica?
Io non penso che osserveremo una riforma degli organismi internazionali (Nazioni Unite, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) perché non vedo alcuna spinta politica in quella direzione. Le Nazioni Unite hanno perso totale credibilità con la guerra in Iraq scatenata da Bush, e nessuno dei paesi ricchi sembra interessato a riattribuire potere a questa istituzione. Fondo Monetario e Banca Mondiale, istituzioni nate dall’accordo di Bretton Woods alla fine della Il guerra mondiale, sono state scavalcate dalla nascita di accordi monetari locali (come la nascita dell’euro) che hanno ridotto la loro capacità di influenzare le politiche nazionali con la concessione di crediti. Anche in questo caso non si legge di esigenza di istituzioni che finanzino la crescita dei paesi in via di sviluppo. Per non parlare di come questi stessi organismi hanno gestito la transizione all’economia di mercato dei paesi dell’area ex-sovietica, favorendo la privatizzazione selvaggia degli apparati produttivi nazionali. A fronte di questa perdita di credibilità, nessuno ne invoca la resurrezione.
Rispetto alle economie di tutto il mondo arabo e islamico, di cui so poco non avendo mai approfondito l’argomento, posso solo richiamare che la maggior parte dei paesi arabi sono sistemi economici fortemente dipendenti dall’estero in quanto fortemente dipendenti dal gettito del petrolio. Questo crea due ordini di problemi: da un lato accresce l’instabilità proveniente dall’estero, in quanto il petrolio è oggetto di speculazione internazionale; dall’altro rafforza la concentrazione della ricchezza in poche mani, in quanto l’accesso democratico a quelle risorse è azzerato, e facendo sì che siano tra i paesi più diseguali del mondo.
Cosa si può fare contro la speculazione?
La speculazione viene dal desiderio di raccogliere guadagni di breve termine. Non possiamo dire che basterebbe una moneta unica per evitare la speculazione, perché virtualmente ogni cosa può essere oggetto di speculazione. Lo speculatore per definizione lavora contro quello che gli altri si aspettano che succeda. Quando la gente pensa che convenga comprare case, lo speculatore vende; quando la gente pensa che ci sono troppe case e le vende, lo speculatore compra. Da questo punto di vista l’unica vera politica efficace è quella che aveva intuito Tobin: lo speculatore per guadagnare ha bisogno di comprare e vendere frequentemente: appena vede salire un prezzo, compra per poi rivendere poco dopo, fosse anche nell’arco di un paio d’ore. Allora, l’unico modo per colpire uno speculatore è fargli pagare una tassa minima ogni volta che compra e vende. Ricordiamoci che l’elettronica ha azzerato i costi di transazione, e la speculazione è esplosa anche per questo, perché in tempo reale si può operare su più borse, su Tokyo di notte, su Londra, su New York.
Cosa si può dire dell’allargamento dei mercati? È una tutela dei consumatori?
Che ci sia stata e che tuttora sia in corso un’operazione di allargamento dei mercati è vero, ma questa non è un’operazione di tutela, ma è una delle dimensioni attraverso cui la globalizzazione si espande, perché non dimentichiamoci che, dal punto di vista strettamente ed egoisticamente nazionale, per l’Italia l’allargamento a Est dell’Europa è stato una rovina: i posti di lavoro sono stati spostati laddove il costo del lavoro era più basso (anche se Tremonti e Bossi invocano la chiusura delle frontiere, dimenticandosi i profitti fatti dagli imprenditori leghisti del lombardo-veneto).
Ricordiamoci che l’allargamento dei mercati è una forzatura sulle comunità nazionali prodotta dal capitale. E da questo punto di vista non sono così convinto che, siccome è guidata da loro, produca una reazione dello stesso ordine di grandezza. Certo, nel medio-lungo periodo può darsi che ci sia un movimento sindacale di tipo europeo, ma temo ci vorranno diversi decenni.
Mi sembra invece più convincente una logica che dice: a fronte della crescita della globalizzazione le comunità nazionali reagiscono con la varietà istituzionale che le caratterizza. Questa però è una reazione anti-globalizzazione. I movimenti di capitale internazionale rendono i posti di lavoro instabili nei territori. Ma le comunità locali possono rispondere con istituzioni che sono radicate territorialmente. Degenerazioni leghiste locali sono i sussidi ai disoccupati lombardi, ma nascondono un problema reale. La possibilità di ricostruire per alcuni aspetti caratteristiche di vita più consone ai propri desiderata mi sembra una soluzione che lavora in una direzione anti-globalizzazione. Resta ovviamente una contraddizione, perché la possibilità di sviluppare a livello locale delle istituzioni a carattere solidaristico, che costruiscano dei mini sistemi di welfare regionali, si scontra con il fatto che si accentueranno i divari tra territori, come la dinamica del federalismo all’italiana sembra far presagire.
Cosa ci possiamo aspettare dalla crisi sul piano finanziario?
