In preparazione al convegno di Bergamo 2012
“SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA”
Riportiamo la prima parte di un saggio di ecclesiologia di K. Rahner, pubblicato per la prima volta nel 1947 e tradotto in Nuovi Saggi, Edizioni Paoline1967. È una lettura impegnativa, ma molto appropriata in preparazione al nostro Convegno su “Servizio e potere nella Chiesa”. Dopo 65 anni, conserva intatta la freschezza e la penetrazione teologica su un argomento che mantiene intatta la sua attualità e che oggi, come allora, viene trattato “in modo molto sbrigativo”.
Nella dogmatica cattolica, il tema «Chiesa dei peccatori» viene per lo più trattato di sfuggita, in modo assai sbrigativo. In realtà, bisogna riconoscere che ci sono cose molto più importanti e sublimi di questa, da dire sulla Chiesa.
Il fatto che la Chiesa sia una Chiesa di peccatori, non sta molto in primo piano nell’interesse teologico; ciò si deve forse alla sensazione che sia un dato di esperienza quotidiana sin troppo noto.
Tuttavia, questo assunto è effettivamente di grande importanza nella ecclesiologia; non soltanto perché qui si tratta d’uno tra i più spinosi problemi della teologia ecclesiastica nell’ambito della storia dei dogmi, ma anche perché la nostra questione ha una vastissima portata in rapporto alla vita di fede del singolo individuo; e infine ancora perché il nostro assunto non viene qui esaminato come un dato d’esperienza quotidiana e superficiale, bensì come un fatto dogmatico, ossia come un problema che va risolto richiamandosi alla rivelazione di Dio e non alla saccente, problematica, stravolta e peccaminosa esperienza dell’uomo.
Dicevamo che si tratta del problema forse più tormentoso esistente nell’intera storia della dottrina ecclesiale.
La cristianità ha sempre professato: credo la santa Chiesa. Eppure, nel corso della storia, ha continuato a rispuntare l’interrogativo dove sia in fin dei conti questa Chiesa che dichiara con tanta sicurezza di essere una Chiesa santa, di costituire quindi la Chiesa su cui riposa un raggio della stessa santità di Dio.
E’ proprio facendo appello a questo articolo della professione di fede, che la Chiesa concreta è stata rifiutata come peccatrice; è proprio per la stessa ragione si continuarono a fondare chiesuole nuove, spacciandole per la vera e la santa Chiesa, per l’autentica Chiesa di Dio e del suo Cristo.
Già Tertulliano affermava che la grande Chiesa del suo tempo non era la vera Chiesa dello Spirito e dell’uomo spirituale, ma era invece una casa di prostituzione perché non bandiva una volta per sempre gli adulteri dalla comunità. La stessa cosa pensavano e insegnavano il Montanismo e il Novazianismo del terzo secolo, il Donatismo all’epoca di S. Agostino, il Messalianismo e altre simili correnti eretiche pullulanti in seno al monachesimo, movimenti come quelli dei Càtari, dello spiritualismo di Gioachino da Fiore, degli Spirituali tra i Francescani, dell’Ussitismo nel Medioevo. Tutti volevano instaurare una Chiesa «santa» al posto di quella non santa esistente al loro tempo. E persino i Riformatori del 16° secolo, che pure ribadivano con tanta insistenza la peccaminosità e la perdizione dell’uomo, sostennero buona parte della loro lotta contro la Chiesa cattolica a forza di accuse contro il Papato corrotto e contro la mancata santità della Chiesa in genere.
Anche nella vita del singolo individuo, l’esperienza della non santità della Chiesa sostiene quasi sempre una parte importantissima nel confronto interiore con la sua propria fede.
Quando da qualche parte si sollevano accuse contro il «clericalume», cosa si ribatte in più del solito argomento, che in pratica la loro vita risulta in contraddizione con quanto vanno predicando? Non si sente spesso dire che i fedeli cristiani non sono poi migliori degli altri, che anche la Chiesa ha abdicato alla sua missione?
Considerati dal punto di vista meramente umano, questi rimproveri e i dubbi sulla fede che ne derivano non hanno completamente torto.
Davanti ai nostri occhi sta la Chiesa, che si proclama santa e necessaria alla salvezza, che si presenta a nome dell’unico santissimo Dio, che si dichiara in possesso di tutta la verità e della grazia; la Chiesa che pretende essere la sola arca di salvezza nel diluvio del peccato e della perdizione, che si crede in dovere di convertire e salvare tutti quanti.
