Editoriale
E’ una fotocomposizione molto artigianale. Parlo della copertina. Non ha alcuna pretesa artistica: solo (solo?) il compito di presentare un messaggio che induca a pensare. Se quel Bambino è nato in una stalla, quale posto più degno di ospitare la sua immagine che la gru di Brescia o la torre di Milano dove per tanti giorni e notti immigrati hanno gridato il loro diritto a essere riconosciuti come persone umane? Chiedendo di essere ascoltati e un po’ di giustizia. Non c’è cattedrale che tenga, o salotto di buona famiglia, che possano offrire uno scenario più fedele e più vivo. Nei testi dei vangeli la sua nascita è accompagnata da queste annotazioni: “ non c’era posto nell’albergo”, “non l’hanno accolto”, “il bambino adagiato nella mangiatoia”…
Ma conviene dare la parola a chi ha pensato al Natale costruendo questo presepe doc:
“La questione decisiva, mi diceva una voce di dentro, era “dove” (collocare il presepe). Ho passato in rassegna ogni lembo della casa. Niente. Poi ho capito. Quest’anno il presepe lo potevo mettere solo sulla cima di una gru. Lì, mi sono detto, il Bambino trova il suo contesto più fedele all’originario. Su una gru e appeso a un gancio. Come i precari. Come gli immigrati senza permesso di soggiorno. Come quelli che hanno perso il posto di lavoro o come i giovani che, a quanto pare, non lo troveranno mai. Quest’anno, se davvero vogliamo omaggiare il Bambino, dobbiamo salire sulla gru e guai a chi soffre di vertigini”.
La presenza di quel bambino sulla gru, in compagnia di sei lavoratori meticci, segnala che qualcosa sta sbocciando, che è possibile far nascere qualcosa di nuovo, anche entro una storia vecchia e decrepita. Lo esprime bene Annamaria Rivera nel suo articolo che trovate all’interno:
“C’è una fotografia, fra le tante dei “sei della gru” diffuse in questi giorni tramite la rete, che li riprende in posa, insieme, lo sguardo rivolto verso l’obiettivo, l’espressione serena o sorridente, l’indice e il medio alzati in segno di vittoria o piuttosto di auspicio. Osservateli bene quei visi perché sono l’immagine della speranza. Non solo della propria: ottenere un permesso di soggiorno e il diritto di lavorare e vivere in pace e dignità. Ma anche di una nostra speranza: che sul terreno melmoso di questo paese corrotto e putrescente stia fiorendo una generazione meticcia di lavoratori che forse ci insegnerà di nuovo le parole che noi, analfabeti di ritorno, abbiamo dimenticato: parole semplici come pane e lavoro, dignità e rispetto, solidarietà e lotta per il diritto di vivere e di far vivere i propri cari. Sono le parole arcaiche e concrete del tempo travolto, o solo sommerso, dalla società dello spettacolo in versione italica: nella quale una ragazza marocchina può essere umiliata e vilipesa se sceglie d’indossare un foulard; maltrattata, internata, espulsa se perde, non per sua colpa, il permesso di soggiorno; protetta, coccolata e favorita nella “carriera” da potenti lenoni mediatici e di governo se, mascherata da “velina”, intraprende il mestiere più antico del mondo”.
Poi, tornando alla copertina, ci sono le parole che accompagnano l’immagine: “Una voce grida…”.
Ha un sapore biblico. Infatti, la nostra fonte primaria dell’interpretazione del grido la troviamo nella Bibbia. E’ a partire dal “libro” che Mario Signorelli, Angelo Reginato e Lidia Maggi ne parlano nei loro interventi. La voce del sangue di Abele grida al cielo (Gn 4,10); Il pianto di Ismaele, il bambino che sta morendo di sete nel deserto, è raccolto da Dio (Gn 21,17); è sempre Lui che ascolta il lamento e il grido degli Israeliti in Egitto , oppressi dal lavoro e dalla privazione di cittadinanza (Es 2, 23-24). Anche nel N.T. viene ripreso lo stesso tema “il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente” (Gc 5,4). Anche il grido delle donne, dentro quella società patriarcale, viene raccolto, non dimenticato, tramandato per sempre, riscuotendo così il riconoscimento della sua dignità.
