Violenza domestica
Tamar era da poco uscita dall’infanzia. Passava le giornate tra le mura domestiche, in una grande casa che la faceva sentire protetta dai pericoli esterni. La sua famiglia non le aveva fatto mancare nulla e lei si preparava a crescere, cullata dai suoi sogni di ragazza e distratta dalle piccole responsabilità che via via andava assumendo.
Tamar non pensava che il pericolo maggiore per la sua esistenza non risiedeva fuori dalla sua abitazione, ma all’interno delle mura domestiche. Il suo fratellastro, molto più grande di lei, iniziò a gettarle occhiate invasive. Un disagio la coglieva in sua presenza, disagio che tuttavia non sapeva nominare. Davanti a lui si sentiva imbarazzata. La casa, dove la famiglia risiedeva, era tuttavia abbastanza ampia per evitare di incontrarlo troppo di sovente e lui era spesso fuori. Poi suo fratello si ammalò. Non era chiaro quale fosse la fonte della sua malattia. Rimaneva a letto rifiutando il cibo per lunghi giorni. In una di quelle occasioni il padre le ordinò di prendersi cura di lui.
Lo stupro avvenne nella camera da letto, mentre la ragazzina gli porgeva il cibo. Lui l’afferrò, le mise una mano sulla bocca, la tenne ben ferma sotto di lui, sul letto, mentre abusò di lei. Pochi minuti che a lei sembrarono mille anni. Poi, subito dopo lo stupro, lui la scacciò pieno di odio, disgusto, disprezzo… Lei si ritrovò fuori dalla stanza, nel lungo corridoio della casa, insanguinata e sola. Fu un gesto istintivo quello che la portò a strapparsi i vestiti, mentre correva urlando. Accorse qualcuno della casa e le ordinò di tacere, di non dare scandalo. Non bisognava rovinare il buon nome della famiglia. Un grido soffocato, una storia che sarebbe rimasta sommersa, imprigionata nell’invisibilità delle mura domestiche se non avesse trovato ospitalità nella Bibbia.
La Bibbia, un libro ospitale
La storia di Tamar, la figlia del re Davide, è giunta fino a noi perché, nonostante il tentativo del clan di soffocare lo scandalo, di censurare l’accaduto, qualcuno, a nome di Dio, si è fatto carico di rompere il silenzio e di narrare (II Samuele 13).
In nessuna cronaca di corte una storia del genere avrebbe trovato ospitalità; ma nella Bibbia sì, perché la Scrittura è un libro particolare che racconta soprattutto la storia dei sommersi, di quelli che non hanno voce, dei perdenti della storia.
E’ forse anche per questo che nelle Scritture vengono narrate tante storie di donne. Storie di abusi nascosti, storie di dolore e violenza contro le donne: Agar, Tamar, Dina, la concubina del levita, la figlia di Jefte… La storia biblica, da questo punto di vista, potrebbe sembrare una galleria degli orrori familiari sulle donne. Eppure la forza sovversiva di questi racconti risiede proprio nel fatto che sono stati ricordati, non sono stati censurati. Chi entra nel mondo delle Scritture ascolta le storie di un Dio che si fa garante della memoria di coloro che sono ridotti al silenzio. Così come all’inizio Dio ha udito il grido del sangue di Abele, sparso sulla nuda terra, il grido soffocato della violenza sulle donne all’interno delle mura domestiche ha trovato nella Bibbia ascolto ed è diventato voce di denuncia.
Rompere il silenzio
Ci stupiamo che nella Scrittura venga narrata tanta violenza; dovremmo invece stupirci se tale violenza venisse censurata. Poiché la Bibbia non si limita a raccontare storie di abusi e violenze ma, nel narrarli, li strappa all’oblio e li restituisce alla memoria collettiva come testimonianza scomoda. Ogni generazione è chiamata così a fare i conti con un rimosso che spesso, troppo spesso, riguarda proprio le donne.
E’ già un atto di guarigione per le donne poter vedere le proprie storie di abusi accolte e ricordate dalla voce narrante della Bibbia. Tamar, lasciata dalla sua famiglia sola con il suo carnefice, scopre così di non essere totalmente in balia di sé stessa perché il suo Dio si fa carico del suo grido e chiede ragione di esso a tutti noi. Una denuncia pubblica, che rompe il silenzio omertoso e denuncia i responsabili, anche se questi sono gli eletti, come nel caso del re Davide.
Credo che stia proprio qui la forza della narrazione biblica che ha spinto le donne a riconoscerla come propria.
Le donne, nella fede, hanno scoperto un Dio che non solo non censura la loro voce, ma la preserva e la custodisce narrandola alle generazioni future.
Chi legge la Bibbia è invitato ad entrare nei luoghi chiusi, segreti, non tanto per voyeurismo, piuttosto per verificare il grado di giustizia nel’intimo delle case.
Dio conta le lacrime delle donne
Il Dio biblico entra negli spazi privati, invisibili, dove le donne, in una società patriarcale, venivano rinchiuse per essere protette dalla violenza esterna.
Chi si mette in ascolto di questa narrazione è sollecitato ad entrare nel vissuto privato e ad ascoltare storie normali, dove si annida la violenza, quella contro le donne, quella che normalmente rimane impunita perché invisibile, segreta.
Questa modalità di agire la comprendiamo meglio se pensiamo a qualche programma televisivo di denuncia, come Report o Linea diretta oppure ad un film capace di mettere a tema argomenti rimossi dalla memoria collettiva.
Qualche anno fa un regista turco, Tevfik Basar, esordiva in Europa con un film intitolato 40 Mq di Germania. Qui veniva narrata la vicenda di un giovane operaio turco immigrato in Germania che, dopo aver fatto arrivare dal suo paese quella che sarebbe diventata sua moglie, la tiene segregata in un appartamento angusto di 40 Mq per proteggerla dalle possibili contaminazioni dell’occidente. Vedere quel film produce un effetto simile a quello di chi legge una delle pagine bibliche sulla violenza domestica. La voce narrante ci porta a conoscere una storia sommersa, invisibile. Ci sentiamo chiamati in causa da questa narrazione. Non è possibile rimanere indifferenti. Dopo aver saputo, non siamo più gli stessi.
Dio, attraverso la memoria biblica, agisce così: vede il dolore delle donne, conta le loro lacrime. Nessuna di queste viene dispersa, dimenticata. Di ognuna di queste la Scrittura ci chiede conto.
Lidia Maggi