Eppure, proprio questa Chiesa, che si presenta con tali ambiziosi programmi, dà quasi l’impressione di usare due pesi e due misure: annunzia ai poveri uomini tribolati il Discorso della Montagna con le sue «impossibili» esigenze, mentre i suoi rappresentanti ufficiali sembrano per loro conto venire facilmente a un compromesso con tali esigenze. Non sembrano infatti vivere tutti facendo i loro comodi? Non sono assai spesso avari, o presuntuosi, o tronfi e pieni di boria? Nelle file dei loro ordini, il cui compito è pur sempre quello di tendere alla santità e alla perfezione, non continuano forse a scoppiare scandali su scandali? I cattivi Papi sono soltanto uno slogan pubblicitario, o non sono invece una realtà storica di palmare evidenza? Nel corso dei tempi, non sono forse state qua e là fatte oggetto di abuso e di peccato persino le cose più sante: specialmente il confessionale, i sacramenti in genere, le pretese del Papato a evidenti scopi politici, e via dicendo?
Il fatto che siamo tutti uomini — continua questa deplorazione o questa accusa — non è una sorpresa; e che anche gli uomini di Chiesa, anche i suoi rappresentanti ufficiali siano uomini e quindi peccatori, nulla di straordinario. Se si trattasse solo di questo, sarebbe naturalmente ingiusto frugare i cantucci della storia ecclesiastica per scoprirvi i peccati della Chiesa.
Ma sta di fatto che la Chiesa intende essere sostanzialmente qualcosa di più d’una semplice organizzazione umana, in cui inevitabilmente si procede in modo umano, molto umano. Essa pretende infatti essere la rappresentante del Dio santissimo nel mondo, la Chiesa santa per eccellenza; afferma anzi di essere già di per se stessa, «per la sua sublime santità e inesausta ubertosità in ogni bene», un grande e perenne argomento di credibilità e una incontrovertibile testimonianza della sua divina missione (Concilio Vaticano I, DS 3013).
Ora, è proprio qui che spunta la contraddizione: Se la Chiesa fosse più modesta — dice l’eterna obiezione degli increduli — si potrebbe esser miti con lei e perdonarle tutto quanto siamo pur capaci di perdonare a noi stessi. Ma siccome si proclama santa da ;é, deve per forza ammettere che si misurino la sua vita e la sua storia con un metro che esorbita dalla scala dei valori umani. E che ne risulta? La pretesa di santità da essa elevata non è forse una pura e semplice presunzione, che dimostra precisamente il contrario della sua smodata pretesa?
Come abbiamo già accennato, il nostro assunto è di grande importanza anche per un terzo motivo. Non si tratta tanto di sapere come noi cristiani, che crediamo alla santità della Chiesa, riusciamo poi a spiegare l’esperienza meramente umana della mancanza di santità da cui è afflitta la Chiesa. Qui si affaccia piuttosto una questione dogmatica: quella di sapere che cosa dica la rivelazione stessa in merito alla non santità della Chiesa. In altri termini: non vogliamo ascoltare la voce dell’umanità indignata (sappiamo infatti, forse meglio che per il passato, come una tale «opinione pubblica», pur se confortata da una discreta unanimità, resti però sempre una cosa molto problematica, in quanto ordinariamente ognuno fa quell’ esperienza che meglio corrisponde ai suoi desideri); vogliamo invece cogliere la testimonianza rilasciata dalla Chiesa stessa sulla propria peccaminosità.
Il fatto di esser la Chiesa dei peccatori, in effetti, rientra come componente essenziale nella coscienza credente della Chiesa stessa. Qualora infatti un individuo, indulgendo ad un troppo superficiale ottimismo, ritenesse la Chiesa esclusivamente «santa», la Chiesa non direbbe: «Grazie a Dio, finalmente c’è qualcuno che mi giudica in modo giusto», ma dovrebbe invece dirgli: «Tu sei un eretico, e la verità nei miei confronti non c’è in te; la tua indulgenza proviene dal maligno, e tu non hai compreso quel che pensa lo Spirito di Dio né a proposito della santità da lui effettivamente accordatami per farmi santa, né a proposito della santità da me — Chiesa non santa dei peccatori — non posseduta; tu non hai in te la santità che dovresti avere, perché diversamente non potresti credere di trovarla in me, come non l’ha nemmeno colui che deluso di se stesso accusa me di non averla affatto…».