Qui non si parla di preghiere, o d’invocazioni, indirizzate a Dio, ma del grido che erompe da condizioni antropologiche negative e che, come tali, trovano un ascolto attento e partecipato da parte del Dio biblico. Questi racconti non sono episodi chiusi in sé, ma contengono una valenza universale: il sangue versato con la violenza, il pianto di un bambino che muore di stenti, la schiavizzazione dell’essere umano, lo sfruttamento iniquo attraverso il lavoro, la donna violata e disprezzata…si potrebbe continuare nell’esemplificazione… portano in sé un’istanza oggettiva che trova una recezione diretta da parte di Dio e una sua mobilitazione in favore.
Il grido, espressione di un’umanità ferita, precede la preghiera, intenzionalmente rivolta dall’orante, anzi ne è il suo presupposto. Il libro dei Salmi, che troviamo nella Bibbia, è costituito da preghiere di vario genere, ma tutte si reggono sul presupposto di questa precedenza di un Dio che ascolta, e il prendere la parola da parte dell’uomo è atto successivo. Naturalmente una tale impostazione può far nascere interrogativi a non finire: sono pure presenti oltre che nei salmi in altre parti della Bibbia e si sono sviluppati dentro la dura storia umana. Per ora ci interessa ritornare al grido per ribadire il suo valore, al di là di ogni credo o di impianto ideologico, dell’appartenenza culturale o religiosa. E’ legato all’essere umano in quanto tale, di ogni epoca. E’ universale. In esso è espressa la parte più vera della nostra esistenza nella storia.
Non ogni grido porta una tale nobiltà. Da Armido Rizzi colgo un esempio molto semplice ed espressivo. Vi sono due bambini che piangono: il primo perché ha davvero fame, mentre il pianto dell’altro è motivato dai capricci. La qualità del grido che erompe è assolutamente diversa nei due. Ecco: quando noi pariamo di grido ci riferiamo a quello che si radica in una situazione esistenziale effettiva, connotata da carenze e/o oppressioni che feriscono o addirittura annientano la vita umana.
Nelle pagine seguenti troverete esemplificazioni concrete, rappresentative di un mondo ampio, nascosto e trascurato, spesso condannato al silenzio: il messaggio che ci è stato diretto dalle gru, situazioni di lavoro oppressivo e di quotidiano sfruttamento, giovani donne che esprimono la condizione femminile e domande sul futuro, il popolo delle carceri nella loro condizione dimenticata di sovraffollamento e d’impressionante frequenza di suicidi, voci dei familiari di morti sul lavoro, vittime di incidenti ridotti a effetti collaterali analoghi a quelli delle guerre, che attendono una giustizia che tarda ad arrivare, e forse non arriverà mai.
Il nostro incessante tentativo è di guardare la storia umana al rovescio rispetto ai canoni dominanti, nella convinzione che è la nostra fede biblica che ci induce a farlo, la stessa che ha guidato Bonhoeffer nel pieno della catastrofe nazista ad acquisire e praticare “lo sguardo dal basso”, lo stesso sguardo di Dio1.
“Una voce grida…” è la voce di ciascuno, quando l’umanità in qualche modo ferita lancia un appello. E’ un messaggio che chiede di essere ascoltato e accolto. L’esemplarità biblica è una direzione, un orientamento che giunge a noi per indurci a rispondere. E’ su questo terreno che si gioca la nostra umanità, e la possibilità di costruire un mondo più umano. “Un altro mondo è possibile”.
Roberto Fiorini
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1 Riportiamo un testo che ci ha lungamente accompagnato nella nostra storia di preti operai: “Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti. Degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti” (D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Paoline 1988, 74.)