“PRETIOPERAI QUALCHE ANNO DOPO”
Convegno nazionale 1989
Mi servo di un’immagine per descrivere i lavori di questo nostro convegno e per esprimere la speranza che questo nostro stare insieme racchiude. Dice un poeta spagnolo: sopra il vulcano il fiore.
Vulcano sono le nostre vite, esperienze, vissuti, le nostre parabole personali; diverse e articolate, convergenti e divergenti ma ugualmente ricche, stimolanti, provocanti per tutti. Nella misura in cui il vulcano che è in noi riesce a comunicare spunta il fiore: il fiore della vita condivisa con i nostri compagni.
… qualche anno dopo
Operaio dal 1970, prete nel 1984; è abbastanza superfluo giocare sulle parole preteoperaio, operaioprete anche se può esprimere un radicamento, una provenienza diversa: anche questo fa parte di quella ricchezza-diversità che caratterizza le nostre vite.
I punti di partenza che hanno segnato la mia vita sono due: la diffidenza verso un ruolo sacrale in cui l’essere prete equivaleva a offrire risposte confezionate invece di favorire l’insorgenza di domande sul senso della vita e su Dio; e l’esigenza della condivisione, del vivere come gli altri. Decisivo è stato il testo di Voillaume, Come loro.
Si è così venuta delineando l’ossatura di un’esistenza, una scelta di vita giocata sulla fedeltà all’unico Signore, all’evangelo, e alla classe operaia. Si è venuta maturando l’impostazione di una vita non vissuta come esperienza o come occasione per fare un bagaglio, utile per altro (l’evangelizzazione!), ma come piena di senso in se stessa.
I lunghi anni dell’attesa dell’ordinazione presbiterale sono stati preziosi anche nell’individuazione dello zoccolo duro del ministero: non si è preti perché si ha la presidenza / servizio di una parrocchia, e neppure perché si celebrano i sacramenti, ma per la centralità dell’evangelo. Un vangelo accolto in cui non domina la preoccupazione di dirlo o di organizzarlo ma di coglierlo come seme già presente nella vita e nella storia.
La condizione operaia, condizione umana ricca, contradditoria, pulsante vita è diventata la strada della condivisione dell’essere uomini, dello stare a questo mondo senza ruoli sacrali, non vivendo dell’evangelo ma nella gratuità e forse nell’inutilità, nella irrilevanza.
Perché questa ostinazione del lavorare? Come si giustifica il rifiuto di occupare i ruoli sindacali a tempo pieno e incarichi ecclesiali? Perché la scelta del lavoro manuale?
Non mi riesce di vivere se non così: uomo che lavora, che fatica, che ha conosciuto il licenziamento per attività sindacale, che ha visto fallire l’azienda, che ora conosce più intensa la povertà del lavorare in una fabbrica non tutelata.
Lavorare è diventato parte integrante della vita: l’uomo e la donna vivono lavorando, conoscendo ‘la fatica sotto il sole’.
E’ cambiato il linguaggio, il modo di sentire, di gustare le cose, di stare con la gente, di analizzare i fatti: il lavorare resta l’angolazione da cui ricomprendere la fede, riascoltare l’evangelo, stare nella compagnia di tutti.
Parabola ecclesiale
Presento qui la riflessione emersa nel gruppo dei PO di Conegliano (diocesi di Vittorio Veneto) così come essa è venuta crescendo in questi anni.
Per dirla con uno slogan: siamo passati dalla volontà di contare, incidere, delineare progetti ecclesiali alla scelta della compagnia con la gente; una scelta non rinunciataria rispetto al far sentire la nostra voce ma in ogni caso non preoccupati di generare altri.
In un recente incontro con il Vicario Generale abbiamo espresso la nostra attuale posizione dicendo che siamo consapevoli che non siamo funzionali a niente. La nostra presenza, la nostra vita non incrociano problemi funzionali e organizzativi della Diocesi, preoccupata in questo momento di darsi una ristrutturazione degli organici esistenti.
E un’organizzazione che se ne fa di gente non funzionale?
