Sguardi dalla stiva
Due pagine tratte da “Servi. il paese sommerso dei clandestini”
di Marco Rovelli (Feltrinelli Milano 2009, 18-19)
Michael non se ne rende conto, ma lui è indispensabile all’intera economia italiana. L’economia italiana muterebbe forma, senza i Michael, i Marcus, i Mircea.
Anche perché dietro di loro ci sono molti Hassan, immigrati regolari che però sono, a loro volta, potenzialmente clandestini, e lo saranno sempre finché la legge prevederà la concessione del permesso di soggiorno legandola a un contratto di lavoro. Gli Hassan che popolano i cantieri del Nord, per esempio, quelli per le grandi opere, magnifiche e progressive.
Costretti a lavorare in nero o in seminero, costretti a piegarsi a ogni forma di ricatto, a ogni salario, a ogni richiesta del padrone e del padroncino. Anzi, del “Patrone”, com’è la pronuncia dei Michael e dei Marcus.
Perché i Michael e gli Hassan siano indispensabili al sistema economico italiano lo sanno anche i bambini: la concorrenza globale la si affronta abbattendo i costi del lavoro e incrementando la flessibilità dei lavoratori.
Chi meglio di un clandestino, allora? Michael e Hassan non hanno mai sentito la parola “postfordismo”, ma la conoscono sulla pelle, perché loro ne sono le mani. Il liberismo globale — e l’italia, il paese industrializzato che fa più ampio ricorso al lavoro nero, e in cui l’economia sommersa cresce di anno in anno, ha di certo un ruolo d’avanguardia — ha bisogno di queste braccia; fatte salve le mani, però. I gesti delle mani, quelli non si devono vedere.
E a sancire questa cecità ci sono le leggi sull’immigrazione che servono a produrre clandestini, e che dei clandestini hanno istituito i luoghi propri: i Cpt. Che oggi si chiamano Cie, ma i giochi di prestigio delle parole è meglio non seguirli per non restare ingannati.
Ho visto mani anche là, nei Cpt. Ho visto mani strette in pugno nel Cpt di Lamezia Terme, là dove la detenzione è mascherata tra gli ulivi, un cordone di silenzio teso fra i migranti e il mondo di chi può parlare. Ho visto Dragan, lui era stato il primo a chiamare, quando ancora ero fuori, ho visto le sue mani strette alle sbarre della finestra, e diceva di sé, e del mondo che gli è stato sottratto.
“Sto in Italia da diciassette anni”, raccontava Dragan. “A Casoria ho moglie e quattro figli, tutti nati lì. Un mese fa sono andato in ospedale a trovare un parente operato di cuore, sono venute due pattuglie della polizia e mi hanno preso”.
“Sono clandestino”, diceva, e le sue mani si agitavano nell’aria e tornavano a stringere più forte le sbarre. “Ma sono loro che mi hanno fatto restare clandestino. Io ho sempre lavorato, qui. Per tanti anni ho fatto il muratore, adesso facevo il meccanico. In nero, certo. Se hanno deciso che io devo essere clandestino, come posso lavorare altrimenti? Lo hanno deciso loro, perché un anno dopo essere arrivato dalla Serbia mi avevano sbattuto in galera perché lavoravo in nero per un italiano che aveva una baracca dove vendeva gas per auto. Sono venuti per un controllo, a lui gli hanno fatto una multa, a me la galera. E per quella galera adesso mi rimandano in Serbia, e io là non ho più nulla e nessuno”.
Dragan, le sue mani strette alla sbarra, che dice sottovoce: “Non sto bene”, è solo uno dei tanti.
Tutto finisce nel Cpt: è lì che si compie il senso. Il Cpt, alfa e omega del clandestino. La clandestinità viene alla luce solo in un campo di detenzione, in una terra di nessuno che sradica ed espropria, ma che enuncia il senso di una condizione senza voce, senza diritto di parola. È lì che emerge ciò che per definizione non può emergere. Questa è la condizione paradossale di un campo. Una serra di piante senza fiore né frutto, destinate al macero.
“Il Cpt annulla le persone,” mi diceva Jihad, e io ripetevo. Ma questo è solo l’inizio (o la fine, che è lo stesso): è la condizione clandestina in quanto tale che annulla le persone, e le rende disponibili alla soggezione.
Sempre di soggetti si tratta, ma con la differenza di una preposizione: non più soggetti di (diritto), solo soggetti a (al diritto, a un padrone). Non più azione, solo passione. Il clandestino non ha voce, non ha parola, e chi non ha la parola pubblica è uno schiavo, scriveva Aristotele.
La riduzione in schiavitù dei clandestini, allora, quella schiavitù che scandalizza e ripugna, e che perciò è facile trovare di questi tempi sulle pagine dei giornali, non è un fatto superficiale, che può risolversi facendo appello a ragioni umanitarie. Quello è solo uno scandalo per finta. La schiavitù è invece un attributo della clandestinità. Un clandestino è sempre, potenzialmente, schiavo. Lo schiavo si fa davvero scandalo solo quando diventa pietra d’inciampo, e intralcia il cammino.
Marco Rovelli