Il Vangelo nel tempo
«Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
Queste parole, indirizzate da Benedetto XVI alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi del 2009, mi riportano agli anni ruggenti dell’esperienza dei pretioperai. Alla constatazione di quanto fosse vero in larghi strati del mondo operaio il “non volere rimanere semplicemente senza Dio”, sentendo il loro ateismo più come il frutto di una condanna della Chiesa dal sapore chiaramente politico-ideologico che per volontà propria. Condanna legata a interessi di parte (di potere) e a priorità di valori della classe clericale e borghese tra cui il giudizio sul lavoro servile e cioé manuale interferiva in maniera negativa ed escludente con lo “spirituale”.
Riportare, da parte del Papa, la vita interna della Chiesa al ruolo di servizio perché gli uomini “trovino l’accesso al Suo mistero” e proporre “una sorta di cortile dei gentili” “dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo”, provoca in me la domanda alla Chiesa: “Perché?”.
Perché l’esperienza dei pretioperai è stata fatta fuori in modo così devastante dalle autorità ecclesiastiche? Perché ora che questa esperienza è praticamente morta (ma non sono ancora tutti morti coloro che l’hanno vissuta e ancora la memoria è viva) per la Chiesa, si riparte con una proposta che va nella stessa direzione senza un briciolo di autocritica, ma neppure di un ricordo almeno sfumato?
Eppure lo abbiamo dichiarato fin dagli anni ’50 quanto il dialogo istaurato dai pretioperai attraverso esperienze di vita dal percorso (vissuto, ma non cercato, spesso al singolare) di immersione nel mondo del lavoro operaio, contenesse in primo piano una ricerca di Dio da ambo le parti, senza posizioni preconcette.
Rimanemmo noi per primi sorpresi per il fatto che eravamo partiti (nell’avventura verso il mondo operaio) per evangelizzare e siamo stati (dal mondo operaio) evangelizzati.
“Vangelo” inteso come annunzio di un Dio che si fa conoscere uomo, attraverso un atto di amore intenso e impegnato fino alla morte per tutti gli uomini.
Ma la “ricerca di Dio” non è stata – almeno per quanto riguarda la stagione dei pretioperai – una priorità nella vita della Chiesa. Lo hanno confessato alcuni vescovi – ricordo anni fa un incontro a Bologna con una “delegazione” della Commissione CEI per la pastorale nel mondo del lavoro – che il distacco della Chiesa dall’esperienza dei pretioperai, non è avvenuto per divergenze di fede, ma di schieramento politico. Perché, allora, insieme all’acqua sporca (ammesso e non concesso) si è buttato via anche il “bambino” di un ascolto e di una ricerca pagata da tanta fatica, giorno dopo giorno, del “Dio Sconosciuto”?
Come non avvertire aria di rinchiuso nel “cortile” proposto da Ratzinger che, in un contesto vicino a quello dei pretioperai, ha perseguito – tanto per fare un esempio – per oltre vent’anni una vera e propria operazione chirurgica di asporto nei confronti della teologia della liberazione e dei suoi singoli esponenti?
Non è un caso che, anche a livello di base – nella mia diocesi per esempio – si traduce il “cortile dei gentili” papale nel più domestico “sagrato” e cioé lo spazio antistante l’edificio chiesa. Tradendo così che il “dialogo” è essenzialmente una concessione verso chi non sa o non osa entrare in chiesa, uscendo sull’uscio della stessa per rispondere alle domande con le proprie certezze.
Sembra avere un respiro ben più ampio l’iniziativa portata avanti da Ravasi e dal suo dicastero vaticano, il Pontificio consiglio della cultura, che ha dato il via a un’istituzione, denominata appunto «Cortile dei Gentili», per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei. L’evento inaugurale è in atto in questi giorni a Parigi in contemporanea in più sedi: la Sorbona, l’Unesco e l’Académie Française, secondo prospettive diverse.
L’iniziativa di Ravasi trova resistenze negli stessi ambienti vaticani che mal digeriscono un terreno di incontro che sembra loro partire “non da persone che umilmente si mettono alla ricerca di Dio, ma da persone che magari per una ragione strumentale (…) apprezzano il Papa o alcune dottrine della chiesa. (F. Colafemmina in Fides et Forma). In sintesi, la Chiesa Cattolica può anche promuovere con soldi e appariscenti parate qualche evento mediatico e culturale di dubbio gusto, ma se tali eventi non consistono nell’annuncio di Cristo alle genti, non servono a nulla. Anzi rischiano solo di procurare gravi danni alla Chiesa e di indurla a contraddire se stessa nel vano sforzo di sposare le logiche del mondo laicizzato e razionalista (ibidem).
