Caleidoscopio


 
L’idolatria è innanzitutto un errore antropologico: l’idolo sfigura l’umano. Solo così la questione dell’idolatria non si riduce a peccato religioso, a problema sacrale ma rivela tutta la sua decisività come chiave di lettura per interpretare il reale. Ciò non toglie che la deriva antropologica visibile a valle, a monte sorga coinvolgendo l’immagine di Dio. Qui il problema riguarda il tipo di rapporto che s’instaura col divino. L’idolatria, infatti, non sta nell’oggetto ma nella relazione che si ha con esso. Gli adoratori del vitello d’oro si rivolgono all’idolo usando le espressioni ortodosse della fede: “ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” (Es 32, 4 e 8). Viene, dunque, usato il linguaggio della liberazione ma per rivolgersi ad un dio fatto con l’oro degli egiziani (Es 12,35s). La relazione instaurata con l’idolo è ancora sotto il segno del faraone, nonostante la fuoriuscita dalla casa di schiavitù. Israele non segue Mosè, non sa che fine abbia fatto quell’uomo (Es 32,1); e, soprattutto, non ha maturato la sua fede. Quella di cui parla la lettera agli Ebrei:

Per fede Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, che godere per breve tempo i piaceri del peccato… Per fede abbandonò l’Egitto, senza temere la collera del re, perché rimase costante, come se vedesse l’invisibile (Eb 11,24-27).

Come si matura una simile fede? Come ci si libera dal faraone?
Vorrei riandare alla narrazione dell’esodo provando a leggerla come paradigma teologico-politico in grado di farci comprendere il nostro tempo. “Comprendere il proprio tempo con il pensiero e con la Scrittura”: questa è la sfida di una lettura della Bibbia capace di far “sentire in grande”.
La Scrittura è in grado di offrire grandi quadri interpretativi, icone, paradigmi; di fornire, cioè, una lettura simbolica dell’attualità. La sua narrazione dà da pensare. E non solo al credente. La “rivelazione” ebraico-cristiana, infatti, si pone come parola in dialogo con quella umana, nella misura in cui entrambe sono mosse da una medesima preoccupazione: la “vita piena”.
L’esodo costituisce la scena-madre, il fondamento dell’intera costruzione, l’avvenimento decisivo di tutta la storia della salvezza.
In qualità di “evento fondatore”, l’esodo va ricordato di generazione in generazione come un memoriale, una memoria viva da ri-attualizzare, una memoria pericolosa perché domanda conversione (Dt 5,3 e 29,13-14). Uno dei passi salienti dell’Haggadà, la narrazione pasquale ebraica, invita ogni partecipante a considerare se stesso come personalmente uscito dall’Egitto:

In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto come è detto: ‘in quel giorno tu dichiarerai ai tuoi figli: questo si fa per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto perché il Santo, benedetto egli sia, non redense solo i nostri padri, ma redense anche noi con loro, come è detto: Ci fece uscire di là per farci entrare e darci il paese che aveva giurato ai nostri padri.

Ma quale memoria si fa di quell’evento? Che tipo di relazione instauriamo col Dio liberatore? Al paradigma esodico hanno attinto generazioni di credenti per comprendere la fede come itinerario. Anche la riflessione laica non si è sottratta al fascino di quella narrazione, rileggendola non tanto come parola divina quanto come grande codice dell’occidente, a cui attingere per pensare il vivere in comune e progettare i cambiamenti necessari (M. Walzer).
La stagione che abbiamo alle spalle, il nostro passato prossimo (che nell’accelerazione dei tempi ci appare già remotissimo!), ha provato, di nuovo, ad attingere a quell’evento, leggendolo come paradigma teologico-politico di emancipazione e liberazione.
 

L’interpretazione “liberazionista”