Due quindi sono gli argomenti in questione: la Chiesa dei peccatori, e l’uomo peccatore di fronte alla Chiesa santa dei peccatori.
La Chiesa di Dio è una Chiesa di peccatori
La Chiesa di Dio e del suo Cristo è una Chiesa di peccatori. Cosa si intenda esprimere con questa affermazione, verrà da noi esposto in due serie di rilievi: il peccatore nella Chiesa; la Chiesa peccatrice.
1. Il peccatore nella Chiesa
È un dato di fede che anche i peccatori appartengono alla Chiesa. Persino i peccatori che andranno perduti per sempre possono veramente e realmente appartenere alla Chiesa.
Questa è una verità di fede che la Chiesa ha insegnato da sempre: al tempo dei Padri contro il Montanismo, il Novazianismo, il Donatismo; nel medioevo contro gli Albigesi, i Fraticelli, gli eretici Wiclif e Huss; nell’era moderna contro i Riformatori protestanti, il Giansenismo, il Sinodo di Pistoia.
L’affermazione che i peccatori — coloro che sono privi della grazia o già considerati perduti per sempre nelle previsioni di Dio — non appartengono alla Chiesa è un’autentica eresia rigettata dalla Chiesa.
Non diciamo troppo precipitosamente che ciò è una cosa tanto ovvia, della quale solo un visionario potrebbe dubitare. Di per sé, infatti, non è affatto una cosa tanto evidente come potrebbe sembrare. Di veramente ovvio c’è soltanto questo: esiste una «società religiosa» civile chiamata Chiesa cattolica, alla quale, in base alle prove esibite dall’ufficio di stato civile, appartengono non solo persone di cui si può affermare in senso molto borghese e superficiale che siano dei «galantuomini», tuttora «impregiudicati», forse ancora presentabili come campioni di virtù, anzi magari designabili col nome di «santi» (se proprio si vuol appigliarsi ad un titolo così altisonante). Questo sì è tanto evidente; ma con ciò non si sfiora nemmeno quanto si asserisce nel dogma cattolico con il termine «Chiesa», né quanto vi si dice con la parola «peccatori».
Nel presente contesto, infatti. Chiesa vuol dire entità visibile, caratterizzazione sacramentale, presenza di Dio e della sua grazia nel mondo, incorporazione storica del Cristo al momento e nel mondo attuale in attesa dell’ora in cui egli vi farà ritorno «apparendo» nella sua gloria divina; dicendo «Chiesa», si viene a dire il fattore umano, che risulta sì incommisto, ma pur sempre inseparabilmente unito al fattore divino.
E «peccatore nella Chiesa» qui non significa un uomo che incappa nel codice penale (il che, per altro, può ben capitare anche a chi è un prediletto di Dio). Significa invece «peccatore» in quest’altro senso stabilito dalla fede: un uomo cui effettivamente manca la grazia di Dio, ossia un uomo che cammina lontano da Dio, un uomo legato ad un destino che forse con sinistra consequenzialità giungerà sino ad evolversi in eterna sua rovina.
Ora, è proprio questo peccatore che appartiene a questa Chiesa; e non solo è iscritto nei suoi registri ufficiali civili, ma è suo membro effettivo, è un frammento visibile della grazia incarnata nel mondo, un membro del Corpo di Cristo!
Ciò si può dir forse davvero ovvio? È proprio qualcosa che l’esperienza ci dice facilmente e senza possibilità di dubbi? Oppure non è una verità che, nella sua inconcepibile sublimità, lascia indietro di parecchie lunghezze tutto quanto possono eccepire le accuse e le proteste contro la non-santità della Chiesa?
Eppure, questa verità è chiaramente rivelata nella Sacra Scrittura e nella tradizione.
Il Regno dei cieli è simile ad una rete, che dal mare del mondo trae pesci buoni e cattivi. Solo alla riva dell’eternità, solo alla fine dei tempi, gli angeli del giudizio separeranno i cattivi dai buoni, gettandoli nella fornace ardente (Mt 13,47-50). Al banchetto nuziale del Regno dei cieli, si assideranno anche persone che non indossano la veste nuziale, le quali finiranno per venir sbattute fuori legate mani e piedi (Mt 22,11 ss). Coloro che al pari delle vergini attendono con ansia l’arrivo dello Sposo, a lungo andare non avranno tutti olio bastante per le loro lampade (Mt 25,1-13). Ci sono dei «fratelli» che, per via della loro disobbedienza alla Chiesa, divengono infine uguali ai pagani e ai pubblici peccatori (Mt 18,17). Anche il maggiordomo preposto ai domestici del padrone può venir respinto e licenziato (Mt 24,45-51).