Ravasi risponde a queste critiche spiegando che Paolo, “scrivendo ai cristiani di Efeso, dichiara che Cristo è venuto ad «abbattere il muro di separazione che divideva» Ebrei e Gentili, «per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo» (Efesini 2,14-16).
Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del «Cortile dei Gentili» è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell’armonia tra i due popoli. È con questa ulteriore precisazione paolina che ha senso l’applicazione metaforica del «Cortile» suggerita da Benedetto XVI. Quello che il progetto denominato «Cortile dei Gentili» vuole proporre è, invece, un duetto (dal latino duo) ove le voci possono appartenere anche agli antipodi sonori, come un basso e un soprano, eppure riescono a creare armonia, senza per questo rinunciare alla propria identità, cioè – fuor di metafora – senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico”.
Prende anche le distanze dalla “cattedra dei non credenti” dell’allora cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, “un confronto – definito da Ravasi – più cattedratico e teorico”. Mentre il “cortile dei gentili” sarà “un confronto più politico e operativo, un dialogo che lascia maggiore libertà di interazione, di confronto e di possibilità di trovarsi d’accordo su alcuni temi”.
Un indirizzo sicuramente interessante, da seguire con attenzione, che stimola la nostra ricerca continuata in questi anni attraverso la rivista “Pretioperai” e i nostri convegni in crescendo a Bergamo. Quel nostro insistere sulle tematiche dell’idolatria anche all’interno della Chiesa è un piccolo, ma chiaro rivolo che porta acqua al bisogno rilevato anche da Ravasi quando afferma che “una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base. Da un lato, i «Gentili» devono ritrovare quella nobiltà ideale così com’era espressa dai grandi sistemi “ateistici”… D’altro lato, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’essere e dell’esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo”.
Ma nell’esperienza dei pretioperai richiamata all’inizio, c’è un passaggio che va oltre la pur necessaria continua “conversione”. In quel riconoscere di “essere stati evangelizzati” dal mondo operaio c’è l’approdo ad una sostanziale laicità nella fede accogliendo in toto la comune condizione umana e il suo camminare sulle acque instabili della storia. La “parola” di Gesù che dà fiducia è rivolta a tutti gli uomini e le donne di questo mondo. I credenti, vivendo la vita di tutti, sono chiamati ad entrare in risonanza con le vibrazioni positive di coloro che – qualunque sia la loro motivazione -, non affondano sotto il peso della fatica di rendere umana la vita.
Ancora di più, quindi, ci sembra di potere e dover dire a questo proposito nel lento e faticoso esodo che ci accompagna ormai da tutta una vita e che è divenuto il filo rosso dei nostri incontri. Lo diciamo raccogliendo le parole di Massimo Cacciari nel “prologo” a Bologna dei primi incontri francesi del “Cortile dei gentili”, che ha parlato di ateismo nella cristianità. Secondo l’ex sindaco di Venezia, l’ateismo è consustanziale al monoteismo, e non può essere concepibile al di fuori delle civiltà monoteiste. «La nientità divina, il suo non-essere un ente, è immanente al monoteismo puro, quello che sostiene che Dio non è determinabile e che conduce a una forma popriamente intesa di ateismo». Ha poi continuato dicendo che «non c’è nulla di più morto di una contrapposizione tra fede e ragione. Anzi l’ateismo positivo è benefico per le posizioni dei credenti», perché li spinge a rafforzare la loro fede. Ma, si è chiesto il filosofo, tale ateismo «abita ancora la nostra cultura?».
Dal dialogo, aveva premesso Ravasi nello stesso incontro di Bologna, «abbiamo pensato di escludere alcuni: sostanzialmente i troppo poco atei. Dovremo tuttavia entrare anche lì. In quello che è l’orizzonte della superficialità, dell’amoralità, dell’indifferenza, dell’ovvietà, del luogo comune, dello stereotipo, del secolarismo banale e della religione devozionale incolore e insapore. È il luogo dell’ateismo dello sberleffo se si vuole. Questo ambito è un ambito che si estende, come una sorta di sudario dobbiamo dire, non soltanto sulla cultura, pensavo sulla politica, dove per molti versi è diventato ormai il vessillo».
Questo orizzonte lo terremo presente sullo sfondo del nostro prossimo convegno a Bergamo all’inizio di giugno.
Luigi Sonnenfeld