Uno degli aspetti della crisi è la ridistribuzione della ricchezza. Molti investitori esteri investono negli Stati Uniti, non solo i governi degli altri paesi, ma anche operatori privati. Una delle ragioni per cui investono è che gli Stati Uniti sono dei generatori di debito, e così facendo generano occasioni di investimento. Gli americani sono ormai da alcune decine di anni, come collettività nazionale, un paese che spende più di quello che produce, e che quindi ha bisogno tutti gli anni di indebitarsi verso qualcuno: può indebitarsi verso le proprie generazioni future usando il debito pubblico, oppure può indebitarsi verso il resto del mondo emettendo titoli di debito pubblico americani; oppure — terza alternativa che è stata sfruttata negli anni sessanta ma oggi meno disponibile — stampando dollari. Queste sono le tre alternative possibili per continuare a consumare al di sopra delle proprie possibilità. Nel momento in cui i dollari sono detenuti meno volentieri dalle banche centrali degli altri paesi, nel momento in cui indebitarsi con le proprie generazioni future vuol dire vendere agli americani stessi i titoli di debito pubblico e gli americani stessi sono sempre meno disposti a comprarli, l’unica altra fonte di finanziamento diventa ottenere credito dagli altri paesi. Questi altri paesi accettano con le loro esportazioni di permettere agli americani di consumare più di quello che producono. Questo è il ruolo che la Cina assolve in questo momento nei confronti degli Stati Uniti: se la Cina accetta di esportare merci negli Stati Uniti e di venire ripagata non con dollari (che non desidera detenere), non con promesse di pagamento (che prima o poi potrebbero saltare), ma con quote di proprietà di aziende americane, allora la cosa può continuare nel tempo. È circa una ventina d’anni che i cinesi (e prima di loro i giapponesi) diventano soci (e quindi pro-quota proprietari) della struttura produttiva americana.
Quanto può durare questo fenomeno? Può proseguire finché non c’è una decisione politica con cui si dice: fermi un attimo, ci stiamo esponendo troppo nei confronti di un altro paese. Qual è il rischio a cui sono esposti gli investitori cinesi? Che gli americani nazionalizzino le imprese di proprietà estera. Questo non si vedeva dagli anni 30, e per questo la nazionalizzazione delle banche americane è stato un altro shock culturale prima ancora che economico, perché l’idea che lo stato ricompri al prezzo di esproprio è un gesto che per l’investitore finanziario suona come un campanello d’allarme. lo oggi sono azionista e ho comprato ad un certo prezzo le mie quote di proprietà della banca; lo stato la nazionalizza, mi liquida con quello che decide lui, e io soffro di una perdita in conto capitale.
Finché un governo non l’ha mai fatto, l’investitore può credere che continuerà a non farlo; ma da quando un governo fa la prima nazionalizzazione, il segnale è stato mandato; e a quel punto gli investitori esteri fanno un passo indietro. A questo punto per gli americani si pone il problema: o comprimono i consumi, oppure trovano un altro canale di finanziamento, che può diventare l’appropriazione violenta di risorse (la guerra), oppure può diventare l’imposizione militare del finanziamento: occupo una regione e da quella regione dreno costantemente risorse che finanziano le mie possibilità di consumo.
Come si fa ad affrontare il problema del debito, in particolare quello americano?
Non ci sono altre alternative. Comprimere i consumi vuol dire indicare chi nella comunità nazionale deve comprimere i suoi consumi; se sono i ricchi che devono pagare la crisi o se sono i poveri; o se c’è un patto nazionale che… Però se non ci sono i sindacati che mediano il conflitto e che in qualche modo redistribuiscono i costi della crisi in modi più o meno equi, è problematico, perché non vi è un interlocutore credibile, e tutto appare autoritariamente calato dall’alto. Le prime uscite di Obama che dice “è possibile alzare le tasse sui ricchi” sono probabilmente dei tentativi di sondaggio implicito per capire dove distribuire i costi della crisi.
Nel caso degli Stati Uniti comprimere i consumi vuole anche dire smettere di sussidiare i consumi (gli americani pagano la benzina mezzo euro al litro), ma anche rivedere il sistema del credito al consumo. Uno dei meccanismi attraverso cui la propensione all’indebitamento degli americani è cresciuta è il fatto che tutti i cittadini hanno 5 o 6 carte di credito su cui possono andare in debito di 4- 5 mila dollari l’una. Quello delle carte di credito è un business grosso per le banche. Quando parlavo di induzione al debito intendevo anche questo. In questo caso si tratterebbe di obbligare i cittadini ad avere non più di una carta di credito, per far sì che il loro debito non cresca oltre una certa soglia. Ma per comprimere i consumi in modo socialmente accettato occorre costruire un’alternativa culturale, nel senso che la decrescita imposta dall’alto non funziona. Che cosa fai fare alla gente nel momento in cui non li mandi a lavorare? Mettiamoci nei panni di chi deve governare questo processo: la riduzione dell’orario di lavoro, 3 ore al venerdì pomeriggio, è meglio perché così consumano di più. Ma se i lavoratori stanno a casa 4 giorni alla settimana (perché decrescita vuol dire che facciamo metà del lavoro per metà del consumo), cosa faranno durante 4 giorni queste persone? Si instupidiscono davanti alla televisione per 20 ore al giorno? Il problema culturale è tutto qui.
Cosa ne pensi della finanza etica?
Il problema del non consumare diventa immediatamente il problema di cosa ne fai del non consumato. O rientri nel canale finanziario oppure inventi degli investimenti sociali: diventa una professione, perché a questo punto come fai a fidarti? Come studioso devo però dire che la transizione dal capitalismo a qualcos’altro non avverrà per conversione mentale dei singoli. C’è un esempio sotto gli occhi di tutti noi del perché questo è molto implausibile: se la distribuzione del reddito è diseguale e c’è un regime democraticamente eletto, perché i più poveri non votano per l’espropriazione dei più ricchi? Non è successo da nessuna parte, però la teoria prevederebbe che se tutti fossero perfettamente razionali e fossero in grado di far due conti, il socialismo dovrebbe essere immediatamente votato. Siccome però non è successo negli ultimi 300 anni, dobbiamo domandarci perché: perché manipolano le coscienze, perché i più poveri non vanno a votare, perché…
Però tutte le volte che abbiamo visto una trasformazione sociale, in generale è stata una trasformazione di tipo violento. Vuol dire che ci sono delle forze di reazione molto attive: e l’idea che improvvisamente tutti ci convertiamo e passiamo a un altro sistema per libera scelta non mi sembra praticabile.
DANIELE CHECCHI