Ciò che il Signore insegnò con queste parabole vien testimoniato anche dagli Apostoli: Io conosco le tue opere; tu passi per vivo, ma in realtà sei morto (Ap 3,ls). Ecco il punto più impressionante: si passa appunto per vivi, ma in realtà si è morti.
Alla Chiesa dei primi secoli risultava piuttosto difficile esprimere senza tremare questa verità di fede.
E ancora nel caso di S. Agostino, che nella storia dei dogmi ha assunto una sì grande importanza per questa questione durante la lotta contro i Donatisti, non è affatto chiaro se, con la sua teoria del grano e della pula, delle due città di Gerusalemme e di Babilonia frammiste tra loro, consideri sempre nettamente e decisamente i membri morti come veri membri del Corpo di Cristo, oppure se invece si limiti a pensare che la linea di demarcazione tra le due città esista indubbiamente fin da adesso, ma attenda la fine dei tempi per esser rivelata.
Sotto questo aspetto, la coscienza della fede nutrita dalla Chiesa è andata man mano chiarendosi nel corso dei secoli, sino a cristallizzarsi nella seguente verità di fede: esistono dei peccatori, e questi appartengono alla Chiesa. Nella Chiesa esistono tanto il peccato quanto le omissioni colpevoli E questi peccatori e rinunciatari costituiscono una componente intrinseca della corporeità e dell’estrinsecazione fenomenica di quella divina salvezza e di quella divina grazia che noi designamo col nome di Chiesa
L’appartenenza del peccatore alla Chiesa va naturalmente vista anche da un altro lato, ossia delimitata sotto il suo aspetto negativo. Il peccatore non appartiene alla Chiesa nello stesso senso pieno in cui vi appartiene il giustificato.
Infatti, è evidente che si può e si deve parlare di una appartenenza alla Chiesa in tutte le direzioni e dimensioni in cui la Chiesa storica si estende; e quindi, chi non appartiene alla Chiesa anche in una sola dimensione, non può venir considerato membro in senso pieno.
Ora (tanto per riferirci solo alle più recenti dichiarazioni ufficiali del Magistero ecclesiale), sia Leone XIII nella sua Enciclica «Satis cognitum» (1896), sia Pio XII nell’Enciclica «Mystici Corporis Christi» ribadiscono che sarebbe un nestorianesimo ecclesiologico e un naturalismo razionalistico il voler vedere nella Chiesa null’altro che un’organizzazione giuridica esteriore, ossia solo una società visibile, una «confessione religiosa» nel senso civile e sociale della parola. Viceversa, essa è il Corpo vivo di Cristo, animato dal Santo Spirito di Dio, nella cui realtà rientrano la vita divina, la grazia, la possente energia del futuro «eone».
Siccome però il peccatore non possiede questo Santo Spirito, è evidente che non appartiene affatto alla «Chiesa» nel senso pieno citato poc’anzi.
Il presente asserto non comporta alcuna contraddizione con le affermazioni da noi precedentemente enunciate, tratte dal dogma della Chiesa, in cui il peccatore vien dichiarato «sic et simpliciter» membro della Chiesa. In tali affermazioni infatti, il termine «Chiesa» viene assunto nel senso di società esteriore, perché solo a questa condizione l’intima privazione della grazia può risultare senza importanza per il peccatore, agli effetti della sua appartenenza alla Chiesa.
Che questa idea della Chiesa non contraddica ai suaccennati insegnamenti di Leone XIII e di Pio XII, lo si deduce dal seguente ragionamento: la Chiesa possiede una struttura in certo qual modo sacramentale. Ora, nel sacramento bisogna fare una distinzione tra vero e proprio segno sacramentale (e relative condizioni per la sua «validità»), e segno sacramentale in quanto produce effettivamente la grazia essendone come impregnato. I due concetti vanno tenuti distinti uno dall’altro, giacché in date circostanze può sussistere un «sacramento valido», il quale però non produce affatto la grazia in colui che lo riceve.
Rammentiamo che la Chiesa è sotto un certo aspetto il sacramento fontale; occorre quindi fare una distinzione tra la sua corporeità visibile in quanto segno della grazia, e la sua corporeità in quanto realtà impregnata della grazia e di conseguenza distinguere tra una appartenenza (meramente) «valida» e un’appartenenza «fruttuosa» alla Chiesa.