Una domanda che ci ha costretti a scavare nel senso della nostra appartenenza ecclesiale. La ricerca di un rapporto di chiarezza con la chiesa, con i credenti del nostro territorio, ci ha portato a porre il segno dell’autonomia: abbiamo scelto di non entrare nel sistema dell’istituto per il sostentamento del Clero e di non occupare spazi / ruoli istituzionali.
Alla proposta di gestire la Pastorale del lavoro abbiamo risposto che non ci rifiutiamo ad una collaborazione, come questi anni testimoniano, ma che nessuno di noi lascia il lavoro per occuparsi della Pastorale del lavoro.
Ci è sembrato importante aiutarci e continuare ad aiutarci a superare il bisogno di appartenenza e di riconoscimento ecclesiali.
In positivo il nostro contributo ecclesiale consiste nel trasmettere all’istituzione questioni nodali che vediamo e viviamo; c’è un cantus firmus: viviamo sulla nostra pelle concrete situazioni di vita e le offriamo all’istituzione, convinti che la vita vale per se stessa.
Questa autonomia non è sinonimo di battitori liberi e neppure intendiamo essere esistenze parallele all’istituzione; la percepiamo come condizione per l’identità della nostra ricerca, che sentiamo prioritaria rispetto ad ogni altra cosa. Questa libertà da incapsulamenti consente di pensare non quel che si vuole, ma un pensare per poter fare quello che si ritiene essenziale. Del resto abbiamo rifiutato la posizione di chi dentro la chiesa, a nostro riguardo, ipotizzava lo spazio “vivi e taci”.
Riteniamo che la nostra sia una ricerca di fede: una fede essenziale, povera, impoverita di fronzoli, cerimonie; una fede che sa anche accettare e farsi silenzio ma come condizioni per assumere la vita, per entrare di più nel mistero della vita.
Cosa resta del PO?
L’intuizione che fu cara a Bonhoeffer: “La nostra Chiesa, che in questi anni ha combattuto solo per la sua autoconservazione, come se fosse fine a se stessa, è incapace di essere portatrice della parola riconciliatrice e liberatrice per gli uomini e per il mondo. Perciò le parole di prima devono diventare senza forza e tacere e il nostro essere cristiani consisterà oggi soltanto in due cose: pregare e fare ciò che è giusto tra gli uomini”.
In fondo si tratta di riprendere per mano l’impostazione di San Benedetto: Ora et labora; di dare concretezza dentro il nostro oggi a quanto si dice nel salmo: ‘abita la terra e vivi con fede’.
Si tratta di ricercare dal nostro interno la nostra solidità, di bere al proprio pozzo, di continuare nella fedeltà al vissuto che ci accomuna a tanti uomini e donne e di offrirlo alla comunità dei credenti, se ci chiedono di rendere ragione. Potrebbe anche darsi il caso che nessuno chieda: perché tu vivi così? Anche questa assenza di interrogativi nulla toglie alla validità dell’esserci.
Sentiamo infatti che la nostra vita si scarnifica, si essenzializza e che possono nascere una robustezza e una autorevolezza nuove.
Non si tratta di dare vita a progetti compiuti, di preoccuparsi del futuro / continuità dei PO; ma di alimentare l’intuizione originaria: stare nella compagnia degli uomini per cogliere con loro l’originalità evangelica.
Strada di fecondità nella storia è recuperare il gusto dell’ascoltare la Parola e le situazioni della vita, il gusto del silenzio e dello scendere nella cantina, secondo un’espressione cara a Sirio.
Va ripresa la riflessione sul sacerdozio così come esso è presentato nella lettera agli Ebrei: Gesù fu sacerdote? E come?
Una ricerca che ha appassionato la prima comunità credente, rimasta scossa davanti alla sua vita non sacerdotale e davanti alla morte scandalosa.
Ritrovare e riproporre la risposta che Gesù fu sacerdote perché uomo autorevole e solidale può significare ricollocare al centro dell’essere credenti non problemi funzionali e organizzativi, ma dinamiche di scelte di vita e di educazione profonda all’essere uomini.
Infine ci sembra importante restare sulle domande di fondo, sul perché della vita e della morte, sul come stare a questo mondo… favorendo l’inquietudine della ricerca e così continuare a fare compagnia agli uomini del lavoro… ancora.