 
Con questo aggettivo, intendo far riferimento non solo alla stagione più recente, che ha visto protagonista le teologie della liberazione, sorte nel contesto di povertà e oppressione sociale, prima nel continente latinoamericano e poi nelle diverse aree del sud del mondo. Pur differenziandosi sotto molti aspetti, anche le teologie emancipazioniste europee e nordamericane hanno condiviso una medesima lettura del paradigma esodico. E, risalendo più a monte, fino ad abbracciare l’intero ciclo della modernità, quel tipo di lettura ha caratterizzato una pluralità di proposte teologiche in dialogo con un’umanità ormai maggiorenne, fuoriuscita dalle tutele ecclesiali, in grado di pensarsi autonomamente e non più sulla base di principi di autorità eteronomi.
La fede, per sottrarsi al sospetto di essere divenuta moneta fuori corso, per essere all’altezza delle sfide poste dalla modernità, doveva mostrare di non “dilapidare tesori in cielo”, ovvero di manifestare una propria (pur paradossale) “fedeltà alla terra”, contribuendo all’emancipazione storica e non limitandosi a rinviare ad una salvezza nell’aldilà. Nel contesto della modernità, ed in particolar modo nell’arco di tempo tra il 1789 ed il 1989, i credenti che non si sono limitati a pensare la fede in termini semplicemente difensivi o individuali ma hanno arrischiato un serio confronto con le istanze poste dalla modernità, hanno trovato nel racconto biblico dell’esodo la grammatica di base per esprimere una fede all’altezza dei tempi.
Che tipo di lettura è stato fatto dell’evento esodico? Almeno come linea di tendenza, si potrebbe affermare che di quell’evento si è valorizzato principalmente il punto di partenza e quello di arrivo.
La condizione di Israele in terra d’Egitto viene espressa nel testo biblico in termini di schiavitù, di oppressione, di fatica insopportabile. Immediata l’identificazione dell’oppresso che percepisce il racconto biblico come se parlasse proprio della sua condizione. Ma anche il borghese europeo, la cui situazione non era certo quella dello schiavo, percepiva in quella potente descrizione un simbolo di ogni rapporto non libero e sentito come degradante la propria dignità, dal quale era necessario emanciparsi. Attori sociali, che si trovavano su fronti opposti, attingevano alla stessa grammatica esodica, pur applicandola a discorsi radicalmente diversi.
Una grammatica della denuncia (il grido disperato del racconto biblico) e, insieme, della speranza di una fuoriuscita da quella situazione intollerabile.
Se il punto di partenza è la casa di schiavitù, in una condizione di servo sottoposto al signore (faraone), punto di arrivo è la terra promessa, dove il popolo, definitivamente sottratto all’arbitrio del tiranno, vive nella libertà e nella pienezza delle proprie possibilità. La modernità è piena di utopie sociali e religiose che hanno attinto a piene mani il latte ed il miele di quella terra futura, punto di arrivo del processo di liberazione. Conta di meno che ci si sia messi al seguito di Prometeo piuttosto che di Mosè; che l’esodo sia da Dio o con Dio: decisivo rimane l’aver letto quella narrazione come capace di dire il proprio tempo, di aprire varchi ad un futuro trasfigurato. E di averla letta in quel modo, che potremmo in un certo senso definire “epico”: a fuoco vengono messe le grandi gesta, l’osare (“aude”!), il prendere in mano il proprio destino, rifiutandosi di sopportare una condizione vissuta come ingiusta e operando per la sua modificazione. Appunto, quanto la narrazione biblica sembra dire all’inizio e alla fine.
 

I limiti della lettura moderna / la vicenda degli Efraimiti

Qual’è il limite di questa lettura della vicenda esodica?
Vorrei provare ad esprimerlo facendo riferimento ad un momento marginale del racconto biblico dell’esodo. Nel libro omonimo neppure se ne parla. Ma il lettore non frettoloso, sfogliando le Scritture, impara presto che l’evento esodico va oltre le pagine del secondo libro della Torà per abbracciare l’intero canone biblico.
Il primo libro delle Cronache — posto a conclusione del canone ebraico, quasi come rivisitazione di una storia, la cui memoria dev’essere rielaborata incessantemente — si apre con ben nove capitoli che ricapitolano le diverse genealogie, dagli inizi della creazione fino all’instaurarsi della monarchia in Israele, da Adamo a Saul.
Il dettaglio su cui vorrei attirare l’attenzione si trova al capitolo 7, laddove si nominano i discendenti di Efraim: “discendenti di Efraim: Sutelach, Bered, Tacat, Eleada, Tacat, Zabad e Sutelach. Tra i figli di Efraim vi erano anche Ezer e Elead, ma furono uccisi dagli abitanti di Gat, quando, una volta, tentarono di rubare il loro bestiame” (1Cr 7,21). Anche il salmo 78,9 fa cenno a quell’episodio. Ma è soprattutto la tradizione interpretativa di Israele a dare rilievo all’accaduto, situandolo durante il soggiorno dei figli di Israele in terra d’Egitto:

Per varie ragioni l’Eterno non permise che i figli di Israele raggiungessero direttamente la terra promessa. Innanzitutto, Egli volle che essi si dirigessero al monte Sinai, dove avrebbero ricevuto la Legge; in secondo luogo, non era ancora giunto al termine il tempo da Lui stabilito per il dominio dei gentili su questa terra. Il lungo soggiorno nel deserto, però, era destinato soprattutto a giovare spiritualmente e materialmente ai figli di Israele… Ma il popolo d’Israele rimase tanto a lungo nel deserto anche per altri motivi. Abramo aveva giurato solennemente che avrebbe vissuto in pace con i filistei per un determinato periodo, e quel periodo non era ancora giunto al termine… Avevano trascorso 180 anni in Egitto in pace e prosperità, senza patire alcun sopruso da parte di quella popolazione, quando d’un tratto Ganon, un discendente di Giuseppe, della tribù di Efraim, si era presentato dicendo: ‘l’Eterno mi è apparso e mi ha ordinato di condurvi fuori dall’Egitto’. Gli unici a seguirlo furono gli efraimiti.
Fieri del loro nobile lignaggio in quanto discendenti diretti di Giuseppe [viceré d’Egitto e padre di Efraim], nonché abili e impavidi guerrieri, essi partirono dall’Egitto alla volta della Palestina portando con sé soltanto armi, oro e argento ma nessuna provvista, certi che avrebbero potuto comprare cibo e bevande lungo la strada o, nel caso non si potesse venire a patti con i proprietari, strappare loro il necessario di prepotenza. Dopo una giornata di marcia si ritrovarono nelle vicinanze di Gat, nel punto in cui i pastori al soldo dei cittadini si radunavano con le greggi. Chiesero di comprare qualche pecora da macellare per sfamarsi, ma i pastori si rifiutarono di avere a che fare con loro dicendo: ‘sono forse nostre queste pecore? È nostro il bestiame, da potervelo dare in cambio di denaro?’.
Constatato che con le buone non avrebbero ottenuto nulla, i discendenti di Giuseppe decisero di usare la forza, ma le urla dei pastori attirarono in loro soccorso la gente di Gat: tra gli israeliti e i filistei scoppiò uno scontro violento che durò per tutta la giornata. Alla fine questi ultimi capirono che da soli non sarebbero riusciti a respingere gli efraimiti, perciò chiamarono a raccolta le popolazioni delle città filistee della regione e l’indomani un esercito di quarantamila soldati si apprestò ad affrontare i figli d’Israele, i quali, esausti da tre giorni di digiuno, vennero annientati. Solo in dieci, sopravvissuti a stento a quella strage, tornarono in Egitto per dare a Efraim la notizia che la sua progenie era stata sterminata, ed egli la pianse per molti giorni.
Questo tentativo, per altro fallito, di lasciare l’Egitto fornì un primo pretesto agli egiziani per opprimere i figli d’Israele: da quel momento in poi essi li trattennero con la forza nella loro terra. D’altro canto gli efraimiti si meritarono quel castigo per non aver prestato ascolto al loro avo Giuseppe, il quale sul letto di morte aveva fatto giurare i suoi discendenti che non avrebbero lasciato quel paese finché non fosse arrivato il vero redentore. Alla morte seguì per gli efraimiti anche lo scempio dei cadaveri, rimasti anni ed anni insepolti sul campo di battaglia nei pressi di Gat.
Se Dio guidò i figli di Israele sulla via più lunga fra l’Egitto e Canaan fu proprio per risparmiare loro quello spettacolo infame, che li avrebbe scoraggiati al punto da indurli a tornare nella terra di schiavitù pur di non subire la sorte degli sventurati fratelli
(L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei. IV, Adelphi, Milano 2003 (1911), 136-139).