Il peccatore possiede il primo tipo di appartenenza alla Chiesa, mentre non possiede affatto il secondo. Tuttavia, questa distinzione non degrada la stabile appartenenza del peccatore alla Chiesa, riducendola quasi ad una appartenenza anodina, di stampo puramente esteriore e canonico. Il peccatore infatti appartiene, sì, ancora al grembo visibile della Chiesa; ma la sua appartenenza tangibile ha ormai cessato di essere il segno efficace della sua appartenenza invisibile alla Chiesa, in quanto comunità santa e animata dallo Spirito. Il peccatore ha come trasformato questo segno in una menzogna (analogamente a quanto succede a chi riceve un sacramento in modo valido, ma indegnamente). Sì, perché ha strappato a questa pur perenne appartenenza alla Chiesa il significato e l’efficacia a cui è preordinata per sua stessa natura, privandoli dell’intimo e vivo collegamento dell’uomo con Dio e col suo prossimo accordatoci nello Spirito Santo.
2. – La Chiesa è peccatrice
Passiamo ora alla costatazione di ciò che la nostra dottrina di fede esprime in tutta la sua incisività: la Chiesa è peccatrice.
Già in base a quanto abbiamo sin qui detto, non si può più affermare coerentemente con la fede che, sì, «nella» Chiesa vista come organizzazione confessionale esteriore esistono realmente dei peccatori, ma questo fatto non implica alcuna affermazione nei confronti della Chiesa stessa. Abbiamo già visto, infatti, come questi peccatori — per insegnamento tassativo della Chiesa — siano realmente membri, parti, e quindi componenti integrali della visibilità della Chiesa medesima. Ora, ciò va ulteriormente lumeggiato. Per meglio comprenderlo, dobbiamo tener presenti due cose.
Se noi dicessimo: d’accordo, nella Chiesa esistono dei peccatori, ma questo fatto non ha nulla a che vedere con la Chiesa vera e propria, accamperemmo un concetto idealistico di Chiesa che dal punto di vista teologico è assai problematico. La Chiesa sarebbe allora un’idea, un ideale, qualcosa che deve farsi, un corpo in cui ci si può arruolare per vocazione uscendo dalla realtà concreta, una finalità che si può raggiungere solo avvicinandovisi lentamente e con una parabola asintotica.
Naturalmente si può pur sempre amare qualcosa in cui si ha fede, qualcosa di inafferrabile, qualcosa che non viene nemmeno sfiorato dalla miserevole e piatta realtà quotidiana. Col concetto teologico di Chiesa, però, non si intende affatto alludere a qualcosa del genere.
In tale concetto, la Chiesa è un’entità reale: è l’unica Chiesa che esiste e in cui si crede; un’entità che resta comunque e sempre anche la somma visibile e giuridicamente organizzata dei battezzati, uniti nella professione esteriore di fede come pure nell’obbedienza al Pontefice Romano. Ora, non si può affatto dire che questa Chiesa nulla abbia a che fare con i peccati dei suoi membri.
Va da sé che essa non approva i peccati; va da sé che in essa esistono pur sempre degli uomini (e forse chissà quanti) i quali devono venir designati col nome di «santi», in senso lato ma vero, anche se non ulteriormente analizzabile in questa sede. Se però essa è un’entità reale, e i suoi membri sono peccatori eppur restano suoi membri quantunque oberati dal peccato, allora è e resta anch’essa peccatrice. E quindi il peccato dei suoi figli è una macchia, una contaminazione del pur santo e misterioso Corpo di Cristo. Che la Chiesa sia peccatrice è una verità di fede, non un dato primitivo di esperienza. Ed è una verità impressionante.
C’è poi una seconda cosa da tener presente.
Se quanto siam venuti sin qui dicendo è vero, è anche evidente che i rappresentanti ufficiali della Chiesa, quegli uomini che una coscienza teologica superficiale dei laici pure cattolici considera esclusivamente come «la» Chiesa (quasi che i laici non fossero essi pure «Chiesa», quasi che rappresentassero solo un oggetto affidato alle cure della Chiesa: un errore, questo, rigorosamente combattuto dall’Enciclica ecclesiale di Pio XII), possono essere peccatori, ed effettivamente lo sono stati e lo sono tuttora in modo molto vistoso.
Una volta ammesso questo, risulta ancor più lampante che la Chiesa concreta (ripetiamo: la Chiesa è tale solo in quanto concreta!) è davvero peccatrice.
