Da Pomigliano d’Arco al Meeting di Rimini
Sono un impiegato metalmeccanico del settore auto, più precisamente del cosiddetto indotto, che occupa come si sa molti più operai di quelli interni alla fabbriche vere e proprie, dove si trasformano le scocche in automobili. Le notizie sul nostro settore si susseguono ormai quotidianamente e sono quasi sempre negative: calo delle vendite, richiesta di incentivi per poter sopravvivere, qualche fiammata di ripresa che dura poco, poi di nuovo la dura realtà di un inarrestabile declino.
Non è il caso di prendere atto che il fiume si sta seccando? Non è il caso di prendere atto che le automobili sono ormai un prodotto supermaturo destinato ai paesi meno sviluppati del nostro, che presentano credenziali di costi produttivi molto più allettanti delle nostre? Ultima la Serbia, solo ieri la Polonia, per non parlare della Cina, dell’India e domani-chissà- dei paesi africani? Quello che sta accadendo all’auto non è altro che una ripetizione di quanto già accaduto per altri prodotti super maturi. C’è forse qualcuno che pensa di poter produrre ancora scarpe da ginnastica in Italia, quando il resto dei paesi meno sviluppati del nostro e con relazioni sindacali indietro di mezzo secolo sono in grado di produrle ad un decimo dei nostri costi? La risposta è no, a meno di non fare come la Tod’s, in grado di realizzare prodotti nella cui lavorazione è contenuta tanta di quella ricerca, qualità e innovazione da non avere concorrenti nel resto del mondo (infatti continua ad esportare e a crescere).
Se riuscissimo a produrre un’auto elettrica a emissioni zero e con consumi bassissimi, con tanta di quella ricerca e innovazione da far impallidire le utilitarie sul mercato forse ci sarebbe un futuro per noi. Ma certo non ci sarà se pensiamo di fare concorrenza ai costi del lavoro della Serbia oggi o del Montenegro domani. Noi che ci lavoriamo nell’auto abbiamo il dovere e il diritto di guardare al futuro e non di ritornare alle condizioni del passato per sopravvivere.
ALESSANDRO CECCHI
(lettera a La Repubblica 4 agosto 2010)