Nella densa narrazione esodica, vero e proprio prisma dalle molte sfaccettature, Israele inserisce al termine del proprio canone scritturistico questo episodio minore che contribuisce ad una più perspicua intelligenza di quel paradigma. Il lettore non sprovveduto non si meraviglierà del fatto che il racconto biblico più volte faccia ricorso alla tecnica retorica della reticenza, mettendo in scena solo in un secondo momento persone ed eventi accaduti tempo prima: un modo per obbligare chi legge a ripensare l’intero racconto alla luce di un elemento rivelato alla fine.
Qui si parla di un primo tentativo di fuoriuscita dall’Egitto, conclusosi con un fallimento. I protagonisti dell’impresa confidano nella loro abilità e coraggio e decidono di affrettare i tempi. Una volta presa coscienza della propria condizione di esiliati, bisogna muovere con decisione i propri passi nella direzione della vera patria. E bisogna farlo subito, in fretta. Quanto agli ostacoli che si incontrano nel cammino, devono essere eliminati anche facendo ricorso alle maniere forti. Fin dalla notte dei tempi gli esseri umani hanno ritenuto che la nobiltà del fine dovesse giustificare l’utilizzo di qualsiasi mezzo.
La storia che abbiamo alle spalle, quella laica del Progresso e quella credente della Liberazione, nonostante facesse riferimento all’esperienza di Mosé, assomiglia più all’esodo degli efraimiti. Soprattutto quel ritenere a portata di mano la meta della liberazione, quell’urgenza e necessità dell’agire, sull’onda emotiva dell’improrogabilità del cambiamento.
L’urgenza del compito ha fatto sì che molti partissero senza scorte, quasi bastasse la spinta propulsiva iniziale, quasi fosse eliminato il bisogno quotidiano di nutrimento.
Molti militanti, credenti o no, impegnati sul fronte di una trasformazione sociale urgente, sono caduti sul campo di battaglia, misurando sulla propria pelle la forza, sottovalutata, del nemico. E chi è scampato, si è ritrovato di nuovo in Egitto, costretto a subire una condizione peggiore della precedente.
L’episodio marginale degli efraimiti è giocato nella narrazione biblica non come una messa in scacco del bisogno di liberazione. Se così fosse, Israele si troverebbe ancora in Egitto, in adorazione degli dei del faraone. La funzione che questo episodio sembra avere all’interno del complessivo paradigma esodico è, piuttosto, quella di porre la questione della maturazione dei tempi, di quando si è all’altezza dell’impresa. “Non era ancora giunto il tempo”, afferma la tradizione ebraica, con un linguaggio che non è più il nostro, anzi che ci fa problema, in quanto sembra veicolare un determinismo storico che spezza le gambe alla libera iniziativa dei soggetti umani. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che il semplice volontarismo è votato al fallimento. Che occorre interrogarsi sulle condizioni di possibilità di un’impresa, a maggior ragione se in essa ci giochiamo la salvezza.
 