È infatti evidente che tali peccati non si limitano ad agire solo nel settore della « vita privata» di questi uomini di Chiesa, ma possono invece sconfinare quanto mai largamente anche nel campo concreto della loro azione di rappresentanti ufficiali della Chiesa.
Allorché la Chiesa agisce, dirige, prende decisioni (o non le prende quando andrebbero prese), allorché predica il Vangelo, obbligata com’è a diffonderlo in ogni tempo aggiornandolo alle condizioni storiche in cui l’uomo versa al momento, tutte queste operazioni non vengono compiute dalla Chiesa facendo leva unicamente su un principio astratto e sullo Spirito Santo; viceversa, tutto l’agire della Chiesa è al contempo l’agire di uomini concreti. E siccome questi possono peccare, siccome possono essere colpevolmente angusti di mente, egoisti, lenti, ostinati, sensuali, infingardi, questo loro peccaminoso comportamento influisce ovviamente anche nell’azione da essi esplicata come uomini di Chiesa, nell’attività da essi esercitata in nome della Chiesa come opera della stessa Chiesa concreta.
Non esiste alcun dogma in base al quale l’assistenza dello Spirito Santo, sempre operante nella Chiesa, limiti l’influsso della peccaminosità degli uomini addetti al governo della Chiesa soltanto alla loro vita privata, e non le permetta di esercitare alcuna influenza su ciò che bisogna per forza qualificare come attività della Chiesa, se non si vuol veder svaporare il concetto di Chiesa nell’ideale astratto d’una Chiesa invisibile.
Va da sé che il cristiano singolo, quando si crede autorizzato ad osarlo, può costatare tali influssi sulla sua coscienza, anzi, nel caso gli venga imposto un peccato, deve persino rifiutare l’obbedienza; ma quando non gli vien comandato alcunché di peccaminoso, non gli è lecito sottrarsi alla obbedienza verso la Chiesa (nemmeno quando egli sia dell’opinione che l’ordine da lui ricevuto sia almeno in parte ispirato a peccaminosa ristrettezza di idee, ad autoritarismo giuridico e bramosia di dominio). E, soprattutto, non può contestare — ecco ciò che nel caso nostro più ‘interessa — che tali azioni degli uomini di Chiesa siano davvero azioni della Chiesa stessa. Ora, dato e concesso questo, si è bell’e ammesso che la Chiesa nel suo agire può esser peccatrice.
Che ciò però avvenga contro l’intimo impulso datole dallo Spirito, contro le norme e le leggi ecclesiali predicate da sempre, è evidente.
Il lato più grandioso, in questa fede nella Chiesa peccatrice, sta nel fatto seguente: che essa può realmente fare questo, pur rimanendo (a differenza di quanto succede in tutte le organizzazioni umane allorché decadono dal loro ideale primitivo) la Sposa di Cristo, il tempio dello Spirito Santo, la sola Chiesa in cui c’è salvezza, dalla quale non si può mai decadere richiamandosi al suo ideale e dicendo che essa sostanzialmente non sarebbe più quella che era « un tempo » (e che invece non è mai stata!), quella che dovrebbe e pretenderebbe di essere.
Soggiungiamo subito che le cose non stanno affatto in modo tale, quasi che la Chiesa sia una unità paradossale, formata dal peccato ben percettibile e dalla grazia invisibile. Essa invece è santa perché è sempre in vitale contatto con Cristo, scaturigine fontale d’ogni santità. E santa perché tutta la sua storia coi suoi alti e bassi, in forza di quel suo principio vitale che è lo Spirito Santo, si protende verso l’ultimo giorno al quale sono preordinati la sua verità, la sua 1egge e i suoi sacramenti: verso il giorno in cui Dio stesso apparirà svelato nel suo mondo. È e rimane infallibile allorché, sotto certi presupposti qui non ulteriormente precisabili, prende una solenne decisione in materia di fede.
I suoi sacramenti sono indipendenti dalla dignità di chi li amministra, sono insigniti d’una validità e d’una efficacia oggettiva, sì da risultare santi e santificatori.
Non è mai esposta (come è poco appariscente questo miracolo dell’energia e della grazia dello Spirito Santo, eppure è un prodigio che si rinnova continuamente attraverso i secoli!), ripeto, non è mai esposta alla tentazione di accomodare la verità e le norme predicate dai suoi pur molto umani araldi, adattandole alla debolezza e alla mediocrità degli uomini.