L’interpretazione post-moderna

L’umanità contemporanea ha visto che fine hanno fatto gli efraimiti della generazione precedente. Disillusa rispetto alle promesse della stagione moderna, ritiene di dover voltare pagina. Quando i sogni diventano incubi, sembra inevitabile lasciar da parte ogni ipotesi velleitaria di nuovi mondi (Regni di Dio o dell’uomo). Meglio accontentarsi delle cipolle d’Egitto.
L’implosione del blocco sovietico, simbolizzata dal crollo del muro di Berlino, è stata letta come il chiudersi di un ciclo storico (1789-1989) e l’inizio di una nuova stagione, non più all’insegna delle ideologie, di quelle grandi narrazioni che avevano la pretesa di offrire significati di portata sia storica che individuale.
Spezzata la trama che provava a tenere insieme i differenti fili, questi ultimi, una volta abbandonata la strada dell’intreccio, hanno preferito l’opzione di raggomitolarsi, ognuno per sé.
Unico linguaggio comune, quello del mercato e della tecnica. Comprensibile da chiunque, in ogni angolo del mondo globalizzato. Un linguaggio che non parla più di mete da raggiungere e di progetti da attuare. Il tempo del consumo, come quello dell’innovazione tecnica, è l’immediatezza dell’attimo. Slegato dal peso della memoria e dai compiti di un futuro da anticipare.
Il soggetto maggiorenne, protagonista sulla scena della modernità, lascia il posto al consumatore e spettatore, le cui ambizioni sono dell’ordine dell’avere più che dell’essere.
La fede, che avrebbe potuto venir meno insieme alle altre grandi narrazioni ideologiche e utopiche, si è fatta forte del fallimento del progetto moderno, “umano, troppo umano” e, ad un’umanità disorientata, si è proposta come unico riferimento ancora stabile, l’ultimo faro, gestito da quelle particolari agenzie etiche che sono le chiese.
Uscito di scena Prometeo, ritorna protagonista il Dio.
E quei credenti che pensavano di conciliare fede e modernità, che hanno dato credito ad una progettualità troppo terrena, vengono ora tacciati di ingenuità, se non di malafede e doppiogiochismo. Il vero credente, leale con l’istituzione ecclesiale, si ritrova impegnato a conservare la purezza del lievito, senza l’onere di doverlo mischiare alla pasta del mondo: un compito troppo rischioso, che solo i fornai autorizzati possono assolvere. Suo luogo proprio sarà il tempio più che la strada; un’interiorità affamata di emozioni più che un’esteriorità che domanda assunzione di responsabilità…
Se questa è la temperie culturale del presente, sembra difficile il ricorso alla narrazione esodica al fine di esprimere la condizione attuale sia dell’umanità che del credente.
Eppure, anche il nostro tempo sembra mettere in campo una particolare lettura di quel racconto. Un tipo di lettura non più epico, preoccupato cioè di valorizzare progetti e gesta umane.
L’esodo, nella postmodernità, diviene racconto religioso, che celebra le grandi opere di un Dio a cui sono affidate per intero le sorti dell’umanità. Un Dio potente e sacrale, preoccupato che il suo popolo non possa celebrarlo nel giusto modo. Un Dio taumaturgo, che usa la sua potenza per schiacciare il nemico con le piaghe e per sostenere i suoi con portentosi miracoli. Oltre che per l’enfasi sul protagonismo divino, la lettura attualmente offerta si caratterizza per la ripresa del metodo allegorico. Il testo parla, certo, di lavori opprimenti, svolti in condizione di schiavitù; ma, in realtà, vuole dire altro: parla dell’oppressione del peccato. La storia è solo uno scenario fittizio, uno sfondo teatrale; la scena si svolge nell’intimità dell’anima.
Sembrerebbe che qui la lettura credente si svincoli del tutto da quella laica. Che l’esodo torni ad essere narrato nel dialetto ecclesial-spirituale e non più nella lingua ufficiale del grande codice dell’occidente, dove sacro e profano attingevano allo stesso patrimonio linguistico. In realtà, non è difficile cogliere la funzionalità di questa interpretazione esodica all’unica ideologia sopravvissuta, quella del mercato.
Sdoganato il faraone e la sua terribile economia, i credenti non sono più impegnati sul fronte dell’ingiustizia ma unicamente nelle questioni sacrali, avendo come alleato lo stesso potere, in qualità di sponsor. La tentazione a cui si è ceduto all’alba della cristianità, quando da perseguitati i cristiani sono diventati persecutori grazie all’alleanza stretta con Costantino, riemerge, di nuovo, sotto altre vesti. E non solo la lettura proposta risulta funzionale all’idea di mondo oggi vincente. L’esodo intimistico-emotivo ben si presta ad una sua traduzione laica, dove la felicità è fatta di attimi e non più frutto di una storia; e i desideri sono continuamente alla ricerca di effetti speciali, di eventi dal carattere eccezionale, miracolistico.
 

I limiti della lettura attuale / l’episodio degli esploratori

Qual’è il limite di questa lettura dell’esodo? Un altro episodio minore, seppure più noto della vicenda degli efraimiti, può aiutarci a leggere il nostro tempo alla luce del simbolo esodico. Mi riferisco alla vicenda degli esploratori, di cui parla il libro dei Numeri ai capitoli 13 e 14. Siamo all’interno dell’esodo di Mosè, sotto la guida del Dio liberatore. Il quale desidera donare al suo popolo una terra buona, un giardino rigoglioso, come aveva fatto in principio, in Eden.
Dio domanda che la terra che sta per donare venga attentamente esaminata. Vi è un clima totalmente diverso rispetto alla scena degli efraimiti. Non solo perché qui l’iniziativa è di Dio. Anche perché non siamo più in presenza di tentativi avanguardistici: nell’impresa sono coinvolte tutte le tribù d’Israele, rappresentate dai loro capi. Inoltre, il desiderio di installarsi nella terra promessa non spegne quello spirito critico che spinge a valutare attentamente. Ad esso incoraggiano sia Dio che Mosè. Nessuna fede cieca; nessun sacrificio dell’intelletto. Il dono non esime dalla ricerca come anche, successivamente, dalla fatica della conquista.
Gli esploratori constatano la bontà della terra, ma il loro sguardo è polarizzato dagli impedimenti giudicati giganteschi. La terra è solo in apparenza buona e appetibile. In realtà è una terra di morte. A giudizio della maggioranza degli esploratori costituisce una trappola. Meglio tornare sui propri passi e optare per l’Egitto. L’episodio degli esploratori innesca nel racconto esodico un vero e proprio controesodo. E rivela il peccato originale di quella generazione: “l’esilio vero di Israele in Egitto fu che gli ebrei avevano imparato a sopportarlo”.
Il nostro presente appare come il tempo degli esploratori. Alla ricerca di una condizione felice, in cui la vita appaia ricca e gustosa e, contemporaneamente, incapaci di crederla possibile. Di più: sospettosi che ogni prospettiva promettente, altra rispetto all’esistente, sia per forza di cose ingannevole, portatrice di frutti avvelenati. All’epica della liberazione, che enfatizzava le magnifiche sorti e progressive, abbiamo sostituito la controepica della rassegnazione, che ingigantisce l’ostacolo, ritenendo inutile l’impresa.
Viviamo non certo all’insegna della speranza, quanto piuttosto della paura. Temiamo il futuro, non più visto nell’ottica del progresso ma in quella della minaccia. Diffidiamo degli altri, da cui è bene guardarsi in quanto portatori di gigantesche difficoltà. Viviamo animati da passioni tristi, instauriamo intimità fredde, incapaci di tessere legami, di giocarci fino in fondo.
Se l’errore degli efraimiti consiste nell’interpretare l’esodo nell’ottica dell’urgenza, della fretta rivoluzionaria; quello degli esploratori sta nel “disprezzare la terra”, nello spegnere ogni passione ed entusiasmo (o almeno nel ridurlo entro i confini dell’anima) in nome di un realismo che costringe a ritornare in Egitto.
Se la generazione precedente ha peccato di ingenuità nel pensare all’esodo, la nostra manca di fede. Che, in una prospettiva credente, è come dire che viene meno la cosa stessa, si spegne la luce di cui pur ci si dice portatori. “Gente di poca fede”, direbbe Gesù, nonostante la plateale esibizione di gesti religiosi e la pressoché unanime accoglienza del magistero ecclesiale.
L’episodio biblico degli esploratori termina con una tardiva presa di coscienza da parte del popolo della collera di Dio per quanto successo. E con il goffo e fallimentare tentativo di recuperare entrando di propria iniziativa nella terra appena prima biasimata. La terra dove scorre latte e miele risulta inaccessibile non solo per la paura degli esploratori, ma anche per l’entusiasmo e la sicumera dei fanatici.
Dunque, la conclusione della vicenda allinea la generazione degli esploratori a quella degli efraimiti. Entrambi, pur per motivi opposti, disconoscono il cuore della narrazione esodica, ciò che costituisce la condizione di possibilità di una reale fuoriuscita dalla casa di schiavitù.
 