Essa, in un mondo peccatore, si è ingaggiata in ogni epoca al servizio esclusivo della santità di Dio e del suo Cristo; e, se ricordassimo quanto volentieri l’uomo allinei i suoi principi alle sue azioni, sapremmo anche vedere nella perenne «contraddizione» tra la santa predicazione e la vita umana dei banditori del Vangelo ecclesiale non tanto uno scandalo, quanto piuttosto una prova dell’efficacia con cui lo Spirito di Dio sa operare nella Chiesa santa.
La Chiesa, inoltre, in tanti suoi membri è di fatto adorna d’una tale santità, costatabile perfino empiricamente, da portar impresso sul volto anche nella sua fisionomia esterna — per l’uomo di buona volontà, illuminato dalla grazia della fede — un perenne motivo di credibilità e una irrefragabile testimonianza della sua missione divina.
Essa è stata davvero lungo tutti i secoli, in una maniera nient’affatto automatica ma anzi altamente prodigiosa, la madre feconda di uomini santi, la Chiesa santa, la Sposa di Cristo, il cui aspetto attuale promette già di per se stesso al credente che un giorno sarà la Sposa senza macchia e senza ruga pronta alle nozze con l’Agnello, allorché nella luce della vita eterna apparirà manifestamente ciò che essa è già sin d’ora pur sotto la veste di peccatrice.
Tutto ciò, per altro, non dà alla Chiesa e a noi in quanto suoi figli il diritto di distanziarla quasi orgogliosamente e altezzosamente dal peccato, il quale non sussiste solo nel mondo ma anche nella Chiesa stessa, e per il quale essa è realmente peccatrice: peccatrice (anche là dove è già molto migliore di quanti stanno fuori dal suo grembo) in una maniera in cui solo essa può esserlo. Sì, perché soltanto essa può col suo peccato sfigurare quella perenne visibilità di Cristo nel mondo che è lei stessa, nascondendo così Cristo: e far questo davanti agli uomini che devono cercarlo per la vita e per la morte!
D’altra parte, se è vero che nel «quadro fenomenico» della Chiesa sussistono tanto la santità quanto il peccato (non dimentichiamo che la Chiesa è essenzialmente una «estrinsecazione fenomenica», un segno storicamente percettibile della grazia di Dio operante nel mondo), non è però detto che nella Chiesa peccato e Santità abbiano lo stesso identico rapporto col principio essenziale intrinseco della Chiesa, e quindi costituiscano due componenti uguali della sua essenza. La sua santità storicamente percettibile è l’espressione tipica di ciò che essa è, di ciò che essa continuerà indistruttibilmente e inalienabilmente a restare fino alla fine dei tempi: la presenza di Dio e della sua grazia in mezzo al mondo.
La Chiesa è sempre molto più d’una semplice associazione, molto più d’una «Chiesa giuridica» e d’una organizzazione confessionale, perché s’è indissolubilmente vincolata ad essa il Santo Spirito di Dio.
E questo Spirito, celato in se stesso, continua a crearsi una visibilità che convince il mondo alla sua perenne presenza proprio nella tangibile santità della Chiesa. Ora, è appunto in questa santità — non nel peccato! — che si afferma in modo «tipicamente fenomenico» la gloria interiore, che a sua volta manifesta l’inalienabile eredità di cui è plasmata la sua figura.
A differenza di quanto succede a tutte le altre associazioni storiche, ivi inclusa la « Chiesa » dell’Antico Testamento, la corporeità della nostra Chiesa non può mai venir svisata dalla colpa in modo tale, che lo Spirito da cui è animata si ritiri da lei o non possa più manifestarsi sul piano visibile e storico. Le forze della morte, infatti, non prevarranno mai/ contro di essa (Mt 16,18).
Il peccato invece, che affligge la sua struttura fenomenica, inerisce sì effettivamente alla Chiesa stessa in quanto essa è essenzialmente « corpo » e figura storica, e in quanto può esser peccato appunto in questa dimensione; la scaturigine esistenziale del peccato, infatti, ossia il «cuore» da cui esso promana, giace nascosta sotto la stratificazione storica e sociale su cui il peccato sempre e necessariamente si attua, e su cui esso si trasforma in peccato della Chiesa. Ma il peccato sussistente nella Chiesa non è affatto l’espressione rivelatrice di ciò che la Chiesa è nella sua radice più vitale: è invece una sua contraddizione mascheratrice, è in certo qual modo una malattia esogena della sua corporeità, non una tara ereditaria endogena della Chiesa stessa (benché il peccato tradisca pur sempre «quel che c’è nell’uomo»). La colpa, presa in senso stretto, è sempre un atto di opposizione a Dio e al suo Cristo, il quale pur essendo immune dal peccato ha sofferto e vinto il peccato; è un atto di avversione allo Spirito di Cristo, tramite il quale egli ha santificato la sua Sposa con la parola di vita nell’acqua del battesimo.
La colpa è quindi anche una opposizione all’intima essenza della Chiesa. Va da sé dunque che non è lecito peccare affinché la grazia di Dio risplenda e sovrabbondi su di noi (Rm 3,5; 6,1): una verità, questa, che corre il rischio di venir offuscata anche oggi da una mistica del peccato, di stampo dialettico e gnostico, serpeggiante alla chetichella persino tra i cattolici. La Chiesa quindi non è peccatrice per far sì che la grazia di Dio possa rivelarsi in maniera traboccante; il suo peccato resta sempre una realtà in netta contraddizione con la sua essenza; mentre la sua santità costituisce una rivelazione della sua essenza. A questa affermazione, però, bisogna subito affiancare una duplice precisazione, affinché la distinzione logica dei concetti (che è anche la espressione dei reali rapporti intercorrenti tra loro) non sembri eliminare l’oscuro eppur salvifico miscuglio costituito dalla realtà.
Innanzitutto: nell’economia concreta della salvezza, il cui asse centrale è la croce di Cristo, anche il dolore della colpa commessa, la sensazione umana di essersi cacciati in un vicolo cieco, l’angoscia e la desolazione insite nel peccato, l’oscurità anche terrena che la colpa e il dolore ad essa conseguente ci fanno spesso dilagare nell’anima lasciandoci inebetiti, sono tutti fattori che possono assurgere a manifestazione e a fattiva accettazione della croce di Cristo nel mondo.
In Cristo, la conseguenza rivelatrice del peccato può servire a superarlo definitivamente. Quando la Chiesa prova dolore del suo peccato, subisce anche la redenzione della sua colpa; essa infatti si pente della sua colpa in Cristo, nel Crocifisso, tanto più che il peccato — in quanto non sussiste solo nel segreto del «cuore», ma anche nel mondo e quindi nella Chiesa — è, sì, peccato (giacché il «cuore» deve per forza realizzare la sua azione, se tale vuol essere, sempre proiettandola nel mondo), ma è al contempo anche già conseguenza del peccato (in quanto è una estrinsecazione corporea della effettiva cattiveria nascosta del cuore). Ora il peccato, una volta compiuto nella Chiesa, offre alla Chiesa appunto la possibilità di pentirsene e di vincerlo.
Pertanto, allorché nella Chiesa c’imbattiamo nel peccato, non dobbiamo mai dimenticare questo fatto. Normalmente non ci scandalizziamo alla vista del peccato della Chiesa, bensì piuttosto alle conseguenze di tali peccati. Ad esempio, per lo più non ci scandalizziamo di fronte alla «durezza di cuore» del clero in quanto è privo d’amore verso Dio, ma in quanto non dà nulla a noi, oppure perché il suo «diniego» umilia il nostro orgoglio di appartenere alla santa Chiesa di cui figuriamo membri di fronte ai pagani, «compromettendoci» davanti a coloro che ne sono fuori.
Perché non amiamo la Chiesa tanto intensamente da sopportare umilmente e in silenzio l’onta dei suoi peccati? Ciò la santificherebbe assai più di tutte le nostre proteste contro gli scandali insorgenti nella Chiesa, per quanto opportune e lodevoli spesso possano essere, per quanto chi protesta non debba venir biasimato se non da colui che prima non è incappato a sua volta in una protesta, da colui che riconosce la sua colpa e si sforza di emendarsi.
In secondo luogo: benché nella Chiesa il peccato sia «soltanto» una opposizione al suo Spirito, una distorsione e una malattia del suo quadro fenomenico, non per questo il peccato le risulta inoffensivo.
No, perché la Chiesa deve costituire la manifestazione della grazia e della santità di Dio nel mondo, deve essere il tempio dello Spirito Santo. Invece, nella Chiesa, i peccatori trasformano questa sua fisionomia in un’espressione della malvagità del loro cuore, in una «spelonca di ladri». Questa tremenda verità permane sempre, quantunque occorra anche affermare che nel quadro della Chiesa peccato e santità non stanno affatto in rapporto identico con la sua «vera realtà» interiore.
(…)