Al centro dell’esodo / la tappa del Sinai

È su questo centro dell’esperienza esodica che vale la pena fermare l’attenzione. Già l’immagine del centro dice che non è adeguata la lettura dell’esodo schiacciata su due momenti: quello iniziale, la condizione di schiavitù in terra d’Egitto; e quello conclusivo, la meta della terra promessa. Le diverse letture dell’esodo si sono perlopiù interessate ai due estremi e al loro significato simbolico. Ma tra l’uscire dalla situazione di oppressione e l’entrare in una condizione di vita piena, il racconto biblico sviluppa un momento decisivo, a cui peraltro dedica la maggior parte della narrazione. Occorre fare i conti con la tappa del Sinai.
Già nell’affrontare le vicende degli efraimiti e degli esploratori è apparsa con chiarezza l’insistenza del racconto biblico sulla conformità al volere di Dio che regola il fare ed il non fare, quale autentica molla del racconto.
Ma è nella tappa sinaitica dell’esodo che il lettore trova il vero punto di irradiazione dell’intera vicenda. È qui che si stringe l’alleanza con un nuovo e diverso signore, che si presenta con le credenziali del Dio che si prende cura dell’oppresso, che lo strappa dalla gola del leone e lo guida lungo i sentieri della libertà. È qui che il popolo ascolta una parola diversa da quella pronunciata da faraone. E sulla base di quella parola decide di servire questo strano signore, passando dalla schiavitù al servizio.
Il testo biblico si sofferma a lungo su questo momento centrale. Il racconto dell’esodo smette i ritmi incalzanti dell’epopea, rallentando il tempo della narrazione in modo tale che anche chi legge sia costretto a rallentare, a leggere più in profondità.
Non solo. Il testo biblico, da una parte, è preoccupato di dire in poche parole essenziali (dieci!) la posta in gioco del patto di alleanza; dall’altra, sviluppa, amplifica, entra nel dettaglio, veicolando una fede che diventa un fare concreto, un complessivo stile di vita.
Inoltre, a dispetto della solennità e dell’immutabilità di una Parola normativa, nei confronti della quale non può essere aggiunto né tolto nulla (Dt 4,2; 13,1), il dispositivo del patto viene illustrato più di una volta e con diversi accenti e nuove aggiunte.
Il paradigma dell’esodo comprende anche questa complessa e multiforme legislazione divina, nonostante che, al di fuori della tradizione ebraica, essa venga pressoché da tutti misconosciuta.
Qual’è la funzione di questo corpo legislativo, troppo in fretta espunto dal paradigma esodico, quasi un relitto inservibile ad un’umanità che nel frattempo si è dotata per quell’aspetto di più moderni mezzi?
Un adagio della tradizione di Israele dice in sintesi il senso delle Parole del patto: “non era sufficiente che Israele fuoriuscisse dall’Egitto; occorreva pure che l’Egitto fosse fatto uscire dal cuore di Israele”.
Che significa? Una verità tanto elementare quanto disattesa. La storia umana è piena di esempi di popolazioni o singoli soggetti che, dopo lungo penare, sono riusciti ad emanciparsi, sciogliendo le catene della precedente condizione negativa. Passati dall’altra parte, ovvero da quella che prima dovevano fronteggiare come causa del loro malessere, ne ricalcano il linguaggio e le gesta, infliggendo ad altri quanto loro stessi avevano subito. Per usare la terminologia del nostro racconto: gli schiavi degli egiziani, divenuti uomini liberi, ora possono comportarsi come i loro aguzzini nei confronti di chi è alle loro dipendenze, i nuovi schiavi degli Israeliti. Se l’unico linguaggio conosciuto e universalmente parlato è quello della forza, anche il debole, una volta reso forte, continuerà ad esprimersi nella stessa lingua, senza che la precedente esperienza lo possa indirizzare lungo sentieri differenti. Per fare un riferimento all’attualità, basterebbe pensare a come nazioni che per secoli si sono trovate nella condizione di dover emigrare, una volta raggiunta una certa soglia di benessere, affrontino il problema dell’immigrazione.
Non basta fuoriuscire da una condizione di negatività. Occorre apprendere un altro linguaggio, seguire una logica differente.
La resistenza frettolosa o la resa disperata interrompono il cammino di liberazione in quanto mancano entrambe di quella sapienza che sorge dall’ascolto di una Parola altra, alternativa a quella del faraone finora udita.
Decisivo risulta mettersi alla scuola di questa diversa Parola, che introduce nel mondo di Dio. Un mondo che non è fatto di soli altari, di luoghi sacri. E neppure è circoscrivibile entro i confini dell’anima, negli spazi emozionali. Come, del resto, per accedervi non basterà lavorare per un cambiamento strutturale, mediante azioni politiche. Un mondo è un mondo: niente più e niente meno! La sapienza che permette di abitarlo domanda una conversione dell’intera esistenza, in tutti i suoi aspetti.
Le scelte affrettate, i giudizi sommari, gli slogan e le mode del momento impediscono alla Parola di compiere il lento lavoro di trasformazione dei cuori. Ma senza quel lavoro, ogni riferimento a Dio risulta velleitario (come anche ogni ipotesi di trasformazione rivoluzionaria).
Al fascino moderno del cambiamento sociale ed a quello postmodemo della difesa del proprio privilegio, la narrazione biblica suggerisce in alternativa il fascino dell’ascolto di una Parola differente, capace di dire il nostro nome proprio, di salvaguardare la nostra singolarità minacciata e, insieme, di sollecitare cambiamenti ad ogni livello.
Ma questo avviene a caro prezzo: quello di decidersi per un ascolto prolungato, in tempi di accelerazione spasmodica; ed anche di iniziare da sé, per andare oltre, mentre tutti sembrano attestarsi sul lamento per la mancata trasformazione altrui.
Liberarsi dal faraone, rifiutarsi di essere suoi figli comporta, dunque, instaurare una relazione con un Dio che non parla come l’oppressore, che è portatore di una Parola alternativa, il cui ascolto è decisivo per rendere effettiva la liberazione.

Angelo Reginato


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